Il poeta inglese John Milton, in uno degli scritti più importanti sulla libertà di pensiero, così si rivolse nel 1644 al parlamento inglese, che stava per introdurre una legge sulla censura e sulla distruzione dei libri.
«È quasi uguale uccidere un uomo che uccidere un buon libro. Chi uccide un uomo uccide una creatura ragionevole, immagine di Dio, ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa, uccide l’immagine di Dio nella sua essenza».
Il monito di Milton è quanto di più attuale per ciò che accade nelle autocrazie e nei paesi totalitari che minacciano il mondo e calpestano i diritti umani, dalla Russia, alla Cina, all’Iran, alla Turchia.
Impedire la libertà di stampa ed imprigionare un giornalista significa creare le condizioni per perseguitare le persone e per mettere in discussione la stessa idea di pluralità umana. Significa uccidere l’uomo e la sua propensione alla giustizia, alla libertà e alla cura dell’altro uomo.
Hannah Arendt ricordando come il nazismo ed il comunismo volevano costruire un uomo nuovo «fotocopia», sosteneva che non è l’uomo ma sono gli uomini ad abitare questa terra.
I giornalisti coraggiosi che difendono i diritti umani e se ne prendono cura, come fa Zoja Svetova, rappresentano la testimonianza principale dell’irriducibilità dell’animo umano alle dittature e l’anelito alla libertà umana che non può essere scalpito, come scriveva Vassilij Grossman in Vita e destino.
Quando si spegne la voce di un giornalista si uccide l’anima di un essere umano, prima ancora del suo corpo.
Per questo motivo, siamo chiamati ad una vera rivoluzione copernicana sul modo di intendere la libertà di stampa nel mondo pericoloso di oggi. Difendere la libertà di espressione e fare conoscere con chiarezza all’opinione pubblica ogni forma di limitazione è l’impegno che dobbiamo intraprendere per incrinare il silenzio e la cortina fumogena che le autocrazie hanno attorno a loro per nascondere il loro operato.
Come sostiene Liliana Segre, questo è il primo passo per rompere il meccanismo dell’indifferenza, su cui da sempre si appoggiano le dittature per compiere i loro soprusi ed ottenere così l’impunità morale, prima ancora di quella politica e giuridica che dovrebbe essere garantita a livello internazionale dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni unite.
Per questo, come Fondazione Gariwo, due anni fa abbiamo lanciato l’idea di ricordare nei 150 Giardini dei Giusti ogni anno, il 3 maggio nel giorno della libertà di stampa, i giornalisti che sono stati perseguitati e assassinati. Abbiamo rilanciato questa proposta a tutte le istituzioni e a tutti gli organi di stampa.
Abbiamo voluto così dare valore alla legge europea sulla libertà dei media che è stata adottata finalmente nel settembre di quest’anno e che vorremmo diventasse un riferimento morale internazionale.
A Pechino il concetto di libertà di stampa (xinwen ziyou) è bollato come «una fantasia borghese dell’Occidente» per calunniare la Cina. Con l’arrivo al potere di Xi Jinping nel 2012 è stato presentato dal comitato centrale un documento che definisce l’idea occidentale di giornalismo tra «le sette correnti sovversive» che minano il futuro del paese, assieme alla democrazia politica e alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Chi non sottostà alla morale del partito e pubblica notizie censurabili, dice il famigerato documento 9 (ricordiamoci questo numero), è così punibile in anni di reclusione nelle prigioni più dure. Così in Cina c’è il silenzio sui campi di rieducazione dello Xiniang, dove sono stati rinchiusi migliaia di musulmani uiguri che sono accusati di terrorismo e di infrangere la sicurezza dello Stato perché rivendicano il diritto alla loro cultura.
Fra tutti i cinesi combattenti per la libertà di pensiero che abbiamo onorato nei Giardini dei Giusti vorrei ricordare Liu Xiaobo – premio Nobel per la pace fatto morire in carcere per avere scritto Carta 08, un documento in cui chiedeva il rispetto dei diritti democratici – e il professore uiguro Ilham Toti, condannato ad un ergastolo senza speranza per avere difeso pubblicamente il diritto alla libertà per il suo popolo.
In Turchia invece con la legge approvata contro la cosiddetta disinformazione ben sessantasette giornalisti sono tutt’ora rinchiusi nelle carceri e nove devono scontare 19 anni di carcere. Ricordo però una donna in particolare, Pinar Selek, condannata all’ergastolo in contumacia dopo il suo trasferimento in Francia per avere fatto delle campagne in favore dei curdi e degli armeni.
Sono di queste ore le notizie che ci vengono dall’Iran dove decine di giornalisti sono stati imprigionati per avere denunciato la repressione delle donne, dopo la morte in carcere di Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale in quanto colpevole di avere indossato un velo che non le copriva interamente i capelli e di portare dei pantaloni considerati inappropriati.
Ma oggi dobbiamo dare rilievo anche alla straordinaria battaglia dei giornalisti indipendenti russi contro la guerra di Putin in Ucraina.
Con un certo rammarico devo dire che oggi quando si parla della resistenza militare ucraina all’invasione russa si dà meno peso e attenzione alla resistenza morale delle voci libere che oggi in Russia cercano di ribaltare le bugie e le parole malate del regime di Putin.
A loro, come nei tempi del comunismo sovietico, dobbiamo una straordinaria battaglia per la verità di fronte a quello che potremmo definire il nuovo regno della menzogna.
A Mosca si impedisce che si parli di guerra e di aggressione; si racconta che l’Ucraina è un paese che non ha il diritto ad una esistenza libera perché parte della Russia. A Mosca i media del regime raccontano che la Russia sia minacciata dai nazisti fomentati dall’Occidente che prima hanno sfaldato l’impero sovietico in Europa ed ora vogliono togliere – come ha sostenuto recentemente Putin annunciando il referendum nel Donbass – la sovranità territoriale e politica dell’intera Russia. A Mosca si racconta che la Russia sia pronta ad usare le armi nucleari tattiche per difendersi da un possibile attacco nucleare dell’Occidente e della Nato.
Di fronte a questo mondo capovolto, dove la menzogna si presenta come verità, centinaia di giornalisti (che hanno perso la possibilità di esprimersi sugli organi indipendenti messi fuori legge in quanto agenti stranieri, come Novaja Gazeta) usano i social e il passaparola per raccontare quanto avviene in Ucraina e la repressione che colpisce chi manifesta per le strade e chi si oppone oggi alla leva obbligatoria per non morire per una causa sbagliata.
Questi giornalisti liberi nel proprio pensiero, anche se costretti a tacere pubblicamente, ci fanno comprendere un concetto importante che spesso da noi non viene compreso. I russi non sono il governo russo, anche se può sembrare che ci sia un popolo intero dietro a Putin.
Questi giornalisti non solo difendono il valore dei diritti umani, ma si sono assunti il compito di difendere la reputazione morale della Russia di fronte al mondo intero.
Tra questi c’è una donna meravigliosa che abbiamo già avuto il piacere di ascoltare lo scorso 3 maggio al Giardino dei Giusti di Milano nella prima manifestazione a sostegno della battaglia per la libertà di stampa in Russia.
È Zoja Svetova che non soltanto non si è fatta mai intimidire dal regime di Putin, ma che nella sua vita di giornalista ci ha insegnato un concetto nuovo.
Un giornalista non deve solo raccontare la verità e denunciare i misfatti e le ingiustizie, ma deve anche prendersi cura personalmente dei perseguitati.
Lo ha fatto in particolare nei confronti di Zara Murtazalieva, una studentessa cecena dell’università di Pjatigorsk accusata di aver organizzato un attentato al centro commerciale Okhotnyj Rjad. Non solo ha denunciato la menzogna, ma si è battuta personalmente per ottenere la sua libertà fino alla sua liberazione in Francia. Questo è per Zoja Svetova il modo più profondo per diventare un vero giornalista per i diritti umani.
Non solo scrivere, ma aiutare fino alla fine la persona di cui si racconta la storia. Così assumersi una responsabilità personale diventa più importante di essere soltanto un cronista ed un narratore.