Fu una popstar mondiale, quando ancora questo termine non aveva alcun significato. Più di cento anni fa, agli albori del ’900. Riconosciuto dal gran pubblico a New York o a Buenos Aires. Corteggiato e invidiato dal bel mondo. Amato dai suoi connazionali, poveri immigrati come lui negli Stati Uniti. Seguito passo passo in tutto ciò che faceva.
Enrico Caruso non è stato solo un eccezionale tenore, il più grande di tutti. Ė stato un innovatore anche per l’uso delle tecnologie allora disponibili. È il primo a incidere la propria voce su un disco. E con l’opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, venderà più di un milione di copie. Un successo planetario. Altri non avevano avuto lo stesso coraggio.
Registrando canzoni – liriche o napoletane – Caruso rese la musica accessibile a un pubblico inimmaginabile fino ad allora; riuscì ad abbattere le barriere del tempo e dello spazio perché per la prima volta non era più necessario recarsi in un teatro, in un cafè chantant, in un locale privato per ascoltare musica. Una rivoluzione culturale, come – fatte le debite proporzioni – è accaduto con l’avvento dell’era digitale. Girò anche due film. Nell’unica pellicola sopravvissuta, My cousin, film muto del 1918, recentemente restaurata dalla cineteca di Bologna, interpreta il doppio ruolo dell’immigrato senza soldi e del cantante di successo: è la sua storia.
Eppure, i primi passi nella natia Napoli sono segnati dalla sofferenza. La scintilla del genio scocca grazie all’amore di una madre. Devi curare la tua voce, è bella; tu devi studiare, tu sei bravo, lo dice pure don Peppino, il prete della chiesa di Sant’Anna…
Ha il suo fascino immaginare Annarella mentre esorta il piccolo Enrico a deviare dal destino che gli impone di ripetere il mestiere e la vita del padre, fabbro in una fonderia napoletana, pochi soldi, tanta fatica, miseria assicurata. Nasce povero Enrico, in una famiglia con troppe bocche da sfamare: papà Marcellino e mamma Anna Baldini arrivano nella capitale del Sud dai monti del Matese – il paese allora si chiamava Piedimonte d’Alife – in cerca di una sorte migliore. Prima una sistemazione nella zona di piazza Ottocalli, allora periferia di Napoli, dove Caruso nasce il 25 febbraio 1873; poi il trasferimento vicino alla Ferrovia, in via San Cosmo, a pochi passi dalla chiesa di Sant’Anna alle Paludi. Qui nel coro della parrocchia, ad appena dieci anni, lo scugnizzo si fa notare, canta e come canta, diventa Carusiello, una voce destinata a mutare la storia della musica del ’900.
Dalla marginalità al divismo, accade tutto nell’arco di pochi anni. Da Napoli a New York, al successo mondiale. Con un rapporto verso la città natale contrassegnato da un infinito amore, ma anche dal risentimento per non essere stato apprezzato per tempo proprio dove aveva le sue radici.
Il giovane Enrico rompe infatti con la tradizione lirica ottocentesca per affermare un genere canoro che scandalizza i tradizionalisti suoi contemporanei. Impone un nuovo canone così sintetizzato nella lapide visibile sulla casa natale in via San Giovanniello agli Ottocalli: Alle preziose virtù antiche/ del bel canto italiano/ unì la veemenza nuova/ del suo temperamento mediterraneo.
Veemenza mediterranea che gli deriva proprio dai suoi esordi giovanili nella Napoli della Belle Époque. Siamo sul finire dell’estate del 1891. La scena si consuma tra via Caracciolo, Santa Lucia e il borgo marinaro con Castel dell’Ovo sullo sfondo. Un abile imprenditore, Gerardo Limoncelli, gestisce i Bagni Risorgimento dove mette a disposizione dei clienti non solo tutto ciò che serve per godersi i primi bagni di mare, ma anche alcuni spettacolini di intrattenimento: cantanti, macchiettisti, comici, Pulcinella. Tra signore eleganti e gentleman incuriositi dalla nuova moda balneare si esibisce anche Caruso. Ha 18 anni. Rimedia qualche soldo. Canta, canta a squarciagola, non ci sono le tecnologie di oggi, vale solo il proprio fiato. Deve imporsi tra tanta confusione estiva; ci riesce. Lo nota un giovane baritono, Edoardo Missiano, diventano amici e riesce così a presentare Caruso a Guglielmo Vergine, un maestro di canto, autorità indiscussa nel mondo della lirica. È la svolta. Ma quel modo dirompente di cantare imposto nelle comparsate ai Bagni Risorgimento lo accompagnerà per sempre. E nulla sarà più come prima. Accade come per il jazz nell’America segregazionista o come per i Beatles nei Sessanta del ’900: la musica cambia forma.
Inizia a studiare, studia tantissimo, è il suo riscatto sociale. Nel 1897 incontra finalmente a Livorno Giacomo Puccini. Inizia una nuova vita. Professionale e sentimentale. Nel 1899 San Pietroburgo e la prima tournée a Buenos Aires. Con il nuovo secolo finalmente il San Carlo, di nuovo nella sua città. Caruso viene scritturato per L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti. Il debutto avviene la sera del 30 dicembre 1901. Ha quasi 29 anni.
La leggenda nera tramanda una selva di fischi da parte del pubblico napoletano. Un falso storico. Caruso non fu fischiato, anzi fu applaudito e invitato a bissare l’aria più nota dell’opera, Una furtiva lagrima. Su questo concordano, anche nei resoconti delle serate successive, le cronache dei giornali: Il Mattino, il Roma e Il Pungolo. Quest’ultima testata si avvaleva della firma del barone Saverio Procida, critico riconosciuto a livello nazionale, ascoltato e temuto. Scrive Procida: «Caruso ha una voce di valido timbro baritonale».
Baritono quindi, non tenore? Il rilievo infastidisce oltremodo il cantante. A Napoli da sessant’anni andava in scena sempre lo stesso modo di cantare, ormai segnato dal tempo. Quell’esordio segnò un evento storico, ma i contemporanei non se ne resero conto. In quella fatidica sera, inoltre, il giovane Caruso nella sua prorompente ingenuità mancò di rendere omaggio alla nobiltà partenopea che considerava il San Carlo il salotto di casa. Principi e marchesi in prima fila avevano il potere di decretare il tonfo o il trionfo di un artista. Il figlio del fabbro fu accolto con gelo, nonostante godesse già di una buona fama. Chi pensava di essere quel giovanotto che non aveva mai studiato in un conservatorio musicale? E a fatica aveva imparato a esprimersi in un corretto italiano? Nei giorni successivi, gennaio 1902, Caruso va in scena con la Manon di Jules Massenet. Il barone Procida verga una recensione ancor più critica: «A lui manca lo charme del cantante, la finezza vocale dell’artista, l’eleganza dell’attore, la dizione raffinata…». Offeso e irritato il tenore giurò che sarebbe tornato all’ombra del Vesuvio solo per mangiare un piatto di vermicelli a vongole. Fu di parola. Addio Napoli. E scelse l’America. Immigrato tra gli immigrati. Eroe grandioso e tragico. Anche quando diventerà una popstar.
Rivedrà Napoli solo nell’estate del 1921 per morirvi la mattina del 2 agosto. Aveva appena 48 anni. Prima una tappa a Sorrento, nell’hotel Excelsior Vittoria, il luogo sul mare che ispirò Lucio Dalla per il suo struggente Caruso. Infine, l’hotel Vesuvio, proprio vicino a quei Bagni Risorgimento dove la sua voce trent’anni prima si affermò in tutto il suo temperamento mediterraneo.
Divo per sempre. Eterno.