Elogio della fragilità, segreto della nostra evoluzione

Daniela Mapelli, Telmo Pievani e il maestro Emilio Isgrò durante lo svelamento dell'opera in due atti L'abiura di Galileo. La foto è di Alessandra Lazzarotto

La mia scommessa oggi sarà quella di proporvi uno sguardo evolutivo, un po’ più largo del solito nello spazio e nel tempo, ad alcuni fenomeni che ci stanno accadendo in questi tempi turbolenti.

Tutto cominciò con un bambino che non voleva diventare grande. Sembra l’esordio di una favola e invece è l’evoluzione umana. Noi infatti abbiamo una caratteristica piuttosto unica in natura: un’infanzia e un’adolescenza insolitamente lunghe. Non solo abbiamo rallentato lo sviluppo, ma tratteniamo anche alcuni caratteri giovanili per tutta la vita. Ci siamo evoluti mantenendo nella maturità quelle che nelle nostre specie cugine erano caratteristiche solo infantili, per esempio l’integrazione stretta fra diverse aree della corteccia cerebrale. Il muso peloso di uno scimpanzé adulto è molto diverso dal nostro, con quella fronte sfuggente e la mandibola protrusa in avanti, ma se guardiamo la testa rotonda, i grandi occhi e la faccia piatta di un cucciolo di scimpanzé ci sembrerà umano in un modo quasi inquietante.

Siamo scimmie bambine, dunque fragili. Ma come è possibile? Si tratta infatti di un adattamento costoso e pericoloso. Se i nostri cuccioli restavano inermi e totalmente dipendenti dai genitori non per mesi, ma per anni, il rischio di essere predati aumentava, senza contare i costi sociali di cure parentali così prolungate. I grossi felini africani lo sapevano bene. Infatti, gli altri animali soggetti a predazione, come gli erbivori, fanno il contrario. Un piccolo di gazzella o di giraffa, poco dopo il parto, con il liquido amniotico ancora addosso si alza sulle zampe e in venti minuti sta già trottando dietro alla madre che lo protegge.

Noi invece abbiamo imboccato la strada della fragilità. Camminare eretti implica che il canale del parto non può allargarsi più di tanto, ma nel frattempo il cranio si gonfiava nel corso dell’evoluzione del genere Homo: l’unico modo per risolvere la contraddizione era accorciare la gravidanza e far nascere bambini prematuri. Se siamo qui a parlarne, evidentemente la fragilità offrì ai nostri antenati vantaggi di altro tipo: vantaggi sociali e mentali.

Se il gruppo di appartenenza è tanto coeso e ben organizzato da permettersi di coltivare al proprio interno piccoli così deboli, allora si sprigionano possibilità nuove e straordinarie. Il cervello umano si sviluppa per due terzi dopo la nascita, quindi, è una spugna che assorbe e rielabora esperienze, insegnamenti, immagini, storie. Più anni di infanzia e adolescenza significano più tempo per l’apprendimento, l’imitazione, il gioco, le libere sperimentazioni e invenzioni, le improvvisazioni creative. Siamo umani grazie all’infanzia e all’educazione, figlie di una fragilità originaria.

Non sappiamo esattamente perché sia andata così. Forse, come succede anche nei bonobo, ci siamo auto-addomesticati, cioè la selezione sociale ha favorito il successo riproduttivo degli individui più docili e meno aggressivi. In Homo sapiens sono state trovate in effetti le tracce genetiche di questo progressivo ingentilimento, una delle quali è appunto la neotenia, la conservazione di caratteri giovanili per tutta la vita.

Certo, il risultato non fu ottimale. Del resto, noi siamo una congerie di imperfezioni che funzionano. Il bipedismo ci condanna a mille acciacchi e mal di schiena, ma libera le mani e ci fa esplorare la Terra. Il cibo può finire nella trachea, soffocandoci, ma è il prezzo da pagare per l’evoluzione del linguaggio articolato, un’altra delle nostre meraviglie. Il parto è doloroso e pericoloso, ma consegna al mondo bambini che, ancorché immaturi, sono un prodigio di curiosità.

Può sembrare strano, ma la fragilità è il segreto della nostra evoluzione. I sistemi più creativi, come il genoma e il cervello umani, sono fragili, nel senso letterale che possono frangersi contro un trauma dell’esistenza. Ma è in virtù di quella vulnerabilità che riescono anche a innovarsi continuamente. Proprio grazie a quel cervello plastico abbiamo imparato a fare astrazioni, a fantasticare, a immaginare mondi che non esistono al di fuori della nostra testa, a raccontare storie, a interrogarci sulle regolarità della natura che ci circondava, primo embrione della scienza. E così siamo diventati consci anche della nostra stessa fragilità, siamo diventati una specie che ambisce all’infinito e all’eternità, ma si ritrova ad essere cosciente della finitudine di tutte le cose. Per questo la fragilità non va idealizzata: significa anche sofferenza, paura, disagio, insicurezza, consapevolezza tragica della propria irredimibile finitezza.

La pandemia, che oggi ci affanniamo a rimuovere, è stata un’epifania della nostra vulnerabilità. Una natura indifferente alle sorti umane e imprevedibile si è accanita sotto forma di un virus. Ma quanto imprevedibile? Sappiamo che la pandemia era stata dettagliatamente prevista dagli esperti. La storia della peste, così ricorrente, sempre nuova e sempre uguale, è paradigma della fragilità di una natura umana esposta agli agenti patogeni. Per fortuna le scimmie bambine hanno inventato la scienza, che ci ha consegnato i vaccini. Ma questo argine non basterà, perché là fuori di virus ne circolano tanti e i salti di specie sono più probabili se interferiamo con gli habitat in cui vivono gli animali portatori. La pandemia è anche una questione ecologica. Ci vorrà una buona dose di immaginazione per capire che noi fragili e prepotenti, se vogliamo scongiurare altre tragedie simili, dobbiamo fare pace con la natura dalla quale proveniamo e alla quale apparteniamo. Eppure, la nostra arroganza persevera: abbiamo vaccinato solo la parte ricca del mondo e non stiamo facendo nulla per ridurre le probabilità che accada di nuovo.

I nuovi vaccini sono il frutto di scoperte e di tecniche che vent’anni fa erano semplicemente inimmaginabili, come l’editing del genoma e l’utilizzo dell’RNA messaggero. Sono l’esito migliore di quella miscela di qualità che compongono il metodo scientifico sperimentale, che qui a Padova trova le sue radici: immaginazione, rigore, ostinazione, intuito, sacrificio. La creatività di questo metodo si manifesta spesso nella serendipità, cioè in quel fenomeno bellissimo per cui gli scienziati stanno cercando qualcosa e trovano tutt’altro. Progettano un esperimento, si pongono una certa domanda di ricerca, ma poi nel corso del lavoro si imbattono in evidenze del tutto inaspettate, e di solito importanti. La serendipità insegna, come scriveva Karl Popper, che i dati da soli non bastano, bisogna interrogarli con una teoria, e che la vera ignoranza non è l’assenza di conoscenza, ma il rifiuto di acquisirla. Gli scienziati, tante più cose sanno e scoprono, tante più si accorgono di non sapere. E non basta ancora: non solo sappiamo di non sapere, cioè abbiamo gli strumenti intellettuali per capire quanto siamo ignoranti, per esempio sul numero di specie che abitano sulla Terra o di pianeti extrasolari che potrebbero ospitare la vita, ma a volte ci accorgiamo che non sapevamo nemmeno di non sapere.

Il nocciolo di questa impresa serendipitosa che è la scienza è racchiuso in un paradosso fecondo e fragile: a furia di mettere in discussione i propri e altrui presupposti, a forza di criticarsi, di controllare reciprocamente i risultati, di confrontare ipotesi e teorie, la conoscenza non va in crisi ma, al contrario, aumenta. La critica fa crescere, l’errore è generativo. Questo è lo scetticismo sistematico, razionale e costruttivo della scienza, l’esatto opposto dello scetticismo pregiudiziale, distruttivo e ottuso che alimenta le fake news e i complottismi. Questo è il motivo per cui la libertà della scienza è antidoto contro ogni autoritarismo, dogmatismo e totalitarismo. L’impresa scientifica è insomma un’appassionante avventura della conoscenza in cui i punti di domanda, con il passare del tempo, aumentano anziché diminuire. È l’umiltà di dire «non lo so ancora» e di sfidare l’ignoto.

Serendipità significa che negli occhi dei nostri studenti ci sono in nuce idee e scoperte che noi, oggi, non possiamo nemmeno immaginare. Come disse la poetessa polacca Wisława Szymborska nel discorso di conferimento del Premio Nobel per la Letteratura, nel 1996, «Io apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta terra. Se Isaac Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Skłodowska Curie non si fosse detta “non so” sarebbe sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del Premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca». Qui a Padova sono passate molte persone di animo inquieto, da Andrea Vesalio a Galileo Galilei, da Elena Cornaro Piscopia a Concetto Marchesi, e a moltissimi altri.

È con questo spirito che abbiamo progettato le celebrazioni per gli 800 anni del nostro Ateneo che oggi si concludono. Doveva essere una mobilitazione collettiva di tutte le componenti della nostra comunità e lo è stata, con più di 700 incontri organizzati. Doveva lasciare un’eredità concreta e permanente e così è stato, con collane di ricerca storica e libri per ragazzi, una rete diffusa di collezioni, sedi storiche che nel 2022 sono state visitate da più di 300.000 persone, installazioni artistiche prestigiose, e soprattutto nel 2023 due nuovi Musei a disposizione di tutti. Ben poco di effimero, dunque, nessuna retorica auto-celebrativa e nessun eventificio. Ringrazio di cuore per questo le colleghe, i colleghi e il personale tecnico amministrativo che hanno fatto un lavoro appassionato e dedito nel Comitato per gli 800 anni. Il nostro compito si conclude qui ed è stato un onore condividerlo con voi.

Come ci hanno raccontato i più di dieci Premi Nobel che abbiamo avuto ospiti e le molte altre grandi personalità che hanno omaggiato la nostra ricorrenza, la verità nella scienza è asintotica, non la si afferra mai del tutto, c’è sempre una nuova domanda da inseguire. Un biologo Premio Nobel, Peter Medawar, i cui studi sul sistema immunitario aprirono la strada ai trapianti di organi, compresi quelli pionieristici condotti proprio qui a Padova, scrisse: «La scienza vivrà finché continueremo a possedere una facoltà che non dà segno di indebolimento: la capacità di immaginare quale possa essere la verità, sia pure in forma imperfetta e rudimentale quanto si voglia; e finché conserveremo contemporaneamente la disponibilità a verificare se quanto abbiamo immaginato corrisponda o meno alla realtà».

Immaginazione, audacia, cura. Eppure, durante e dopo la pandemia, questa meraviglia fragile del sapere scientifico non è stata adeguatamente comunicata e condivisa con l’opinione pubblica. Alcuni hanno pensato di ergersi a rappresentanti della comunità scientifica intera, si sono espressi su tematiche lontane dalle loro competenze e hanno ceduto alle richieste pressanti della politica e della società di avere certezze e previsioni, quando la risposta migliore sarebbe stata semplicemente: «non lo sappiamo ancora». Altri hanno pensato di fare divulgazione o di mettere in scena il dibattito scientifico nei talk show televisivi o sui social, che non sono sedi opportune per farlo, perché obbediscono a regole differenti. Quando si fa comunicazione della scienza, non bisogna comunicare sé stessi, ma la scienza. Ci siamo dimenticati che quando si comunica la scienza non basta raccontarne solo i prodotti, i numeri, i risultati: bisogna soprattutto condividere con il pubblico il processo della scienza, il metodo, l’approccio, l’attitudine empirica e razionale, con tutte le sue incertezze.

Pensiamoci. Le conquiste di civiltà più rilevanti, alle quali il nostro Ateneo ha contribuito negli ultimi otto secoli, sono tutte fragili, richiedono manutenzione e cure incessanti: il progresso scientifico; la democrazia; la libertà di ricerca, di insegnamento, di espressione, di movimento; i diritti civili; la laicità dello Stato; gli ideali di giustizia, di uguaglianza, di pace. Vorrei aggiungere un’ultima dimensione di fragilità della nostra condizione attuale e del nostro futuro, alla luce dei dati che la scienza ci offre, con crescente allarme, sulla crisi ambientale, sul riscaldamento climatico e sulla distruzione della biodiversità: sto parlando della sempre più fragile e precaria relazione tra la specie umana, i suoi modelli di sviluppo e di consumo e la natura.

Mentre una guerra criminale di aggressione sta insanguinando il nostro continente, mentre le emissioni di gas serra aumentano, disobbedendo a tutti gli accordi internazionali sottoscritti, mentre l’insicurezza climatica genera instabilità, migranti ambientali e conflitti per le risorse, mentre il riscaldamento globale di origine antropica si avvicina velocemente a quei punti di non ritorno che accelereranno ulteriormente il processo, ci accorgiamo di avere per troppo tempo rimosso la consapevolezza della nostra fragilità rispetto alla potenza di un pianeta che non ha alcun bisogno di noi.

Ecco perché è importante rammentare che la natura è più grande di noi. Lo è perché la sua diversità, compresa quella dei microbi, ci è ancora in gran parte sconosciuta. In essa si nascondono principi attivi di straordinario valore per la nostra salute, farmaci del futuro, antitumorali, suggerimenti per soluzioni ecosostenibili, spunti per nuovi materiali, nuove fonti di cibo, prototipi di economie circolari, miracoli di biochimica da imitare come la fotosintesi. La natura è più grande di noi perché è una trama di relazioni che ci avviluppa, ci alimenta e talvolta ci sgomina. La natura è più grande perché ha tempi lunghissimi, mentre noi mammiferi africani neotenici siamo su questo pianeta da duecento millenni o poco più. Noi abbiamo bisogno della natura per ogni respiro che facciamo, mentre lei con una scrollata potrebbe disfarsi di noi e prosperare come e meglio di prima. La natura è più grande di noi perché non si lascia imbrigliare nelle nostre categorie mentali: non è una persona, non è un agente intenzionale, non fa nulla per un fine, non ci premia e non ci punisce.

Nonostante tutto ciò, noi ci illudiamo di dominare la natura, trattandola come una risorsa inerte, e non come una trama di relazioni di cui facciamo parte. Oppure la idealizziamo in una delle tante versioni dell’età dell’oro. Ma la natura vergine non è mai esistita. La specie umana interagisce in modo ambivalente con la natura da sempre. I luoghi in cui ancora oggi troviamo i livelli più alti di biodiversità non sono quelli disabitati e privi di ogni presenza umana. Al contrario, sono quelli in cui le comunità native da millenni co-evolvono lentamente con gli ambienti naturali e ne garantiscono la manutenzione. Le atroci discriminazioni perpetuate contro i popoli indigeni, anche in questi anni pandemici, sono un’offesa non solo per la diversità culturale che ha arricchito la nostra storia, ma anche per la diversità naturale. Abbiamo bisogno di un ecologismo umanista, che faccia capire che gli interessi della natura coincidono con i nostri e con quelli delle generazioni future, come adesso sta scritto anche all’Articolo 9 della Costituzione italiana, dove si dice che la Repubblica tutela l’ambiente, gli ecosistemi e la biodiversità «anche nell’interesse delle future generazioni».

La Terra come sistema in evoluzione sarà proprio il fulcro narrativo del Museo della Natura e dell’Uomo che apriremo il 23 giugno prossimo a Palazzo Cavalli. Insieme al bellissimo Museo Botanico che inaugureremo questo pomeriggio, sarà il lascito permanente più importante delle celebrazioni per il nostro Ottocentenario. La fusione delle preziose collezioni storiche patavine di geologia e mineralogia, paleontologia, zoologia e antropologia permetterà ai visitatori di ammirare, oltre alla splendida Sala delle Palme fossili, una selezione fra 300.000 reperti, accolti in un allestimento scenografico e accompagnati da video, proiezioni, exhibit multimediali e interattivi. Grazie a uno sforzo economico e collettivo straordinario del nostro Ateneo, siamo pronti ad accogliere le scolaresche, i turisti, i cittadini in un viaggio emozionante, che offrirà cibo per la mente e per gli occhi. Il Museo sarà un luogo di comunicazione, quindi, ma anche di didattica, di ricerca continua sulle collezioni, di partecipazione e inclusione. Un altro contributo di Padova a quella che il compianto amico Pietro Greco chiamava cittadinanza scientifica.

Ho elencato alcune fragilità che, sorprendentemente, sono diventate la nostra forza di Homo sapiens. La speranza è che la nostra Università continui anche per i prossimi 800 anni a coltivare quella creatività perennemente giovanile che ci ha reso umani. Il sogno è che nuove, inaspettate serendipità illuminino il nostro cammino in questo bizzarro e interessante universo.


Prolusione pronunciata in occasione dell’inaugurazione dell’801° anno accademico dell’Università degli Studi di Padova che ringraziamo per l’autorizzazione alla pubblicazione.

Related posts

Da Charles Babbage all’Intelligenza Artificiale. La Rivoluzione che sfida il futuro

La scoperta del futuro. Restare umani nell’epoca dell’intelligenza artificiale