Egoismi nazionali e solidarietà europea

Niels Bo Bojesen

La crisi sanitaria ha dimostrato fino a che punto le persone sono capaci di far valere i propri interessi sopra ogni altra cosa, senza prendere in considerazione le conseguenze di questi comportamenti egoisti sugli altri e per effetto boomerang su se stessi. Non mentono i detti popolari: «ognuno pensi per sé» o «ciascuno per sé e dio per tutti» o il filosofo scozzese David Hume che, contro l’affermazione «l’uomo è buono per natura» di Rousseau, pensava che la caratteristica dell’uomo fosse la «generosità ristretta» ad un piccolo circolo di familiari o amici. L’assalto ai supermercati per fare scorte di tutto e di niente, battaglie per appropriarsi di pacchi di carta igienica o contenitori di amuchina, la razzia sulle mascherine, senza parlare dell’esodio massivo di milanesi o di parigini verso la provincia per sfuggire al confinamento. Tutti comportamenti egoistici che provocano carenze (fortunatamente per il momento temporanee), e nel caso dei fuggitivi, aumentano i rischi di diffusione del virus, di infezione alle loro famiglie e ai propri amici, contribuendo così ad un possibile collasso delle strutture ospedaliere e del loro personale. In questi casi solo la repressione e la punizione (multe o prigione) possono contenere tali comportamenti … fintanto il panico non crei il caos sociale. Nei paesi in cui la Costituzione conferisce forti poteri alle regioni, come in Italia o in Germania, si può notare lo stesso tipo di egoismo locale che si traduce in clamorosi scontri tra governo centrale e i poteri regionali.

Non vi è quindi alcun motivo per cui gli Stati nazionali debbano comportarsi in modo diverso dagli individui o dalle regioni, almeno in un primo tempo. La prima reazione di tutti noi e di quasi tutti i paesi davanti la crisi in Cina, poi in Italia, fu l’incredulità e la sottovalutazione dei rischi della situazione. La quasi totalità dei cittadini e dei responsabili politici non pensavano che il virus sarebbe arrivato nel loro paese o nella loro casa, né che misure di confinamento alla cinese fossero necessarie. Alcuni paesi, come il Regno Unito, i Paesi Bassi o la Svezia hanno – anche in questo caso in un primo tempo – considerato che nulla doveva essere fatto, se non lasciare fare al virus il proprio lavoro darwiniano per ottenere l’immunità di gregge, senza considerazioni sul numero di morti che tale decisione poteva creare, né le conseguenze per i paesi frontalieri. Per tutti, né gli avvertimenti degli scienziati e dell’OMS (il quale, già nel 2003, pubblicava un documento sulle lezioni da trarre della crisi della SARS), né il principio di prevenzione sono stati presi sul serio. Per esempio, la Francia disponeva fino al 2011 di una riserva di 150 milioni di mascherine e fu deciso che non era utile conservare una tale quantità, visto che potevano essere comprate facilmente, soprattutto in Cina.

Certo i governi hanno meno scuse dei cittadini per giustificare una tale leggerezza perché la comunità scientifica ha lanciato per anni il segnale d’allarme, almeno dalla comparsa della SARS nel 2002-2003 poi di altri virus come il N1H1 (influenza suina), Ebola, Zika. All’epoca la SARS fu identificata come un coronavirus e furono erogati importanti fondi per stimolare le ricerche internazionali, europee e nazionali. Purtroppo, passata l’emergenza, questi investimenti furono ridotti o soppressi. Bruno Canard, ricercatore all’università di Aix-Marseille in Francia, specialista di Coronavirus dal 2003, lo spiega in un’intervista su RAI Radio1 nella trasmissione Caffè Europa: «Avete sicuramente notato che dall’inizio degli anni 2000 siamo sempre più sottomessi alla dittatura dell’urgenza. Il Coronavirus ne è una illustrazione. Nel 2003, il coronavirus SARS è arrivato e si è diffuso brutalmente nella società. Il coronavirus del 2020 è molto vicino ad esso, almeno per il suo motore molecolare che è identico. Quindi, 17 anni dopo, ci troviamo con un virus che nonostante delle variazioni nella sua patogenicità, nel suo modo di trasmissione, assomiglia molto a quello del 2003. Ora, la Scienza lavora sul lungo periodo. In questi 17 anni se i programmi di ricerca non erano stati ridotti o fermati perché sottomessi a questa nuova dittatura dell’urgenza, avremmo potuto prepararci meglio per ottenere i dati scientifici necessari perché richiedono dei tempi di ricerca molto lunghi. Devono essere realizzati da università o laboratori di ricerca specializzati, poi validati prima di essere trasmessi a coloro che possono fabbricare delle medicine o dei vaccini. Quindi necessita una pianificazione lunga, paziente e soprattutto sostenuta».
È questa dittatura dell’emergenza a far sì che dopo le crisi, i finanziamenti della ricerca siano stati ridotti se non soppressi, impedendo di proseguire gli esperimenti iniziati per mancanza di fondi. Gli Stati incrementano gli sforzi quando c’è una minaccia seria, e se ne dimenticano rapidamente quando la minaccia si placa. Molti scienziati, tra cui il professore Canard e il suo collega italiano Martino Bolognesi hanno scritto più volte alla Commissione europea per chiedere fondi per queste ricerche, perché per essere efficace la ricerca deve essere gestita collettivamente dai vari laboratori europei specialisti in materia. Almeno dal 2010, hanno richiamato l’attenzione sulla sofferenza di questa ricerca fondamentale, dando esempi come Ebola o Zika. Purtroppo, la Commissione non può decidere di concedere linee di credito o di finanziamento senza l’autorizzazione del Consiglio, cioè dei Ministri o dei Capi di Stato e di governo degli Stati membri, che in questo caso avevano altre priorità. E lo stesso è successo a livelli nazionali. La Commissione europea, al servizio dei cittadini, ha sempre cercato di trovare soluzioni e portare a conoscenza dei Capi di Stato problemi che dovrebbero essere gestiti collettivamente in Europa, ma non può decidere, né obbligare gli Stati, come vedremo più tardi.

Gli egoismi nazionali, a livello mondiale, non si fermano qui. Da anni, l’OMS richiede agli stati membri dell’Onu di agire in materia di sanità. Davanti alle carenze di molti Stati propone, senza grande successo di creare una Copertura Sanitaria Universale (CSU), proprio per essere in grado di far fronte ai rischi sanitari ed economici di pandemia. Oltre ai costi in termini di vite umane, le quattro grandi crisi sanitarie dell’inizio del secolo: SARS (2003), H5N1 (2006), H1N1 (2009), Ebola (2013) sono costate circa 200 miliardi di dollari. Davanti all’inerzia degli Stati, l’OMS e la Banca mondiale hanno creato un Global Preparadness Monitoring Board (Comitato di Controllo sulla Preparazione Globale) il quale, sulla base del lavoro di numerosi ricercatori, esperti, istituzioni specializzate, ha prodotto un rapporto nell’ottobre 2019 dal titolo Un mondo a rischio. Sulla copertina figura la foto di un coronavirus. La sola lettura dei titoli è da brividi:

  • Il mondo richiede una leadership politica determinata per prepararsi alle minacce sanitarie a livello nazionale e globale;
  • Il mondo è a grave rischio di devastanti epidemie o pandemie di malattie regionali o globali che non solo causano la perdita di vite umane, ma che sconvolgono le economie e creano il caos sociale;
  • Il mondo si trova ad affrontare la crescente diffusione di malattie infettive;
  • Tutte le economie sono vulnerabili. Le possibilità di una pandemia globale sono in crescita;
  • Il mondo non è preparato a una pandemia di agenti patogeni respiratori virulenti e in rapida evoluzione;
  • I capi di governo devono impegnarsi e investire per prepararsi al peggio: una pandemia di agenti patogeni respiratori a diffusione rapida e letale;
  • Nonostante l’elevato rapporto costi-benefici della preparazione alle emergenze (rispetto al costo potenziale delle pandemie) i governi continuano a trascurarla. Le analisi della Banca Mondiale e dell’OMS indicano che la maggior parte dei Paesi dovrebbe spendere in media tra 1 e 2 USD a persona, all’anno, per raggiungere un livello accettabile di preparazione alle pandemie.

È quindi chiaro che nel nostro mondo interconnesso, egoismi nazionali e individuali non sono la soluzione per fare fronte a minacce che non conoscono frontiere. È vero che le pandemie scandiscono la storia dell’umanità: peste, sifilide, tifo, influenza spagnola, hanno creato pandemie con milioni di morti quando la globalizzazione non era ancora quella che conosciamo. Solo la “Spagnola” tra il 1917 e il 1919 ha causato 50 milioni di morti.
Tuttavia, il mondo è cambiato sia per quanto riguarda le nostre conoscenze scientifiche e tecnologiche, in grado di rispondere a queste sfide, nonché per il livello di cooperazione tra istituti di ricerca, Istituzioni internazionali e tra Stati. L’efficienza di queste indispensabili cooperazioni dipende ovviamente dalle capacità delle Istituzioni sovranazionali di cooperare e soprattutto di assicurare il rispetto delle decisioni collettive. Le organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite o l’OMS sono indispensabili per assicurare dialogo, incoraggiare la cooperazione, coordinare gli studi e la ricerca, ma non dispongono della capacità di costringere i loro membri a seguire le loro proposte o suggerimenti.

Invece questa cooperazione costituisce una forza delle Istituzioni europee che purtroppo la permanenza dei nazionalismi può anche trasformare in una debolezza nei campi dove le loro competenze sono limitate o inesistenti. Tuttavia, mettere a confronto l’egoismo iniziale della Francia e della Germania (assimilati all’Ue) alla generosità della Cina non è giusto, per diverse ragioni. La prima è che i due vicini dell’Italia hanno cambiato atteggiamento e la Germania, per esempio, accoglie nei suoi ospedali alcuni pazienti italiani. La seconda è che, appunto, l’Ue è riuscita, come vedremo, a coordinare gli aiuti e assicurare la cooperazione tra i Sati membri in materie di dispositivi sanitari. La terza è che all’inizio della crisi l’Unione europea ha mandato in Cina più di 54 tonnellate di materiale sanitario. La quarta è che essendo all’origine della diffusione del virus (e non è la prima volta, anche la Spagnola o la SARS venivano della Cina), l’aiuto che offre – non solo all’Italia – più che solidarietà fa parte di una sana politica diplomatica, anche per ridare fiducia ai partner nel programma delle vie della seta. Infine, la Cina è uno dei più grossi produttori di mascherine e componenti chimici necessari per fabbricare medicine e tamponi per il virus. Se vuole evitare di perdere questi mercati, deve per forza, più che per solidarietà, convincere i suoi clienti di essere un produttore affidabile.

Solidarietà e geopolitica: Cina, Russia ed altri
Invece questa cooperazione costituisce una forza delle Istituzione europee che purtroppo la permanenza dei nazionalismi può anche trasformare in una debolezza nei campi dove le loro competenze sono limitate o inesistente. Tuttavia, mettere a confronto l’egoismo iniziale della Francia e della Germania (assimilati all’Ue) alla “generosità” della Cina, poi della Russia, di Cuba e dell’Albania non è giusto, per più ragioni.

La prima è che i due vicini dell’Italia hanno rapidamente cambiato atteggiamento e la Germania, per esempio, accoglie nei suoi ospedali alcuni pazienti italiani (e anche francesi), come la Francia nei suoi ospedali nel sud del paese. Poi, hanno anche mandato attrezzi sanitari: la Francia, per esempio, ha mandato 2 milioni di mascherine e decine di migliaia di camici in Italia, ma ben pochi media ne hanno parlato.

La seconda è che, appunto, l’Ue è riuscita a coordinare gli aiuti e assicurare la cooperazione tra Stati membri in materie di dispositivi sanitari, costituendo delle scorte con una gara d’appalto generale che permetterà una distribuzione a tutti i paesi che ne facciano richiesta e, in ogni caso ci sono tante altre iniziative da cui parleremo in seguito.

La terza è che all’inizio della crisi in Cina, l’Unione europea le ha inviato, senza fare pubblicità per non mettere il governo cinese a disaggio, 56 tonnellate di materiale sanitario. La Cina fa adesso la sua parte mandando materiale non solo all’Italia ma anche ad altri paesi.

La quarta è legata all’approccio geopolitico della Cina. Essendo all’origine della diffusione del virus (e non è la prima volta, anche la Spagnola o la SARS venivano della Cina), l’aiuto che offre – non solo all’Italia – più che solidarietà fa parte di una sana politica diplomatica, anche per ridare fiducia ai partner nel programma delle vie della seta, restano viva la volontà della Cina di essere leader internazionale.

La quinta è che la Cina è il più grande produttore di maschere e componenti chimici necessari per fabbricare le medicine e tamponi per combattere il virus, proprio perché le nostre industrie europee hanno delocalizzato la produzione di tali materiali e attrezzi per ridurne il costo di produzione. Una politica industriale, quest’ultima, senza visione di lungo periodo che adesso ripiangiamo amaramente. Se la Cina vuole evitare di perdere questi mercati, deve in ogni caso, più che per solidarietà, convincere i suoi clienti che è e rimane un produttore affidabile.

Nel caso degli aiuti della Russia, ovviamente questi sono benvenuti, tuttavia siamo lontanissimi da una “solidarietà” disinteressata. I russi provano a fare dimenticare le numerose interferenze nel funzionamento delle nostre democrazie nel corso della Brexit o delle elezioni politiche, il finanziamento di partiti euroscettici, ecc., ma nello stesso tempo offrono aiuti proseguendo un lavoro senza sosta di disinformazione tramite siti internet, social networks e media di loro proprietà in vari stati membri o in varie lingue come Sputnik. Al punto che il Servizio estero dell’Unione ha creato un servizio speciale EU East StratCom Task Force, per rilevare e smontare queste fake news tipo: «La democrazia e la libertà impediscono l’Europa di combattere con efficienza il virus», «Il virus è stato creato nei laboratori della Nato», «Le élite globali utilizzano le misure contro il virus per introdurre la tirannia» e cosi via. Alla data del 26 marzo sono state identificati 152 casi di disinformazione. La Task-force pubblica ogni giovedì una Disinformation review accessibile gratuitamente sul web, https://euvsdisinfo.eu/disinfo-review/

Invece non si può minimizzare l’aiuto di Cuba e dell’Albania. Nonostante il blocco americano dal 1960, Cuba ha una grande reputazione nel campo medico e farmaceutico. La ricerca di cooperazione Ue-Cuba risale al 1995. Dal novembre 2017, l’Unione ha siglato con Cuba un Accordo di Dialogo politico e di cooperazione, in special modo in cultura, energia, agricoltura, modernizzazione economica, modi di cooperazione per il commercio e gli investimenti, evitando gli effetti extraterritoriali della legge Helms-Burton degli Stati Uniti, adottata nel 1996 con la Presidenza di Clinton e tuttora vigore che inasprisce ulteriormente l’embargo. Obama ha provato a normalizzare le relazioni tra Cuba e l’America permettendo il suo alleggerimento. Tuttavia alcune delle disposizioni della Helms-Burton sono state riattivate dal presidente Trump, nel 2019.

Per l’Albania, il do ut des è ancora più forte. Oltre alle relazioni particolari tra Italia e Albania, l’Ue, dalla caduta del regime, ha sempre aiutato il paese e non solo finanziariamente. Dopo il terribile sisma del novembre 2019, l’Ue ha coordinato un aiuto globale dell’Unione e degli Stati membri di 1,15 miliardi di euro. Il 23 Marzo, ha erogato 50 milioni di euro per aiutarli nella lotta contro l’emergenza Coronavirus e deciso all’unanimità di avviare i negoziati di adesione dell’Albania all’Ue.

È vero anche che le politiche dell’Unione sono complesse e per questo poco conosciute dal pubblico (e spesso dei politici stessi) e anche dai giornalisti non specializzati. Si presume che non interessano e non fanno notizia, quindi non sono pubblicate, diffuse o commentate. Eppure non è molto difficile trovare queste informazioni, basta cercarle perché sono pubbliche.

Illustrazione di © Niels Bo Bojesen (Danimarca)

Continua…

1. Unione Europea e coronavirus

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