Ho avuto la fortuna, durante la mia lunga carriera giornalistica, di incontrare campioni che fanno parte del mio cuore, della mia memoria e della mia nostalgia. Dal 2020 a oggi, molti se ne sono andati: da Pietruzzu Anastasi, idolo della mia giovinezza, a Pablito Rossi, il campione gentile e un amico vero, da Dieguito Maradona, il Borges della pelota, a Gigi Riva, che ha compiuto il suo passo d’addio martedì scorso, a 79 anni.
Ho avuto la benedizione di incontrarlo, di intervistarlo, di condividere molte ore con lui, parlando del suo amore infinito e persino struggente per la Sardegna, la sua Itaca, l’isola dove rimanere e non andare mai via. Per lui, nato nel varesino, a Leggiuno, Cagliari e il Cagliari hanno rappresentato la sua culla, il suo focolare, la sua terra. Tutto un popolo lo ha circondato, con rispetto e orgoglio, di una passione autentica, tramandata di generazione in generazione. Era il santo laico, l’eroe omerico, il fuoriclasse capace di trascinare i rossoblù alla conquista, nel 1970, di uno scudetto che è mito, epica, poesia. Il breriano Rombo di Tuono rifiutò le miliardarie offerte di Juventus e Inter: mai avrebbe tradito quella gente che lo aveva accolto come una buona e attesa novella, come un limpido segno del destino.
Parlare con lui era un dono. Mai una banalità, mai una frase scontata, mai una maschera: il suo sguardo possedeva la profondità di quel mare e di quei monti, e i suoi lunghi silenzi valevano più di mille parole. Era introverso, autentico, capace con un solo gesto di far capire il senso di una amicizia senza tempo e senza età: le sue mani sul feretro di Nené, il compagno fraterno, l’amico fragile.
Riva è diventato anche una questione di famiglia. Mio figlio Santiago, nato a Torino, è mezzo sardo da parte di mamma Olga. Quando è venuto meravigliosamente al mondo ho pensato a lui come a un futuro juventino: ci immaginavamo allo stadio a sostenere la Vecchia Signora, la squadra diventata mia, assieme al Palmeiras di San Paolo, appena arrivato dal Brasile in Italia, nel capoluogo sabaudo, figlio nipote e pronipote di emigranti veneti. Ma mentre io fantasticavo intorno a questo nostro sogno comune, i nonni materni sardi della Barbagia, nonno Pietro di Tiana e nonna Grazia di Teti, frantumavano ogni mia speranza. Tifosi del Casteddu (Grazia si fece male a un polso dopo aver esultato per un gol di Oliveira alla mia Juve!) cominciarono, in mia assenza, a cullare il loro adorato nipotino con la ninnananna di Giggirrriva: e Santiago sorrideva… E, così, a quattro anni ecco giungere la verità: «Papà, a me della Juventus non importa niente, io sono del Cagliari, e basta!».
Così il nostro derby è diventato Juve e Cagliari. Lui con la sua sciarpa. E con Rombo di Tuono a indicargli in cammino.
Il primo incontro con il suo beniamino fu telefonico. Ci trovavamo a Fiumicino, in partenza per Torino. Era mancino di mano e di piede, giocava, ovviamente, ala sinistra. Ma essere mancini, per molti stolti, rappresentava un difetto. Nessun problema. Chiamo Gigi. Gli spiego la questione e gli passo mio figlio: «Santiago ricordalo: storti sono gli altri non noi!». Questione chiusa.
Infine, nel 2014, l’incontro a Cagliari con Riva, nell’ufficio del fuoriclasse. Momenti di assoluta bellezza, cordialità, complicità, le fotografie, gli autografi, le storie del ragazzo, innamorato del Cagliari e della geopolitica, che porta il nome del pescatore di Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, e quelle del campione hombre vertical, come lo definì Gianni Mura, fra narrazioni di football e di vita: sembrava di essere finiti tra le pagine di un racconto di Osvaldo Soriano.
E poi, quella frase. Capace di commuovermi: «Santiago, tuo papà non è soltanto un bravo giornalista, è anche una brava persona». Ci siamo abbracciati. E, fuori, il sole scaldava la nostra felicità. E quel giorno resterà per sempre, scrigno di emozioni comuni di un padre e di un figlio.