La morte dello scrittore cileno Luis Sepúlveda ha fatto piangere moltissime persone e ha rivelato al mondo intero il grande amore che i lettori italiani nutrivano nei suoi confronti. Un amore di cui si sapeva, ma inaspettato per il grande cordoglio collettivo manifestato, com’è d’uso oggi, sui social network. Copertine di libri, fotografie, dediche, citazioni tratte dai suoi romanzi, il web è stato monopolizzato per molti giorni da un’ondata di affetto che ha colto tutti un po’ di sorpresa. Non solo colleghi, uomini di cultura, giornalisti, ma gente comune, popolo.
Sepúlveda aveva conquistato il loro cuore con le parole, la letteratura, con il suo modo di stare al mondo e di essere uomo. Il carcere, le torture subite in Cile, «l’onore più grande della mia vita è stato quando ero un ragazzo di 21 anni e Salvador Allende mi ha scelto per far parte della sua guardia personale». Una vita vissuta pienamente e sempre dalla stessa parte.
Ho aspettato che passassero un po’ di giorni da questo evento luttuoso prima di chiedere a Bruno Arpaia di fare un’intervista su Sepúlveda. So del rapporto di amicizia che li legava. So quanto stia soffrendo per la morte dello scrittore cileno, per noi l’autore de Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare e di molte altre opere, per lui prima di tutto un amico. Un caro amico. Ed è proprio da qui che iniziamo la nostra conversazione su Sepúlveda.
Eravate amici, lo possiamo dire?
Lo possiamo certamente dire e la sua scomparsa mi ha lasciato ammutolito per giorni e giorni. L’ho sofferta molto. Mi sono sentito un po’ in colpa perché quando lo hanno ricoverato, eravamo all’inizio della pandemia, avevo sottovalutato la questione, mi dicevo ce la farà. Mi ripetevo ha sopportato di tutto è un grande combattente figurati se non ce la farà. I penultimi dieci giorni ci avevano dato una speranza.
Una speranza alimentata da cosa?
Sono in un gruppo di WhatsApp con la moglie e alcuni amici comuni e proprio in questa chat ci scambiavamo informazioni. Ci dicevano che era stabile e che lentamente gli stavano riducendo l’ossigeno. La dottoressa aveva chiesto che gli facessero la barba, sembrava si fosse incamminato sulla strada di una lenta guarigione. Invece negli ultimi due giorni è crollato tutto e siamo rimasti sconvolti. Si, eravamo amici.
Piangi l’amico prima che lo scrittore.
So che per molti la perdita forte è quella dello scrittore, per me è quella di un amico innanzitutto. Una persona che la vita aveva temprato molto. Era diffidente all’inizio di un rapporto, ma se riuscivi a superare quella siepe, la barriera che quel suo sguardo e la sua imponenza fisica ti mettevano addosso, e non era molto difficile superarla, si mostrava per quello che era realmente: uno degli amici più leali e generosi che io abbia mai incontrato. In questo senso è una perdita davvero forte.
Vi ho incontrati in occasione dell’ultima edizione del Salone del Libro di Torino, lo scorso anno. Ci facemmo un paio di foto e mi disse: «Chiamami Lucho».
Lucho è il diminutivo cileno di Luis e si pronuncia come il nostro Lucio. Un diminutivo affettuoso con cui ci rivolgevamo a lui. Come quando chiami la tua fidanzata tesoro, cose del genere. Gli amici lo chiamavano così.
Avete scritto un libro insieme, Raccontare, resistere. Una conversazione nella quale avete parlato di letteratura, ambiente, passione politica, giornalismo. Che scrittore è stato Luis Sepúlveda?
Uno scrittore che come tutti gli scrittori veri se ne fregava dei generi letterari. Li usava e li riusava così come gli servivano per raccontare le sue storie. Lui è stato soprattutto un grande narratore, anche orale. Tu lo ascoltavi e t’incantava. Era cosciente che il romanzo europeo nasce proprio con Cervantes mescolando tutti i generi letterari. Ha usato il giallo, la letteratura di viaggio, la favola, il romanzo storico. Lo ha fatto alla sua maniera, in funzione delle storie che voleva raccontare. Diceva che se in un libro alla seconda pagina non succede qualcosa di forte, meglio abbandonarlo.
Quali le sue più specifiche e migliori qualità?
Era uno scrittore con una grande capacità di sintesi. Nella conversazione che è diventata il libro a cui facevi riferimento tu, diceva che Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, era inizialmente di 500 pagine e che poi tagliando, sfrondando, aveva cercato e colto solo l’essenziale. Il risultato finale è stato un libro di 150 pagine. Leggeva ad alta voce e registrava la sua voce, riascoltando capiva cosa doveva togliere e cosa, invece, era essenziale per la storia.
Bisogna avere un grande talento per esercitare questo tipo di critica verso il proprio lavoro.
Tutti noi che scriviamo rileggiamo, tagliamo, sfrondiamo, il grande lavoro è tutto lì. C’è chi lo fa prima, in corso di scrittura e chi lo fa alla fine. Si, sapeva cosa e dove tagliare. Cosa era superfluo, cosa non era essenziale alla narrazione. Era una questione, proprio, di oralità. Sì, e non solo in questo, aveva un grande talento.
Quali altre caratteristiche ti colpiscono del suo lavoro?
Come scrittore era capace di due cose fondamentali, l’ironia e la capacità di utilizzare frasi con un forte impatto visivo, immediatamente visualizzabili. Queste sue caratteristiche hanno fatto sì che raggiungesse persone estremamente diverse. I bambini per le fiabe così come i reduci del Sessantotto, del Cile e degli anni Settanta.
In un’intervista di qualche tempo fa espresse un pensiero sulla letteratura che mi appuntai, «Una buona letteratura può essere solo resistente: tutta la grande letteratura è un fenomeno di resistenza a qualcosa».
Questa è un pensiero che esprime anche Vargas Llosa, per quanto quest’ultimo possa appartenere ad un mondo molto distante da Sepúlveda. La letteratura è un atto di ribellione, un atto di non conformità con il mondo che ci circonda. È un tentativo di ribellarsi, di resistere a questo mondo e d’impiantarne un altro nell’immaginario che può avere effetti anche nella vita reale. La più grande rivoluzione della letteratura è esattamente questa: la capacità di farci cambiare il nostro immaginario, di farci vivere altre vite. Sepúlveda ha fatto proprio questo, ci ha fatto vivere tante altre vite con i suoi personaggi.
Mentre dice queste cose, Bruno si commuove. Si sposta un po’ all’indietro e trattiene il respiro come a riprendere fiato. Gesticola più del solito e si accende la seconda sigaretta. Gli occhi sono lucidi e anche se siamo a distanza, ci guardiamo e parliamo attraverso lo schermo di un computer, percepisco questa commozione. L’ho percepita mentre stavamo parlando e la percepisco anche adesso e, devo dirlo, la sua commozione commuove anche me. Dopo due boccate riprende a parlare.
Non era contento del mondo che lo circondava e voleva, in qualche modo, cambiarlo. Sebbene distinguesse l’essere un cittadino come tutti e l’essere scrittore, c’era sempre un ponte molto stretto tra la letteratura e la vita. Ripeteva spesso questa frase di Julio Cortázar, bisogna dare alla letteratura lo stesso rigore etico con il quale affrontiamo la vita e dare alla vita la ricchezza di possibilità estetica con la quale affrontiamo la letteratura. Morale e bellezza per lui erano la stessa cosa. E ovviamente se sei una persona con una forte carica etica, come puoi accettare quello che c’è lì fuori? Le ingiustizie, le sofferenze, le disparità sempre crescenti che ci sono nel mondo. La letteratura per Lucho era questa.
Queste le ragioni per cui scelse di stare dalla parte del presidente Salvador Allende.
Aveva partecipato con grande intensità e con grande passione alla lunga campagna elettorale di Salvador Allende e poi ai tre anni di presidenza. È stato un militante. Fu mandato a dirigere una fabbrica di cui non capiva nulla, faceva teatro politico, scriveva pamphlet, volantini. Ha partecipato con grande intensità a quell’esperienza che poi fu soffocata nel sangue da Pinochet l’11 settembre del 1973. Quando ci fu l’attacco a La Moneda, il palazzo presidenziale, era fuori Santiago del Cile a presidiare proprio quella fabbrica. E dopo il golpe si diresse verso il sud del Cile dove si diceva si stesse ricostruendo una qualche forma di resistenza.
Fu un’esperienza terribile che segnò non solo il Cile democratico.
Un’esperienza che lo ha segnato molto, così come i due anni di carcere e di torture di cui non parlava volentieri. È sempre stato uno spirito ribelle anche quando è stato scarcerato, grazie ad Amnesty International, invece di andare subito in Germania, ha iniziato un lungo viaggio in America Latina che poi ha raccontato ne La frontiera scomparsa. Ha partecipato in Nicaragua alla rivoluzione sandinista con una brigata internazionale latino-americana. Gli ideali erano quelli, gli stessi del presidente Allende. Poi con il tempo aveva cambiato alcune idee, si rendeva conto che non era più tempo di guerriglie, di lotta armata, anche in America Latina. È sempre stato un uomo di sinistra e lo diceva in modo esplicito quando affermava che i suoi libri non potevano piacere a tutti perché lui era un uomo schierato, di parte. Anzi diceva di non voler piacere a tutti e poi, per paradosso, piaceva quasi a tutti.
Parlava lo spagnolo, l’inglese, il francese e l’italiano.
Conosceva bene anche il tedesco, aveva vissuto in Germania e aveva fatto il corrispondente per una rivista tedesca.
Un osso duro per voi traduttori.
Si è vero. Per la traduzione dei suoi libri in italiano aveva Ilide Carmignani che era diventata anche una sua grande amica e di cui si fidava ciecamente. Ci teneva moltissimo ai traduttori perché sapeva che la voce che i lettori stranieri leggevano era la voce dei traduttori e delle traduttrici. Ilide racconta spesso della prima volta che l’ha incontrato, convocata dalla sua casa editrice a Milano, e di come fosse preoccupata. Pensava ci fossero dei problemi con le traduzioni e invece Lucho aveva voluto incontrarla per conoscerla e ringraziarla.
Che lingua ha utilizzato nei suoi libri Sepúlveda?
Una lingua apparentemente molto facile, quando lo leggi non hai difficoltà a capire. La struttura è sempre molto semplice, poi però come diceva Milan Kundera, credo fosse lui, a me l’ha detta Javier Cercas, libri facili da leggere e difficili da capire. L’esempio della leggerezza calviniana, una narrazione leggera che poi ti rimane appiccicata addosso.
Mi ha colpito molto il modo con cui parlava della sua attuale moglie, la poetessa Carmen Yáñez. Un rapporto bello, solido. Di due persone che si sono scelte.
Si erano sposati una prima volta e si erano separati dopo gli eventi cileni. Lui si risposò, ma quando si reincontrarono Lucho decise di separarsi e di risposare Carmen. Un amore a prova di tutto. Di detenzione, di tortura, di altri matrimoni, di lontananza. Effettivamente un rapporto molto caldo anche perché pian piano Carmen aveva trovato una sua collocazione dal punto di vista pubblico, non era più la donna all’ombra dello scrittore di successo. In questi ultimi anni il loro rapporto era molto stretto, caldo, affettuoso, complice. Viaggiavano sempre insieme ed era raro che Lucho si spostasse senza Carmen.
Li hai conosciuti da vicino.
Ti confesso che se sono contento di una cosa nella vita è di aver inventato lo spettacolo di poesie di Lucho e Carmen con le musiche di Ginevra Di Marco, Francesco Magnelli e Andrea Salvadori. Siamo stati ai festival Dedica di Pordenone, Encuentro a Perugia, Poesia senza patria a Firenze. Ogni volta una meraviglia, da brividi.
Cosa lascia Luis Sepúlveda come scrittore?
Lascia un sacco di storie e uno stile. La sintesi e la capacità visiva del suo scrivere, l’importanza centrale del raccontare una storia. Lascia molti testi sparsi. Lascia alcuni bellissimi romanzi e i racconti. Il racconto è un genere difficilissimo e lui era molto bravo in questo. Cortázar, paragonando la letteratura al pugilato, dice che un romanzo può vincere ai punti, il racconto deve vincere sempre per ko. Lascia le favole, le sue favole. Lascia un’idea di letteratura che tiene insieme etica ed estetica ed è questo il suo lascito più importante.
Con Filippo Giannuzzi, il direttore del festival Lector in fabula, e Bruno Arpaia stavamo lavorando all’ipotesi di invitarlo alla prossima edizione del festival. L’idea era quella di inaugurare una nuova sezione dedicata agli scrittori sudamericani. Ci sarebbe piaciuto farlo incontrare con i ragazzi delle scuole e in serata conversare anche con un pubblico più adulto.
Non potremo farlo più perché Luis Sepúlveda, Lucho, non c’è più.
Possiamo però continuare a leggere e promuovere i suoi libri. Possiamo ricordarlo nella prossima edizione di Lector in fabula con Bruno Arpaia così come avevamo progettato.
«Che bel sogno il governo Allende, che privilegio averlo conosciuto» aveva detto in una recente intervista. Coerente fino in fondo. Coerente fino alla fine.