Nel mio libro, L’oro della Turchia, metto l’accento sulla dilagante cementificazione portata avanti da Recep Tayyip Erdoğan negli ultimi vent’anni; sui numerosi mega-progetti realizzati e quelli ancora in cantiere – un esempio su tutti, il famigerato kanal Istanbul-; spiego come il presidente turco abbia utilizzato l’architettura a fini politici: la riconversione a moschea di Santa Sofia è solo l’ultimo degli esempi in ordine temporale; più in generale, descrivo come le politiche urbanistiche targate Akp abbiano plasmato profondamente la società. Tutto questo è l’oro della Turchia voluto fortemente dal leader turco e che oggi, complice l’emergenza sanitaria e una forte crisi economica, potrebbe smettere di luccicare.
Uno degli esempi più eclatanti di utilizzo dell’architettura pubblica come mezzo ideologico è rappresentato dal palazzo presidenziale di Ankara, Cumhurbaşkanlığı Külliyesi. Rientra a tutti gli effetti tra i progetti faraonici realizzati nel paese della Mezzaluna. Inaugurato nel 2014, è una delle costruzioni più discusse degli ultimi decenni. Una delle critiche più ricorrenti è l’eccessiva magnificenza, tema che ha trovato ampio spazio anche sulla stampa internazionale. Il complesso presidenziale comprende una superficie di 300.000 metri quadrati e occupa un terreno due volte superiore a questa metratura. La sua posizione nell’Atatürk Forest Farm (Aoç) – un ampio spazio verde creato come parte degli sforzi di modernizzazione nei primi anni repubblicani – suscitò altresì molta indignazione.
I secolaristi lo considerarono un tentativo di sopprimere l’eredità di Atatürk, occupando un luogo che non solo porta il suo nome ma è anche una donazione personale che il padre della Turchia moderna fece alla nazione. Inoltre, visto che l’Ataürk Forest Farm era un’area di conservazione registrata, i tribunali all’epoca ordinarono immediatamente di interrompere la costruzione. Ordine a cui Erdoğan rispose con altezzosa superiorità affermando che nessuno avrebbe potuto impedire il completamento dell’opera. E così è stato.
Oltre alla sua opulenza e al fatto che fosse una costruzione illecita, il complesso è diventato il simbolo architettonico del sistema presidenziale associato allo stesso Erdoğan, ancor prima che diventasse presidente. Gli scavi iniziarono nel maggio del 2012 e a giugno 2014 Recep Tayyip Erdoğan venne eletto presidente: l’edificio non ancora occupato era già il simbolo del potere assoluto di un uomo solo al comando.
In altre parole, si è trattato di una figura politica dominante nel paese che ha esteso il suo potere oltre i limiti consentiti attraverso la potenza rappresentativa dell’architettura. Questo era in linea con il suo tentativo di presentare sé stesso come un rappresentante diretto della nazione: la materializzazione della volontà nazionale.
L’edificio principale, che contiene l’ufficio di presidenza, è chiaramente e simbolicamente al centro dell’intero complesso. Le unità amministrative si trovano dietro l’edificio principale e rappresentano figurativamente il backstage del potere. L’edificio principale è collegato alla residenza, al centro congressi e alla moschea attraverso la piazza cerimoniale. Tutto il complesso raccoglie intorno a sé anche luoghi pubblici con diverse funzioni e altri ingressi.
L’architetto che ha realizzato il complesso presidenziale di Ankara è Şefik Birkiye. È nato ad Ankara nel 1954, ma già da giovanissimo si è trasferito a Bruxelles dove ha vissuto per lungo tempo. L’approccio architettonico di Birkiye pone l’accento sulla storia e sul patrimonio locale, affermando in questo modo di «conservare la memoria attraverso l’interpretazione della tradizione» (Vizzion Architects n.d.). L’identità dell’architetto si basa sul desiderio di raggiungere l’Europa attraverso l’uso strategico dell’ibridismo: una formula nata dal fatto di essere un architetto turco formatosi in Europa, noto per il suo lavoro (postmoderno) che enfatizza l’identità locale.
Il classicismo leggero del complesso presidenziale comprende elementi occidentali e turco-islamici, evitando del tutto generici dettagli orientali. Inoltre l’inserimento di una moschea crea l’ibridazione perfetta nella rappresentazione di una Turchia secolare e tuttavia islamica. Un’architettura che è alla ricerca di un’immagine rilevante a livello globale, ma localmente efficace. Un interessante aspetto del progetto presidenziale riguarda le pratiche spaziali, ossia l’utilizzo funzionale degli spazi del palazzo. In tale senso, emerge che una grande quantità dello spazio è destinata all’esposizione pubblica del presidente.
Come lo è stato anche per i suoi predecessori, l’architettura pubblica è un importante mezzo ideologico per il governo islamico-conservatore. La ricerca per il raggiungimento di una rappresentazione architettonica della nazione – che potesse incorporare sia il nazionalismo che l’islam – iniziò con imitazioni sperimentali del revivalismo ottomano. Definite con l’etichetta ottomano-selgiuchide, diverse sedi vennero realizzate in Turchia utilizzando queste caratteristiche architettoniche insieme a un uso abbondante di tecnologie avanzate. In questo scenario, il palazzo presidenziale doveva presentare una nuova sintesi, seppure con la stessa denominazione ottomano-selgiuchide.
Il nuovo stile del compound doveva essere, dunque, un’amalgama di classicismo occidentale e islam turco prodotto da un architetto nato in Turchia ma di base in Europa. Il tutto teso a mettere al centro dello scacchiere politico la figura, forte e influente, di Erdoğan. Il nuovo governo islamista al potere puntava a guidare il mondo islamico ma per fare questo era necessario anche un riconoscimento da parte dell’Occidente. L’edificio ha anche dei chiari riferimenti alla tradizione nazionalista turca attraverso la cosiddetta «casa turca». Risalente al 1910, la casa turca ha delle caratteristiche specifiche – come il solaio a sbalzo e la gronda sporgente – che sono riprese nel corso degli anni Trenta e Quaranta in Turchia. L’utilizzo di questo riferimento architettonico nel nuovo ufficio presidenziale ne evidenzia il carattere volutamente nazionalistico.
Il presidente turco ha più volte sottolineato, nei suoi comizi, che il complesso presidenziale è la «casa della nazione». La casa della nazione, nonostante la massiccia propaganda governativa, è diventata l’argomento di una feroce lotta.
Fu subito dopo la popolare rivolta di Gezi Park che il complesso divenne un tema centrale nel dibattito pubblico. Le due settimane di manifestazioni e proteste avevano creato terreno fertile affinché si parlasse delle ciclopiche opere pubbliche volute dal leader turco. Una nuova consapevolezza emerse in una parte della popolazione: per la prima volta da quando Erdoğan era salito al potere ci si rendeva conto che il volto della Turchia stava selvaggiamente e velocemente mutando.
All’interno del complesso residenziale, c’è una moschea, denominata (anch’essa) la «moschea della nazione» (Milletin Camisi). È il luogo delle celebrazioni religiose nazionali osservate da tutto il paese, dove i rituali islamici diventano cerimonie di stato. I versetti del Corano, che adornano l’interno della moschea, enfatizzano proprio l’importanza dello stato, della giustizia e dell’onestà. La cerimonia d’inaugurazione è esemplificativa in tal senso: mentre Erdoğan faceva il suo discorso, dietro di lui vi erano il primo ministro, il presidente della Grande Assemblea e il presidente di Diyanet, la Direzione per gli Affari religiosi. In questo modo, anche la moschea è utilizzata con scopi politici, nonostante la sua diversa natura, e ha permesso simbolicamente l’espansione dei poteri presidenziali verso altri settori.
Il palazzo presidenziale rientra a tutti gli effetti tra i cambiamenti urbani e le opere ciclopiche che il governo filo-conservatore islamista ha apportato nel paese della Mezzaluna negli ultimi 15 anni. Questa profonda trasformazione urbana ha cambiato drasticamente i paesaggi della città, tanto che molti studiosi l’hanno definita come rivoluzione urbana del nuovo islamismo. Una rivoluzione che ha modificato le dinamiche politiche e sociali, rimodellato le forze di opposizione al governo islamista, innescato nuove forme di protesta attraverso la nascita di movimenti urbani in difesa dello spazio pubblico e soprattutto ha portato il paese sull’orlo del baratro, in balia di una tempesta finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia della Turchia. Oggi il vero banco di prova del governo non è la tenuta del governo dopo le ultime amministrative che hanno visto emergere nuove figure di spicco dell’opposizione a livello nazionale, ma il modo in cui affronterà la crisi economica. Perché questo impero, nasce, cresce e si nutre su queste fondamenta.
Per chi volesse approfondire:
Giovanna Loccatelli, L’oro della Turchia, Rosenberg & Sellier, 2020
La foto del palazzo presidenziale di Ankara che accompagna l’articolo è di Riccardo Gasco.
Le foto della galleria sono dell’autrice e documentano la parte europea della città, distretto residenziale Beşiktaş, quartieri Levent, Etiler, Gayrettepe.