Le cronache dell’epoca ci dicono che fu assai elaborata la ricerca di un emblema per la nascente NATO-OTAN, quando all’indomani della guerra di Corea si volle dar vita all’organizzazione militare fondata sul Trattato del Nord Atlantico firmato due anni prima, nel 1949. Dopo varie ricerche e proposte solo nell’ottobre del 1953 si giunse infine – su indicazione di Lord Ismay, primo segretario dell’organizzazione – all’immagine stilizzata di una rosa dei venti o bussola: l’ideale per orizzontarsi nella ricerca della pace. Tutto racchiuso entro un cerchio utile a garantire l’unità dei vari firmatari del patto.
Insomma, un emblema, uno strumento per tempi assai tempestosi, per mantenere la rotta tra marosi e burrasche. Un aggeggio di cui si sente un gran bisogno oggi, mentre infuria una guerra in cui si fa ormai giornaliero ricorso alla minaccia dell’atomica o d’altre armi assai micidiali. Ne son piene le prime di giornali e social-network, così come i lanci di TG e talk show. E senza più nemmeno la faccia di Putin, moltiplicato sugli schermi di tutto il mondo al momento degli annunci fatali alla nazione russa. Da tempo ogni sera vediamo moltiplicarsi sugli schermi nubi o funghi malefici. Turbano ormai le serate di ognuno. Le mutano in incubi popolati dalle immagini quotidiane di morti e rovine. L’altro ieri, in prima serata, Vladimir Solovyov, intrattenitore principe di Rossya 1, ha sollazzato il pubblico con il ricorso alla minaccia dell’arma fatale. E così si è prodotto in un annuncio mortifero: «I Polacchi debbono sapere che in trenta secondi non resterebbe più nulla di Varsavia».
Immediate le reazioni in ogni parte del globo e da ogni versante. Dalle colonne del Corriere della Sera passando a quelle del New York Times, per Le Monde o il Washington Post o per la celebrata, prestigiosissima, Foreign Affairs, uno solo l’interrogativo sospeso sulla testa del mondo: Rethinkink the Unthinkable? Ripensare l’Impensabile?
E giù con i richiami fatali alla mutua distruzione dell’umanità. Conditi ora dalle molteplici enumerazioni di ben altre fatali occorrenze. Che succede nel caso si usi – come sembra già accaduto e per più volte – il fosforo bianco? E se si fa ricorso ad altri composti chimici? Qualcuno potrebbe utilizzare armi batteriologiche? E se queste sfuggissero da questo o quel laboratorio?
Attenzione, i russi sono stremati. La situazione sta loro sfuggendo di mano. Può darsi anche la possibilità che, nel tentativo di trovare una rapida via d’uscita, una scorciatoia, azzardino mosse estreme. Se provano infine a passar parola all’atomica? Non quelle micidiali proiettate all’altro lato del mondo dai vettori intercontinentali. Magari si sgancia qualche bomba tattica: un multiplo modesto – per dir così – dei funghi sbocciati su Hiroshima o Nagasaki.
E via alla giostra su giornali e TV: la parola passa subito agli esperti.
Vi è bisogno di orizzontarsi seriamente. È l’ora delle stellette, degli strateghi d’ogni indirizzo e cultura. Il lettore comune fa fatica a destreggiarsi con cartine e mappe complicate, sigle astruse. Poi all’improvviso cade la menzione per qualche venticello fatale. E allora anche il termine più astruso, più strambo – spill-over – si illimpidisce e rivela i suoi risvolti mostruosi. Che succede e dove se nell’attimo fatale in cui si sgancia un composto chimico, batteriologico o atomico – tattico, per carità – su qualche angolo di Ucraina, il vento spira da Ovest? E se non è Tramontana, con strascichi sul Mar Nero, ma Libeccio? O Ponente? Tutto rischia di tornare indietro, di rivoltarsi contro, verso la casa di chi ha sganciato?
Allora anche il lettore, lo spettatore meno acculturato comprende, trasale o rabbrividisce. Alle nostre latitudini, noi pugliesi ne abbiamo già fatto esperienza. Abbiamo già conosciuto questi venti e questi annunci col disastro di Chernobyl. Vietato andare sulla Murgia a raccogliere funghi. Niente cardoncelli, per ora. In Francia si si ricorda ancora dello scandalo e dei brutti quarti d’ora rimediati allora da Chirac e Sarkozy per colpa dei servizi metereologici nazionali. Sicuri avevano annunciato che la nube radioattiva non aveva valicato Alpi e alture francesi. Ancora oggi grava il peso delle accuse e dei dubbi del tempo.
Non vi sarebbe spazio adesso se non per malinconici o mesti sorrisi. Solo che a turbare ora i nostri sonni stanno news assai inquietanti. A infoltire il chiacchiericcio atomico usuale ci si sono messi i dispacci provenienti dai retrobottega strategici dei meetings di Nato, UE e G7. Ci dicono che si sta pensando di modificare i paragrafi dei documenti relativi alla cosiddetta postura strategica.
Insomma, quali risposte bisogna brandire nel caso qualche malaugurata nube chimica, radioattiva o atomica superi il confine ucraino e raggiunga terre atlantiche? In Polonia o sul Baltico? La risposta sembra vaga. Perciò assai inquietante: «Ogni utilizzo da parte russa di armi chimiche o biologiche sarebbe inaccettabile e provocherebbe severe risposte […] Stiamo accelerando la trasformazione della Nato rispetto ad una situazione strategica più pericolosa […] rafforzando la nostra capacità di deterrenza»: queste le parole adoperate nel comunicato ufficiale pubblicato ieri alla fine del vertice NATO. Insomma, adesso non è più solo Putin a minacciare il ricorso a misure estreme. Lo si contempla ormai da ogni versante.
E allora affiora inevitabile interrogarsi sul tempo che viviamo, su questo XXI secolo.
Siamo ancora in un mondo governato dalla Carta delle Nazioni Unite. La nostra bussola è ancora quel comandamento supremo lì solennizzato: «salvare le future generazioni dal flagello della guerra»? E noi in Italia, come ci muoviamo? Non ci riconosciamo forse anche noi in quel Trattato di non proliferazione nucleare firmato nel 1968 e finora ratificato da quasi 190 stati sovrani? Non ci siamo forse anche noi impegnati (in base all’articolo II) a non accettare il trasferimento sul nostro suolo di qualsiasi arma nucleare? E perché mai ospitiamo nelle basi di Aviano e Ghedi tra 70 e 90 atomiche cosiddette tattiche, marchiate a «stelle e strisce», nell’ambito del programma di condivisione della deterrenza nucleare NATO? E perché mai – assieme a tutte le potenze atomiche e a quella aderenti alla Nato e poche altre – anche noi Italiani non abbiamo ancora firmato il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, sottoscritto invece già da 129 nazioni e 7 organizzazioni internazionali, entrato in vigore il 22 gennaio 2021? È forse così che rispettiamo quel «ripudio della guerra» sancito nell’art. 11 della nostra Carta fondamentale?
Sarebbe forse il caso, ancora una volta, anche noi di imparare dall’Ucraina. I suoi abitanti sono tutti, sia pure con lingue e culture diverse e qualche volta contrapposte, sotto fuoco e ceneri micidiali. Sarebbe veramente assurdo se questa catastrofe fosse la risposta alla decisione presa dai governanti ucraini che nel 1991 rinunciarono, con l’aiuto logistico e finanziario degli USA, a migliaia di ogive e vettori nucleari allora ceduti alla Russia di Eltsin o utilizzati come combustibile nelle varie centrali atomiche nazionali. È il caso di non dimenticare mai che quel micidiale armamentario ereditato dalla dissoluzione dell’URSS costituiva allora il terzo arsenale atomico del mondo per numero di testate e potenza. Ancor oggi farebbe dell’Ucraina un pilastro della deterrenza globale.
Una lezione che dovremmo saper far fruttare soprattutto oggi, quando venti di tempesta chiudono con nubi minacciose ogni orizzonte.