Londra, 27 febbraio 1812. Alla Camera dei Lords si discute l’approvazione del Frame Breaking Act, una legge volta a reprimere i «moti dei luddisti», operai che facevano parte di organizzazioni clandestine di resistenza all’automazione industriale. Partecipa al dibattito il trentenne George Gordon Byron, voce fuori dal coro, che pronuncia uno storico discorso a sostegno di questi operai che spaccavano a martellate telai meccanici e che vedevano in queste macchine una minaccia per il loro posto di lavoro.
Nelle zone manifatturiere del Nord della Gran Bretagna, si erano difatti verificati diversi disordini che erano stati ispirati dall’operaio Ned Ludd, la cui reale esistenza non è neanche storicamente accertata, fatto salire agli onori della cronaca nel 1779 per aver fatto a pezzi due telai di una fabbrica di Nottingham. A partire dal 1811, gruppi di lavoratori che si ispiravano a Ned Ludd cominciano a protestare contro quei produttori che usavano le macchine in sostituzione del loro lavoro qualificato; simili agitazioni scoppiano nelle industrie tessili delle contee di Leicester e Derby e il fenomeno si estende nel gennaio del 1812 nello Yorkshire, per arrivare fino al nord-ovest, intorno a Manchester (Lancashire), zona di coltivazione del cotone, tra febbraio e aprile dello stesso anno. A questi lavoratori, così come a Lord Byron, la macchina appariva non come uno strumento al servizio dell’uomo, bensì un qualcosa che a lui si contrapponeva, sottraendogli il lavoro e condizionandone la vita.
Quel 27 febbraio del 1812, Lord Byron è pronto a dare sostegno ai luddisti, scagliandosi contro una legge crudele che non tiene conto di un popolo allo stremo: a suo parere, con l’accoglimento della norma si sarebbe solo esasperata una violenza degna di «una giuria di becchini e un giudice servo».
Difatti, all’approvazione a grande maggioranza del Frame Breaking Act, in un Parlamento preoccupato dall’estensione della rivolta popolare, seguirà l’apertura di un processo di massa che si concluderà nel gennaio del 1813 con una dura repressione, con la deportazione dei rivoltosi e con l’impiccagione di 15 di loro. Il poeta romantico Byron aveva deplorato gli effetti disumanizzanti della tecnologia, opponendosi fortemente a ogni forma di progresso.
Di parere opposto è lo scienziato Charles Babbage: ne dà manifestazione in una sua aspra critica del 1812 rivolta a tutti coloro che avevano accolto e approvato l’appello luddista alla distruzione delle macchine, compreso Byron. Babbage sostiene che non è possibile sfuggire al futuro e che danneggiare gli imprenditori avrebbe generato conseguenze disastrose nella vita dei lavoratori. Aveva fatto notare, difatti, che la distruzione dei telai non aveva fatto altro che spingere i padroni a spostare le fabbriche in diverse zone del paese, lasciando in eredità una disoccupazione devastante.
Tuttavia, Babbage aveva sollecitato gli imprenditori a mettere in atto programmi di compartecipazione ai profitti, in modo da dare ai lavoratori degli incentivi per incrementare la loro produttività. Secondo la sua opinione, il governo inglese avrebbe dovuto compiere qualsiasi sforzo per ampliare le conoscenze scientifiche del Paese, necessarie per il benessere economico, e comprendere che il progresso nelle scienze, nella tecnologia e nell’industria necessitava di un maggior impiego di strumenti meccanici.
Babbage stesso aveva pensato e progettato una macchina che non si limitava a svolgere calcoli matematici; era un dispositivo, diremmo oggi, general purpose, in grado di elaborare complessi ragionamenti. Nella sua idea, esisteva una relazione tra la macchina che poteva sostituire l’uomo nelle fatiche del calcolo e la macchina che poteva sostituire l’uomo in ogni altra fatica. Lo sostenne nella sua opera del 1832, On the Economy of Machinery and Manifactures, un saggio che influenzò grandemente anche Karl Marx, nel quale propose la sua idea sull’organizzazione scientifica del lavoro.
Per riferirsi alla sua macchina, Babbage non usò il termine machinery, ma la chiamò engine, esattamente come definiva il telaio meccanico, così come tutte le altre macchine utensili. Nella progettazione della sua Analytical Engine, aveva tratto ispirazione proprio dalle schede perforate che comandavano i telai meccanici ideati dal francese Joseph-Marie Jacquard. Questi telai non erano solo macchine meccaniche. Erano macchine programmate mediante schede perforate sulle quali era codificata l’abilità dell’uomo nel tessere disegni complessi e generare pregiati broccati.
Il matematico inglese si era accorto che mediante l’uso delle medesime schede perforate, l’inventiva e le abilità umane avrebbero consentito di programmare una macchina dedicata alla computazione. Senza saperlo, aveva proposto la moderna idea di computer programmabile: esattamente come i telai meccanici stavano sostituendo uomini e donne nelle manifatture tessili, si andava verso la direzione della «computazione automatica».
Rievocare questa vicenda sembra quanto mai attuale.
Assistiamo all’emergere di questi stessi timori, al moltiplicarsi di dibattiti e opinioni continue sui «pericoli dell’Intelligenza Artificiale» che toglierebbe il lavoro, aumenterebbe le disuguaglianze, minaccerebbe il nostro futuro. Tutti ne parlano, pochi la conoscono, nessuno sembra al momento in grado di prevederne l’evoluzione. E se l’Intelligenza Artificiale nelle sue diverse forme viene vista come il telaio meccanico dei nostri giorni, andrebbe precisato che, così come qualsiasi tecnologia dirompente, va governata e gestita con una visione più ampia, legata principalmente alle sue potenzialità.
La Digital Disruption, il passaggio che ci ha portato a convivere con computer, tablet e smartphone e che ha trasferito le nostre esistenze nella Rete, è stato un avvenimento storico indiscutibile. Questo passaggio ha attraversato, e sta attraversando tuttora, diverse fasi, dal Machine Learning, all’Internet of Things, dai Big Data, all’Artificial Intelligence. Questi cambiamenti, che sono soggetti a un’accelerazione costante, generano un processo irreversibile di trasferimento delle attività umane alle macchine. Processo a cui, a mio parere, dobbiamo guardare con attenzione.
Troppo spesso si parla di un avvenire nel quale il lavoro umano tenderà a scomparire perché il mondo sarà governato da macchine intelligenti e autonome. Si dà per scontato che il carro della storia sia stato lanciato in una direzione verso la quale un essere umano inconsapevole va incontro a un «fato tecnologico». Manca, in questa interpretazione, proprio una lettura storica e critica.
Accettare questo modo riduttivo di concepire il futuro è rinunciare alla ricchezza, alla bellezza del pensiero umano. Fare chiarezza sul tema, aiutando a capire come convivere con la trasformazione in atto, è un imperativo che non può essere trascurato. Conoscere le tante potenzialità, ma anche i numerosi pericoli, che questa evoluzione porta con sé rappresenta il primo passo per una sua gestione più responsabile e consapevole. E se le principali preoccupazioni di questa pervasività tecnologica sono legate a timori occupazionali, bisognerebbe guardare alle evoluzioni delle singole professioni non trascurando il fatto che ci sarà bisogno di competenze nuove, diverse, per gestire questi cambiamenti.
Non bisognerebbe dunque farsi trovare impreparati. Non dovremmo essere disinformati o, peggio, male informati. Ripetere, ingigantire, esaltare messaggi sbagliati non aiuta a creare consapevolezza.
Bisognerebbe avere maggiore senso critico, partendo dal presupposto che per usare correttamente gli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione, dovremmo sfruttarne le potenzialità. L’eccessiva enfasi un po’ consumista che ci spinge a disporre del «prodotto e basta», fa sì che si vada purtroppo a perdere di vista il processo, la storia, di quello che c’è dietro.
Del resto, ce lo aveva già detto Charles Babbage nel 1832, in un periodo in cui le macchine iniziavano ad accompagnare l’uomo in ogni sua attività: «mostrare gli effetti e i vantaggi che risultano dall’uso degli strumenti e delle macchine, cercare di classificare il loro modo d’azione, e finalmente descrivere i motivi e le conseguenze dell’applicazione dei mezzi meccanici per supplire alla forza e alla destrezza del braccio dell’uomo», è il modo migliore per capire il progresso e per sfruttarlo al meglio.