Io non so se le organizzazioni sindacali confederali siano in crisi, come da più parti viene detto e, se sì, quanto questa crisi sia seria. Non so se abbiano un futuro e che futuro abbiano. So che hanno una grande storia, a cui sono idealmente, moralmente e professionalmente molto legato. Ma so anche che le persone che intende rappresentare non sono più le stesse.
Forse non sono più le stesse perché proprio il sindacato le ha emancipate e quindi liberate, o per lo meno io penso questo. Un certa crisi d’identità è anche il prezzo pagato all’emancipazione delle masse. La qualificazione professionale nella società della conoscenza è l’evoluzione migliorativa del lavoro standardizzato, favorita e promossa anche dal sindacato come elemento liberatorio dalla condizione di alienazione.
Lavoratori e lavoratrici non sono più gli stessi perché sono cambiate aspirazioni, biografie, livelli di istruzione. Essi non vogliono più un lavoro, ma un buon lavoro. Sono andati a scuola ed all’Università per questo. Ogni lavoratore ha una storia sua, più difficilmente riconducibile ad unità e ad un sentimento di comunità e di solidarietà di classe. Questo è oggi il vero problema.
E la prima domanda che voglio qui porre è se il lavoro ha ancora (ed io personalmente penso di sì) una dimensione collettiva. Magari un po’ ammaccata, di difficile lettura, ma penso sarebbe comunque il caso di interrogarsi anzitutto su questo aspetto.
Come ebbe a sostenere il sociologo Aris Accornero, una grande comunità come quella del sindacalismo confederale, che ha quindi l’obiettivo di rappresentare l’insieme del lavoro dipendente senza distinzione di categoria professionale, livello, mansione, è una comunità politica che si regge e si è per decenni retta sulla figura, sull’ideal-tipo, dell’operaio della grande fabbrica. Fare il bene della società, per cambiarla, coincideva il qualche modo con il fare il bene dell’operaio, della classe operaia e viceversa. Un’idea generale di società, un’idea generale di cambiamento, adottata, condivisa, sostenuta dall’insieme del lavoro dipendente.
Ma oggi? Il 70% dell’economia europea è rappresentata dal terziario. E gli operai non sono più operai, non perché non esistano più, sebbene siano molti di meno, ma perché non sono più una classe.
La flessibilizzazione dei processi di lavoro, il superamento dell’organizzazione per compiti a beneficio di quello per processi, dove i compiti stessi sono più sfumati in favore della gestione integrata ed il valore creato conta più del tempo passato in ufficio, unitamente alla non infrequente difficoltà di definire e individuare un luogo di lavoro, frammenta anche fisicamente una comunità un tempo omogenea ed il lavoro orientato all’obiettivo sostituisce fatalmente quello orientato ad un compito definito.
Se risulta inconfutabile che l’organizzazione, la specializzazione, la formazione, lo sviluppo tecnologico, i processi integrati hanno ed avranno un peso crescente, la qualità delle azioni, delle interazioni e delle persone, con la loro motivazione e professionalità, acquista un peso straordinariamente determinante.
L’autorealizzazione attraverso il contributo personale è la motivazione che, in maniera crescente, caratterizza l’attività lavorativa e promuove la creatività e la qualità dei risultati. Così, l’assunzione della responsabilità delle proprie azioni rappresenta oggi il massimo grado di maturità, perché il coinvolgimento nella soluzione dei problemi e nel processo decisionale sul lavoro stimola l’interesse attivo e partecipativo, consente di imparare e di crescere e alfine di decidere in autonomia la propria esistenza. Come rappresentiamo queste persone? E’ possibile farlo? E, soprattutto, con quale modello di contrattazione?
Già la marcia dei 40mila fu un primo segnale di un cambiamento epocale e strutturale in atto, forse non colto del tutto nella sua profondità. E il Decreto di San Valentino (attraverso il quale il Governo, nel 1984, cercò di contenere la spirale salari/prezzi e sul quale, va detto, le organizzazioni sindacali assunsero posizioni diverse), o meglio la sconfitta al referendum per la sua abrogazione, ne rappresentò un altro che ha segnato la storia di una offuscata capacità rappresentativa, di un certo modo di vedere il mondo del lavoro e l’interesse generale dal quale, più in generale la sinistra italiana, a mio giudizio non si è più ripresa.
Non molto tempo fa, tenendo un seminario rivolto ad esponenti sindacali, chiesi loro, come prima cosa, a cosa servisse il sindacato, cioè come avrebbero definito l’obiettivo dell’organizzazione di cui facevano parte. Praticamente non ebbi due risposte uguali. Alcune financo sorprendenti, con un accento più sulla tutela individuale che su quella collettiva che fa riflettere.
Tutto ciò non deve spaventare, è il segno dei tempi, ma forse un po’ preoccupare sì. Pochissimi risposero – o meglio si avvicinarono a questa risposta – che il sindacato è chiamato a negoziare condizioni di lavoro il più possibile vantaggiose per i suoi associati o comunque, più in generale, per i lavoratori dipendenti. Non è, per quanto detto finora, un compito facile, anzi, ma sarebbe bene tenerlo sempre a mente.
In un tessuto sociale diventato gradualmente irriconoscibile, dove la tradizionale figura del lavoratore dipendente sfugge a ogni definizione e quindi perde il suo connotato di classe, non c’è più modo di rappresentare in maniera organica persone così diverse fra loro, o quanto meno diventa molto più difficile. Il grande cantautore e poeta Leonard Cohen ebbe modo di dire: chi sono, oggi, gli sfruttatori? E chi gli sfruttati? E’ un modo falso ed ipocrita di guardare alle cose del mondo.
Non posso non agganciare a questa considerazione, se vogliamo provocatoria ma che ha una sua dignità intellettuale, il tema non solo della frastagliata composizione di ceti e gruppi sociali, ma anche il tema non più eludibile della ripartizione del rischio d’impresa.
Se il rischio d’impresa cade interamente sull’imprenditore e cioè se i lavoratori non ne rispondono in alcun modo, restando distanti ed estranei dallo stato di salute della loro azienda in cambio di un salario fisso, il salario stesso non potrà che tendere al basso e ad essere non in linea con le retribuzioni medie dei principali Paesi Europei.
Molte ricerche e molti studi hanno messo in evidenza come una quota di condivisione del rischio d’impresa fra imprenditore, lavoratori e loro sindacati, entro i limiti del possibile, favorisce stipendi e salari moto più alti, per il semplice fatto che la scommessa comune azienda/sindacato sul benessere e la redditività dell’impresa promuove non solo condizioni di benessere organizzativo, ma anche la tendenza a condividere tutti i risultati raggiunti dall’azienda stessa, anche in termini salariali.
Possiamo affermare la nostra professionalità, avere le giuste gratificazioni e anche guadagnare di più, se non siamo solo esecutori e denti di un ingranaggio organizzativo pensato da qualcun altro e del quale non vogliamo sapere molto, per conservare la nostra sostanziale inamovibilità. Appare dimostrato che l’elevatissimo grado di tutela del posto di lavoro, assicurato per molto tempo dal nostro Ordinamento e dal nostro sistema di contrattazione, pensati per un mondo che non c’è più, chiede in cambio salari molto più bassi della media. E’ quello che molti studiosi chiamano il premio assicurativo indirettamente pagato dai lavoratori.
Io trovo che queste questioni cruciali, che attengono alla vita delle persone ed alla loro soddisfazione professionale, che è anche alla fine una porzione di felicità in terra, come ebbe a dire Primo Levi, non siano stati affrontati e sviscerati negli ultimi anni con il dovuto realismo, anche dalle organizzazioni sindacali.
Come scrisse Abraham Maslow, il poeta deve scrivere, il musicista deve fare musica, se vogliono davvero essere in pace con se stessi; non devono svolgere cioè un’altra professione distante dalle loro attitudini e motivazioni, per le quali ci sono altre persone che attendono di svolgerla e il sindacato dovrebbe condividere questa aspirazione più che difendere il loro inadatto posto di lavoro. Può sembrare un’idea romantica del lavoro e io la rivendico perché ci credo. Non provarci nemmeno, ad avere il piacere di lavorare, non è un segno di realismo, ma solo di resa.
La corretta e sensata allocazione delle risorse umane, come vengono chiamati oggi i lavoratori e cioè le persone giuste la posto giusto, è più concretamente una grande questione di funzionamento del mercato del lavoro, che riguarda anche le associazioni sindacali, oltre che i criteri ed i parametri di efficienza delle organizzazioni e di produttività del lavoro, che poi è un unico concetto.
Un errore non irrilevante è stato compiuto, almeno secondo il mio modesto parere, quando – a partire dagli anni’80 – il sindacato ha tentato di porre un argine al fenomeno della flessibilità del lavoro, negando l’opportunità di governarla. La flessibilità viene in questa prospettiva, dal movimento sindacale, interpretata come negazione del diritto alla stabilità del posto di lavoro. Ma la stabilità del posto di lavoro non rappresenta un diritto, ma solo un obiettivo; il diritto che ogni lavoratore ed ogni lavoratrice devono vedersi riconosciuto è quello ad una ragionevole sicurezza nel mercato del lavoro e non dal mercato del lavoro. Come ha sostenuto Tito Boeri dobbiamo decidere se vivere in un mercato del lavoro dove è difficilissimo entrare in forma stabile (praticamente una lotteria) e poi è praticamente impossibile uscirne, ovvero in uno dove è più facile entrare ed un po’ più facile uscirne. Personalmente, non avrei molti dubbi in proposito.
Qui si compie, peraltro, un evidente errore di analisi: la flessibilità non è il contrario della stabilità, ma della rigidità. Si genera dunque una confusione concettuale, che ha contribuito a determinare politiche sindacali arretrate.
Flessibilità e stabilità possono e anzi debbono convivere, non sono concetti antitetici, mentre abbiamo difeso un mercato del lavoro contraddistinto dall’altro binomio, da rigidità e quindi precarietà. Un lavoratore che ha una posizione lavorativa stabile (contratto dipendente a tempo indeterminato), può vivere in un mercato del lavoro flessibile, che gli potrebbe consentire miglioramenti qualitativi, avanzamenti, cambiamenti in meglio della propria professione e che lo sostiene in caso di passaggio da un’azienda ad un’altra.
Al contrario, è proprio la rigidità del mercato del lavoro che tende a consolidare nel tempo posizioni sociali e lavorative precarie e cioè insicure: i cosiddetti “precari” non entrano nel mondo del lavoro in forma stabile proprio perché è rigido ed insufficientemente flessibile. Si generano così, inevitabilmente, un piccolo nucleo di iper garantiti ed una larga parte di insicuri.
Il sindacalismo italiano non ha del tutto compreso, secondo me, che si può governare la flessibilità e favorire la stabilità. Continua, in buona misura, a difendere la rigidità e quindi a consolidare la precarietà che annuncia di voler vincere.
Chi paga tutto questo sono i più giovani. Giovani e donne, soprattutto nel Mezzogiorno, sono i soggetti più deboli del nostro mercato del lavoro, lo sappiamo. Il tasso di disoccupazione italiano non è molto più alto della media europea, solo che esso è concentrato nella fascia di età al di sotto dei 30 anni, mentre negli altri paesi europei è distribuito in maniera più omogenea fra classi di età: significa che tutti hanno le medesime possibilità di trovare un lavoro come di cambiarlo.
Non può esistere un Paese civile dove convivono un nucleo minoritario di iper garantiti di fatto inamovibili (insiders) ed una maggioranza di sotto garantiti (outsiders), sottopagati, di fatto esclusi dalla possibilità di costruirsi una vita, figuriamoci poi di avere “il piacere di lavorare”. Non può reggere è non reggerà.
Non si può prescindere, cioè, da un riequilibrio delle protezioni: tutti “insiders”, certo, ma a quali condizioni? Perché non si può pensare, nel 2019, nel mondo delle competenze digitali, con organizzazioni d’impresa che devono adeguarsi ed anzi anticipare cambiamenti imprevisti e repentini se non vogliono finire fuori mercato, di rendere tutti insiders alla vecchia maniera e cioè iper protetti.
Io penso che tutti dovrebbero essere assunti con contratto di lavoro dipendente (il più possibile a tempo indeterminato), che garantisce un adeguato livello di diritti sul lavoro e di protezione da arbìtri e discriminazioni, ma nessuno può pretendere l’inamovibilità dal posto di lavoro. É questa la flexsecurity e cioè il modello che, incontestabilmente, funzione meglio. Cosa pensa il sindacato italiano su questo?
Nella scorsa Legislatura il Governo allora in carica ha approvato il cosiddetto Jobs act che, pur con diversi limiti, va in quella direzione. In ragione di cosa opporsi? Per quale modello alternativo? Quello della precarietà e della rigidità che abbiamo ben sperimentato negli ultimi anni? Non posso crederlo, mi rifiuto di crederlo.
Il Contratto a tutele crescenti riconosce diritti fondamentali a tutti e protezioni in misura del tutto ragionevole. Diritti a tutti e non ai pochi fortunati che hanno vinto alla lotteria, perché ha l’obiettivo di far ritornare prevalente la forma di assunzione a tempo indeterminato, ancorchè con regole più flessibili ed al passo coi tempi.
É a mio giudizio una innovazione legislativa importante, sicuramente migliorabile (penso ad esempio alle mensilità di indennizzo per un licenziamento per giustificato motivo, senza comunque commettere l’errore di lasciare eccessiva discrezionalità al Giudice e quindi ricadere nell’incertezza del Diritto) e che forse non è stata del tutto colta, se posso permettermi. A noi interessa il modello e questo modello si applica in Danimarca, non in un Paese del Terzo Mondo.
Certamente, una riforma legislativa non crea per incanto posti di lavoro stabili, ma almeno non ne impedisce l’attivazione in condizioni di crescita economica.
Io non so su queste cose, che mi sono permesso di sottoporre alla vostra attenzione, cosa pensi il Governo in carica, perché ho ragione di credere che non lo sappiano manco loro. Ci interessa principalmente sapere cosa ne pensiate voi.
Su questi temi, il Governo ha in questi primi otto mesi dedicato il suo tempo quasi esclusivamente al reddito di cittadinanza, un provvedimento confuso e contradditorio, perché mescola indebitamente il contrasto alla disoccupazione con quello alla povertà, due obiettivi che andrebbero, a rigor di buon senso, affrontati con strumenti differenti. Non tutti i disoccupati sono poveri e non tutti i poveri sono disoccupati.
Si è anche accennato, nei mesi scorsi, all’opportunità di istituire per legge un salario minimo per tutti i lavoratori, di fatto sinora esistente attraverso il riconoscimento di tale status ai CCNL, ma ormai inadatto in ragione di una quota crescente di lavoratori e lavoratrici non coperti dai tradizionali contratti collettivi. Sarebbe una misura importante, che mi pare sparita dall’agenda politica e che sarebbe probabilmente il caso di riprendere.
Venti giorni fa abbiamo potuto seguire una manifestazione sindacale unitaria, importante e partecipata, in cui ha esordito il nuovo Segretario Generale delle CGIL, Maurizio Landini, al quale auguro ed auguriamo tutti buon lavoro. Credo sia un fatto da valutare con favore, una rinnovata presenza unitaria in un momento difficile. Per andare verso quale direzione, però, non mi sembra chiarissimo.
Non possiamo per altro tacere le difficoltà oggettive in questo periodo storico, anche perché, purtroppo, con il ridimensionamento del ruolo delle organizzazioni sociali intermedie e un discutibile rapporto diretto fra governanti e popolo sovrano, fra chi dichiara di decidere in nome dei cittadini e i cittadini stessi che sembrano crederlo, il ruolo delle organizzazioni sindacali come importanti interlocutori istituzionali va ridimensionandosi, spero temporaneamente.
L’idea di confederalità deve allora trovare un nuovo punto di sintesi, che parli alle nuove generazioni, che non tema coraggiose riforme, una sintesi al passo coi tempi e più adatta al difficile periodo che viviamo.
Ci sono due categorie di soggetti che attentano ai diritti dei lavoratori: quelli che vogliono comprimerli e quelli che dichiarano di volerli difendere, avrebbe forse detto oggi il grande Ennio Flaiano, che mi permetto di parafrasare.
Cerchiamo se possibile di non dargli ragione.