Generali disarcionati, esploratori messi alla gogna, eroi gettati nel fiume. Sta succedendo nel mondo. Ma se quei generali, quegli esploratori, quegli eroi sono stati schiavisti, oppressori, rappresentanti di un mondo di rapporti di sopraffazione che ricordano alla sensibilità di oggi solo dolore e sofferenza, è giusto tenerli ancora in piedi sui loro piedistalli di marmo?
Non si tratta naturalmente di dare vita a un improbabile quanto fragile tribunale della storia, ma di guardare in modo concreto al rapporto fra le città e le persone, in un tempo in cui la dimensione dello spazio pubblico è enormemente dilatata e modificata. Rinegoziare continuamente le memorie del passato è una pratica esistita da sempre, in un rapporto non del tutto coincidente con il discorso storico e storiografico. Già al tempo dei Romani era consuetudine distruggere statue di personaggi caduti in disgrazia, o addirittura modificarne il profilo per adattarlo a nuovi committenti, in un utile riuso di materiale pregiato.
In Europa la guerra delle targhe, dei monumenti, dell’egemonia della memoria è un fatto che va avanti da tempo, giocato soprattutto a suon di proclamazioni di giornate memoriali e di monumentalizzazione di siti. Una vera e propria lottizzazione delle diverse memorie, che ha creato di fatto una ritualità ipertrofica e quindi svuotata di senso.
Ma torniamo alle statue: durante la vasta mobilitazione antirazzista che sta infuocando le città degli Stati Uniti d’America e che è arrivata fino al vecchio continente, ne sono cadute tante. Erano però effigi di miti molto discussi: il Columbus day era una festa vacillante da tempo, ormai appannaggio degli italo-americani e più volte annullata o ridimensionata in molte città e stati; il generale Lee in Virginia era ancora in piedi per il compromesso sempre difficile con i bianchi conservatori del Sud; di Colston, mercante di schiavi di Bristol, si chiedeva la rimozione da anni con petizioni rimaste inascoltate. Sull’attività coloniale di Leopoldo II la documentazione, anche fotografica, è sterminata e pubblica, fatta di mani di bambini mozzate per scarso rendimento nell’estrazione della gomma.
Il tempo di queste statue era giunto, avevano le ore o gli anni contati perché i valori che rappresentano non possono più essere condivisi, non possono fondare civiltà, non possono essere insegnati a scuola. Si sarebbe potuto salvarle, se proprio ci si teneva, se le si fosse sottratte alla sovraesposizione quando, già da tanto tempo, il fastidio della loro vista fra il traffico e le aiuole aveva iniziato a prevalere su orgoglio, deferenza, consenso. Davvero erano solo oggetti del passato?
Eppure, di fronte a gruppi di persone che si avvicinano a un pezzo di arredo urbano, lo fanno caracollare e lo gettano in un fiume, o lo cospargono di vernice colorata, restano ancora perplessità. Non certo per rispetto della storia, visto che la storia ha già ricostruito i profili ambigui di queste figure, e visto che essa non si offende di certo per cose simili, avendo assistito a ben altro.
Che le persone, i movimenti antagonisti in atto si appropriino del gesto simbolico di rovesciare le statue è una cosa vecchia, nota. Le statue servono anche a questo, la loro distruzione non fa meno parte della storia della loro elevazione. Che si compia il tirannicidio in forma simbolica, la decapitazione rituale, è una cosa di rilievo prima di tutto antropologico. Di fronte alla demolizione delle statue di Ceaușescu, di Saddam Hussein, nessuno ha eccepito nulla, perché si trattava di persone considerate al di fuori della luminosa storia occidentale (mentre palesemente non lo erano), ma quando l’iconoclastia va a colpire glorie nazionali, simboli culturali dell’Occidente, toccando i nervi scoperti delle basi predatorie della costruzione del pensiero liberale, e della sua egemonia planetaria dalla faccia pulita, allora le cose cambiano.
Invece, un potere liberatorio molto forte si sprigiona da questi atti, un potere che trae la sua forza dalla performatività, che è un tratto essenziale dell’espressione artistica contemporanea. Non c’è da temere per le sculture di Bernini, per i Canova chiusi nei musei. Sono i condottieri di bronzo che regolano il traffico al centro delle piazze, invadendo lo spazio urbano e incombendo su un presente che chiede giustizia, equità, riconoscimento, ad essere a rischio. La città odierna si pone come un luogo di relazioni fra soggetti, molto più inclini ad autorappresentarsi in forme leggere, immateriali, virtuali. E i soggetti urbani vogliono e devono marcare lo spazio pubblico con atti e manifestazioni.
Non sempre richiedendo autorizzazioni, come nell’emblematico caso di Banksy (di Bristol, casualmente) e di tanti artisti che hanno ribaltato l’arte urbana non solo nella forma, ma anche mettendone in discussione la pretesa eternità. Questo non significa che si debba fare piazza pulita di ogni manufatto sgradito del passato, intere città sarebbero demolite, come molti autori e autrici fanno notare in questi giorni. Non tutti gli oggetti di un passato in cui non ci si riconosce più assumono lo stesso valore simbolico, o non lo fanno tutti nello stesso momento: solo quando un oggetto riveste fortemente questo valore simbolico entra nel focus dell’attenzione pubblica.
Ce lo spiegano i semiologi, non è un fatto scontato, possiamo convivere con i tombini su cui è impresso il fascio littorio, ma l’obelisco di Axum doveva tornare in Etiopia. Possiamo guardare i palazzi di Piacentini, ma non potremmo tollerare un busto di Mussolini in un edificio pubblico. Accade perché la carica simbolica è legata al dibattito pubblico, alla domanda di senso, ai rapporti di forza che si determinano fra ideologie diverse. E perché i nodi importanti della storia possono riscaldarsi o raffreddarsi in base a variabili diverse. Così come nel passato, anche oggi la forza dell’atto di rovesciare una statua è potente in sé, ha una sua significazione che va oltre la rimozione dell’oggetto, proprio per il suo carattere simbolico.
A chi ritiene che le statue debbano restare al loro posto perché il passato è chiuso e non serve giudicarlo, va ricordato che le statue sono invece messe lì apposta perché il passato vuole esercitare una pressione sul presente, e che è il presente a porre domande alla storia. Abbattere le statue durante un movimento antirazzista oggi negli Stati Uniti d’America è anche una uccisione rituale del presidente Trump, e quindi una azione del presente per il presente, una rappresentazione della forza delle moltitudini, ed è soprattutto per questo che è necessario comprendere e sostenere questi atti, senza pretenziosi distinguo culturali, soprattutto eurocentrici. Il problema, semmai, per chi abbia a cuore lo spirito e i risultati di queste mobilitazioni antirazziste e antidiscriminatorie, dovrebbe essere vigilare sulle possibili reazioni del ceto medio moderato, soprattutto in prossimità della scadenza elettorale presidenziale.
L’iconoclastia è sempre rischiosa, è vero: può commettere gravi errori storici nell’individuazione degli obiettivi, mettere in conflitto memorie diverse e rendere difficile la costruzione della coesione sociale, ma non può essere liquidata come vandalismo, come insensatezza, come ignoranza. E soprattutto non se ne può generalizzare la natura.
È tornato alla ribalta in questi giorni il caso della statua di Indro Montanelli a Milano, un oggetto che ha acquisito senso solo una volta, grazie all’azione di “Non una di meno” che l’anno scorso lo ha ricoperto di vernice rosa. Quella colata di colore, se non fosse stata prontamente cancellata, sarebbe stata l’unica assicurazione sulla durata della statua, ma invece si volle bollare l’azione come offensiva verso il presunto maestro del giornalismo italiano, confermando la rimozione del passato coloniale italiano.
La statua di Montanelli, restringendo lo sguardo all’Italia, non potrà resistere a lungo. Magari senza demolizioni eclatanti a furor di popolo, ma il suo tempo è segnato. Nella città di Milano, su circa 120 monumenti dedicati a uomini, il primo dedicato a una donna, una scultura di Rachele Bianchi, è stato collocato solo due anni fa. Ed è così in tutta Italia, salvo le eccezioni di Maria Montessori e poche altre.
È una questione che riguarda l’arte, il potere, il patrimonio del passato, le strategie di formazione del consenso e la rappresentazione del presente. E il piano simbolico può fare molto per sostenere le lotte dirette al miglioramento della condizione materiale.