Di quando portavo i vestiti color fiume Sava

Stevka Šmitran

Nascere al confine di due mondi e non esserne consapevole, ci colloca in una posizione di privilegio e ci da una carta d’identità che ci fa trovare sempre qui e altrove.

Il mio confine è Bosanska Gradiška nella parte bosniaca del fiume Sava di fronte a quella croata.

Porto tutti i segni della mia nascita nel modo di comprendere l’altro, nella lingua autoctona, nell’individualismo condiviso, nell’ampiezza di fede e di laicità, nell’instancabile confronto tra tradizione e modernità. Dall’esterno ciò forse appare come una copertura in quanto la comprensione linguistica non attesta altro che la ricerca dell’identità – si pensa che – però, è inscindibile dall’altro per la reciproca influenza che si instaura ben presto. Non potrei immaginare la mia infanzia senza il crogiolo di etnie e di quella silenziosa partecipazione alle feste religiose che mai mi avrebbero fatto favorire l’una all’altra.

Da nessun manuale ho appreso come conservare l’autonomia dell’identità di confine e resto incline a tramandarla, in tempi di pace, possibilmente, e anche in tempi di guerra, come è accaduto negli anni Novanta del secolo scorso. Nascere al confine significa avere una cittadinanza che si fregia di ragione e di sentimento che tengono viva l’unità del loci che non si perde col vivere altrove e non è la nostalgia a tenerla viva.

È una specie di canone poetico che si stabilisce tra simili, per posizione geografica certamente, ma è supportato dalla storia, passa attraverso la cultura e sintetizza il reale e il simbolico che si riceve alla nascita.

Quel tempo è avvolto nei morbidi lessemi perché la percezione dello spazio si estendeva con naturalezza e, in concreto, noi bambini subivamo l’indelebile fascino del cinema – si andava dalla loro parte, di domenica – matinée, a vedere i film western dell’eroe solitario con Gary Cooper, John Wayne, Richard Widmark; dalla nostra parte si frequentavano le stesse scuole in classi miste e durante le lezioni di latino ci si esercitava a coltivare il dubbio piuttosto che la certezza e si entrava in confidenza con le Lettere morali di Lucilio.

Ho studiato, cantato e imparato a ballare il valzer Sul bel Danubio blu a scuola, insieme con quei ragazzi che pensavano che tutto si potesse apprendere e ce lo dicevano, sapendo che anche noi avremmo detto la stessa cosa. Ho imparato che la concretezza della vita è dettata dalla parola e che la lingua è il solo possesso dell’uomo nell’attraversamento della vita.

Nascere al confine significa essere carica della mia gente, vuol dire non poter esistere senza altre genti, come quella con la quale si parlava da una sponda all’altra del fiume, quando era necessario. Perché la civiltà del confine non si è affermata attraverso la storia politica, ma attraverso l’esperienza spirituale che avevamo praticato con convinzione e in silenzio. Quella disciplina dei sentimenti è la verità che si trova dietro la parola dei miei versi: Di quando portavo i vestiti color fiume Sava.


Il giardino dell’infanzia
di quando portavo i vestiti color fiume Sava

Il ribes rosso innaffiato dal sangue
degli eroi di famiglia, una spilla al petto
che si cela nel silenzio, per non smettere
di amare –
sui rami le pene appese, spauracchi sdentati,
ogni foglia unta dalle lacrime, è libro aperto.

È qui che scendono gli angeli ogni notte
e fino all’alba parlano la lingua
della rugiada,
dai tempi
di quando portavo i vestiti color fiume Sava.

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