Domenico De Masi, cosmopolita per vocazione

Luigi Vicinanza

Il lavoro sempre e comunque. Lavoro intelligente o lavoro negato. In tutte le sue declinazioni, sia positive che negative, non ha mai smesso di indagarlo. Un intellettuale militante, sempre indipendente dagli apparati dei partiti, ma non estraneo allo scontro politico. Tenace nello scavare alla ricerca delle modalità e delle tecniche della produzione materiale e intellettuale nella società post-industriale in decenni in cui questi temi apparivano residuali.

Domenico De Masi, morto all’età di 85 anni lo scorso sabato 9 settembre, è stato un maestro della sociologia in Italia, un’intensa vita combattuta per affermare bellezza e felicità. Concetti, questi ultimi due, bellezza e felicità, che sembrano incompatibili con il mondo del lavoro, segnato da sofferenza, alienazione, sfruttamento. Invece è stato proprio De Masi a elaborare teorie di segno opposto. Controcorrente. Dirompenti. Dall’ozio creativo, la sua definizione più celebre, «inteso come sintesi di lavoro, studio e gioco», al telelavoro – come lui lo chiamava prima che venisse ribattezzato smart working in epoca Covid – che a tanti burocrati e padroncini sembrava, e a molti ancora sembra, una fuga dal controllo gerarchico: «Le direzioni aziendali preferiscono persino ridurre i profitti pur di evitare innovazioni organizzative che allentino la presa fisica, tangibile, sui dipendenti», ha scritto in uno dei suoi tanti libri, TAG, le parole del tempo, anno 2015. Cinque anni dopo, travolti dalla pandemia, bloccati in casa, abbiano imparato tutti a fatica, quanto fosse importante e utile lo smart working. Lo abbiamo affrontato senza regole, ma ormai non si può più fare finta che non aiuti la produttività. In certi casi, persino nella pubblica amministrazione.

Ma quando De Masi ne parlava, anticipando i tempi, quanti in Italia hanno pensato che fosse una buona pratica?

Molisano di nascita, campano di formazione, cosmopolita per vocazione. E tante relazioni trasversali. Iniziate a Parigi, in anni giovanili, alla scuola di Alain Touraine. Proseguite in Italia con Adriano Olivetti, gli intellettuali meridionalisti riuniti intorno alla rivista Nord e Sud di Francesco Compagna e Giuseppe Galasso; qualche anno dopo sempre a Napoli con i suoi interventi sul quindicinale La Voce della Campania, giornale vicino al PCI. E poi la narrazione di un Sud ancora più Sud, il Brasile del presidente Lula, il leader degli emarginati.

Nel Paese latinoamericano De Masi è stata una voce ascoltata e autorevole negli anni della svolta progressista. Poi ancora in Italia lo ritroviamo dialogante con Giulio Tremonti, il ministro dei tagli lineari, o con il banchiere Alessandro Profumo. È la scuola di formazione per manager. E più recentemente il dialogo intenso con Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle. Tanto da essere considerato l’ispiratore del reddito di cittadinanza. Dopo le elezioni politiche del 2018 quando il Movimento 5 Stelle con il 32 per cento conquistò la fiducia di quasi 11 milioni di italiani, con percentuali oltre il 50 per cento in tantissimi collegi del Mezzogiorno, il reddito divenne legge del primo governo Conte.

De Masi aveva iniziato a indagare le dinamiche del mondo del lavoro proprio nella Napoli degli anni ’60 e ’70 quando la classe operaia era una minoranza, quasi fortunata. «Sulla carta, – ha scritto – per ogni napoletano che lavorava, ce n’erano almeno tre che non facevano nulla. In realtà, Napoli era una sorta di immensa fabbrica diffusa dove qualsiasi sottoproletario riusciva a sopravvivere solo attraverso un lavoro nero che lo costringeva a forme di sfruttamento assai più intense di quelle inflitte ai pochi e privilegiati operai dell’industria vera e propria».

Dal sottosviluppo pre-industriale all’ozio nella società post-industriale, De Masi ha delineato un percorso che, ancor più dopo la sua scomparsa, sarà oggetto di discussione. «Quel diritto all’ozio che restava utopistico per gli operai delle attività industriali, è finalmente realistico per i manager, per i dirigenti, per i professionisti delle attività post-industriali». Perché, secondo il professore, l’attività creativa si svolge a tempo pieno sempre: «Chi è assillato da un problema che richiede soluzioni ideative (artista, pubblicitario, imprenditore, artigiano, professionista) non può interrompere il filo del pensiero così come l’operaio, al suono della sirena, interrompe la prestazione alla catena di montaggio. Il cervello del creativo, una volta impegnato su un problema, lavora sempre (in ufficio, a casa, nella veglia, nel sonno e nel dormiveglia, a livello cosciente e a livello inconscio), fin quando non arriva l’insight risolutivo».

La capacità di realizzare le sue visioni, Domenico De Masi, l’ha mostrata con successo a Ravello, l’incantevole località della costiera amalfitana. La città dal 2010 ha un auditorium grazie all’intuizione e alla tenacia del sociologo. Il disegno della struttura, a forma di conchiglia, incastrata tra i monti e il mare, gli era stato regalato da quel genio dell’architettura che fu Oscar Niemeyer durante i periodi di insegnamento in Brasile all’epoca di Lula. In Italia ne nacque una defatigante diatriba estetico-culturale in cui si consumarono amicizie, tradimenti, alleanze politiche locali e regionali. Vinse il professore. Ravello ha avuto finalmente una struttura di pregio architettonico grazie alla quale il festival musicale dedicato a Wagner può articolarsi in ogni periodo dell’anno.

Per De Masi, infatti, Ravello fu centro d’elezione. Cittadino onorario, assessore alla cultura a metà degli anni 90, presidente della Fondazione musicale. Forse perché per il teorico della rivoluzione post-industriale la località della costiera amalfitana era il luogo dell’anima dove sperimentare la «necessità di sostituire la cultura moderna del consumo con la cultura postmoderna della felicità». Ma avendo sempre presente un’avvertenza: «La lotta di classe dei ricchi contro i poveri è globale. Come è globale l’economia capitalistica ormai trionfante su tutto il pianeta».

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