Dario Fo, Franca Rame e le lacrime per Salvador Allende

Esistono date che appartengono alla tua giovinezza, al tuo dolore, alla tua ribellione. In questi giorni di estate al tramonto, mi avvolge, nitido, un ricordo. Di molti anni fa. A Torino. Pochi giorni dopo il vile golpe in Cile: la nobile morte del presidente socialista Salvador Allende, democraticamente eletto dal popolo e per questo inviso agli Stati Uniti, e il sogno frantumato di Unidad Popular. 11 settembre 1973.

Cominciava il buio, il terrore firmato da Augusto Pinochet e dagli altri assassini in divisa. Il movimento studentesco e quello operaio organizzarono, pochi giorni dopo l’incendio del Palazzo presidenziale della Moneda, un incontro – di rabbia e di solidarietà – al Palasport di Parco Ruffini. Fu una notte indimenticabile.

Avevo diciassette anni. Cantarono gli Inti-Illimani, per loro fortuna in tournée in Italia. «El pueblo unido jamás será vencido». Non poteva mancare il nostro inno: «Contessa» di Paolo Pietrangeli e poi arrivarono loro: Dario Fo e Franca Rame.

Ricostruirono gli ultimi istanti di vita di una coppia di giovani cileni, di sinistra, che da una radio clandestina, informava dei bombardamenti, del colpo di stato, e di scappare, subito, il più in fretta possibile: perché i militari stavano uccidendo e catturando. E mentre parlavano, i carabineros, con gli anfibi pesanti e l’odio tra i denti, salivano scale. Per prenderli, quella ragazza e quel ragazzo, e farli tacere, tacere per sempre. Ma loro, figli dell’utopia e della speranza di un mondo nuovo, continuano a parlare, anche se sentono quei passi e con quei passi il loro tragico, omerico destino.

«Compagni scap…».

Silenzio. Silenzio. Dario e Franca restarono in silenzio. Capimmo. E anche noi restammo in silenzio.

Fo e Rame avevano reso quei minuti da farli sembrare veri. E noi eravamo là, a Santiago. Eravamo quei giovani. Che salutammo con le lacrime agli occhi e il pugno alzato.

Grazie Dario e grazie Franca per quella notte, per aver aiutato la mia generazione a crescere, a capire e non dimenticare. Ogni 11 settembre sento ancora nitida la vostra voce. E quella di Luis Sepúlveda e di Víctor Jara, di Pablo Neruda e dei desaparecidos. Il rantolo di Pinochet resterà invece soltanto fango e miseria. Un insulto della storia.

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