Covid-19 sta contagiando quasi 30 milioni di persone e causando un milione di morti; ha provocato una crisi economica che oscura quelle post-belliche; incide negativamente sull’istruzione e su ogni forma di rapporti sociali.
Conforta però l’Earth Overshoot Day 2020. Il giorno nel quale risultano esaurite tutte le risorse prodotte dal pianeta in quell’anno da 50 anni si avvicinava inesorabilmente: aveva intaccato il mese di luglio. Grazie a Covid-19, nel 2020 l’Overshoot Day ha fatto un significativo balzo indietro ed è tornato a valori del 2005. Anche le immagini della Terra arrivate dallo spazio sono confortanti, molto diverse da quelle dell’anno scorso. Analoghe sorprese nei dati ambientali e nelle immagini di vari contesti naturali. Tutto questo – insieme a qualche considerazione su dove, nei vari Paesi, si è prevalentemente sviluppata la pandemia – non consente più di ignorare la stretta relazione tra pandemia e qualcosa di quanto fin qui è sembrato progresso e modernità.
Scienziati ed esperti analizzano da tempo la drammatica influenza delle attività umane sulle questioni ambientali. Negli ultimi 50 anni hanno registrato eccezionali impennate: valutano che oggi l’uomo incida sull’accelerazione dei cambiamenti climatici 170 volte più che le forze naturali che, sole, incrementerebbero le temperature globali di appena 0,01°C ogni 100 anni. Questa consapevolezza spinge verso sostanziali e concreti accordi internazionali sui quali lavorano da anni le Conferenze delle Parti (COP 26, in programma nel novembre 2021). Molto riguarda anche l’ambiente costruito che continua nel suo processo di profonda trasformazione energetica, bioclimatica ed ecologica.
Questa però deve essere anche l’occasione per mettere a fuoco nuovi paradigmi per le città ed affrontare temi di umanizzazione e civilizzazione. Non basta ridurre gli impatti sull’ambiente globale: parafrasando un detto famoso, occorre far sì che il costruito, l’ambiente di vita, possa essere davvero il prodotto di popoli felici che fa felice i popoli. Quindi habitat che abbiano soprattutto senso e anima.
Che il costruito ormai sia spesso una patologia del territorio è evidente: a scala planetaria e con sintomi diversi nei vari contesti, non tanto per le vistose diversità demografiche quanto perché è la stessa idea di città ad essere diversa nelle differenti culture.
Circola una fakenews: «dal 2007 la popolazione urbana ha superato il 50% di quella globale». Informa che da allora metà della popolazione mondiale ha abbandonato le attività agricole; non che vive in città, perché certo favelas o suburbi non sono città. La notizia peraltro non riguarda l’Italia o l’Europa, sotto il profilo demografico sempre meno rilevanti a scala globale e dove gli addetti all’agricoltura sono da tempo percentuali minime. Anche qui però, come dovunque, crescono sia il consumo di suolo sia la corrosione delle città dovuta all’urbano, due termini qui strumentalmente contrapposti e utilizzati per distinguere il costruito aggregante dal costruito disgregato. Questa corrosione ha fatto sì che, mentre in passato le città avevano confini fisici, oggi abbiano limiti amministrativi, peraltro impropri e paralizzanti.
C’è chi sostiene che l’uomo sia oggi il vero virus che infesta il pianeta. Tesi che ha del vero per quanto concerne le questioni ambientali, ma dimentica il percorso Da animali a déi, per riprendere lo splendido titolo dell’ancora recente libro di Yuval Noah Harari. Per quanto riguarda il costruito, due secoli fa definito da Goethe «seconda natura finalizzata ad usi civili», non è stato sempre così. L’era della separazione si è accentuata con funzionalismo e razionalismo: generando apparenti risoluzioni a singoli problemi contribuisce fortemente a produrre l’improprio contesto, non solo fisico, nel quale siamo immersi. Tutto è poi accentuato da crescita demografica, miti illusori e assenza di visione sistemica.
Da tempo il costruito prevalentemente ingombra i territori. Nel 1973, con un paragone agghiacciante, Konrad Lorenz lo aveva inserito fra «Gli otto peccati capitali della nostra civiltà»: i singoli edifici hanno perso l’informazione, quanto dovrebbe tenerli insieme e renderli parte dei loro contesti.
Eppure le città sono nate quando il senso del non-costruito ha cominciato a prevalere sul senso dei singoli edifici che lo definivano, cioè quando l’agorà, o quanto lo precede, assume per la comunità significato più intenso rispetto a quello del tempio o dell’abitazione del capo. Nelle città tutto era insieme, tutto aveva forza e senso per strette relazioni fra abitanti, attività, edifici: questi intrecci favorivano la creatività, l’evolversi del pensiero e della comunità. Per questo città e civiltà hanno comune radice etimologica, come lo avevano polis e politica.
Reagendo a caos e commistioni proprie della rivoluzione industriale, funzionalismo e razionalismo hanno accentuato distinzioni e separazioni. Espressione di questa cultura, l’attuale sistema normativo definisce o regola con ossessiva puntualità ogni aspetto e ogni componente di un edificio, non le relazioni fra i singoli edifici e fra questi con l’ambiente, i paesaggi, le preesistenze. Il costruito quindi si è andato evolvendo secondo una linea del tutto opposta a quella degli esseri viventi che, da primordiali autonomie, ha portato a super-individualità e socialità. Per questo il costruito contemporaneo, oltre a continuare in impropri consumi di suolo, scardina l’idea di città.
Il passaggio da città a urbano, favorito anche dal diffondersi dell’automobile, esplode nel secondo dopoguerra. Questa perdita di civiltà deriva anche da regole improprie, sia edilizie che urbanistiche: fino ad allora iconici, in Italia dal 1942 i piani urbanistici introducono la zonizzazione e diventano simbolici. Inoltre, nei primi anni Sessanta, s’infrange la proposta di una vigorosa riforma urbanistica. Non incideva su questi temi, ma avrebbe dato tutt’altro aspetto ai nostri territori.
È ambizione ricorrente. Nell’antica Grecia si pensava ai requisiti, non alla forma della città. Per Platone la città ideale era essenzialmente etica, simbolo di teorie politiche che sfociano nell’utopia. Kallipolis doveva essere una città aristocratica, costruita e governata secondo giustizia. Visione politica e assetti statuali non avevano necessità di tradursi in forme architettoniche compiute, anzi Platone considerava inopportune soluzioni di assoluta regolarità: deprecabili oltre che esteticamente sgradevoli. Per Aristotele era anche questione di dimensione: la città ideale doveva potersi abbracciare con lo sguardo dall’alto di un colle.
È fra il XV ed il XVIII secolo che la «città ideale» assume forme geometriche, astratte: si isola e si difende. Il mito della città ideale accompagna la nostra civiltà e sconfina nell’utopia. Ordine, immagine, geometria, autonomia. Non così però per gli illuministi per i quali, di nuovo, come per Platone, la forma della città non era questione centrale mentre lo era delineare un’utopia morale, civile e politica della società. La città ideale è stata comunque sempre altro, sempre distante dalla città reale.
A fine ’800, alla Ciudad Lineal di Soria y Mata (1882), modello che esprime fiducia nei trasporti collettivi: tutto nei 200 metri dall’asse ferroviario, risponde Camillo Sitte con L’arte di costruire le città (1889) riaffermando il prevalente interesse per la percezione e per l’immagine.
Nel ’900 prende corpo l’istanza organica: Wright si oppone alla congestione urbana e sogna Broadacre City, di fatto proprio negli anni in cui la Carta di Atene enuncia i principi fondamentali della città razionalista e il diktat delle separazioni funzionali che ancora oggi affliggono. Questi principi cominciano ad essere scalfiti nel VI CIAM, teso non più a riflettere su successioni ordinate di funzioni, ma su come costruire ambienti a misura dei bisogni materiali ed emotivi dell’uomo. Tema ripreso nell’VIII CIAM (Hoddeston 1951, Il cuore della città) mentre le città reali continuavano a trasformarsi seguendo logiche del tutto diverse. Richiamando la «sezione di valle» di Patrick Geddes, il Manifesto di Doorn (1953) è una prima razionale reazione: sfocerà nelle tesi del Team X «in search of a utopia of the present». Osservando che nel passato le città reali hanno sempre avuto elementi unificanti, un fiume, l’acropoli, una particolare conformazione del suolo, Alison e Peter Smithson riconoscevano il ruolo di elemento unificante che negli ambiti urbani contemporanei, enormemente dilatati, non più regolati dalle discipline visive, andavano assumendo le freeway. Negli stessi anni utopia e mito della città ideale animano la Ville Spatiale di Yona Friedman, un po’ dopo Arcosanti di Paolo Soleri.
Oggi non sono obiettivi di immagine che portano a prevedere «corridoi ecologici» e spine di verde o che fanno riflettere sulle ricadute sui nostri ambienti di vita delle ricerche sul Quarto Ambiente: in ambienti finiti è essenziale la sapiente gestione di risorse e rifiuti.
Oggi c’è necessità di metamorfosi, di immettere idee di città nell’urbano, di trasformare le città reali. L’utopia quindi non si identifica più in organismi astratti. Specie in realtà oberate di preesistenze, dove «costruire nel costruito» è solo un vecchio slogan è ma soprattutto un imperativo etico, la scommessa è rigenerare l’esistente in chiave ecologica ed ambientale, ma formulando l’idea di città verso cui tendere e sapendola declinare diversamente nei singoli contesti.
Leggi la seconda parte della riflessione di Massimo Pica Ciamarra
Piani umanistici contemporanei