Europa, fine delle illusioni

«L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni che saranno date a queste crisi». Le parole profetiche di Jean Monnet risuonano al tempo stesso come insegnamento, come allerta e come esortazione.

Come insegnamento, perché è vero che l’Europa è cresciuta attraverso le crisi, e che le risposte alle crisi sono state le tappe cruciali del suo divenire. Quasi tutte le politiche europee affondano le loro radici nelle crisi economiche, sociali e ambientali con cui i Paesi del vecchio continente hanno dovuto confrontarsi. La politica ambientale nasce dai disastri ecologici degli anni Settanta; la moneta unica nasce dalla crisi del sistema monetario internazionale e dalle turbolenze sul mercato dei cambi; il Meccanismo europeo di stabilità e il sistema europeo di supervisione delle banche nascono dalla grande crisi finanziaria; il Pilastro europeo dei diritti sociali nasce dal disagio sociale degli anni recenti. Per venire all’oggi, Next Generation EU, con la prima massiccia emissione di debito pubblico europeo è stata la risposta alla crisi pandemica da COVID19; REPower EU è stata la reazione alla crisi energetica e, da ultimo, l’assai controversa proposta ReArm Europe si configura come una prima risposta al terremoto geopolitico che ha fatto seguito alla guerra russo-ucraina e al secondo mandato di Donald Trump negli Stati Uniti.

Non sempre le risposte alle crisi sono state all’altezza delle sfide da affrontare. L’Unione europea resta una costruzione non solo incompleta ma anche largamente imperfetta, con squilibri evidenti: tra concorrenza e solidarietà, tra mercato e politiche sociali, tra integrazione monetaria e frammentazione finanziaria, tra dinamiche intergovernative e democrazia parlamentare, e l’elenco potrebbe continuare. Queste imperfezioni e questi squilibri diventano la sostanza delle critiche sia di coloro che vorrebbero un’Europa più forte e più unita, sia di coloro che la vorrebbero ridimensionata e subalterna al potere sovrano degli stati nazionali. Critiche che finiscono per saldarsi producendo effetti perversi, come è accaduto vent’anni fa, con il rigetto della Costituzione europea nei referendum francese e olandese. Allora la richiesta imperiosa di un’Europa più attenta ai valori sociali si saldò con i primi rigurgiti nazionalisti e sovranisti, privando l’Unione di un ancoraggio cruciale verso l’unità politica.

Tuttavia, nonostante le imperfezioni e gli squilibri, settant’anni e più di integrazione europea testimoniano di un percorso che resta uno dei più originali e straordinari della storia umana, perché interamente costruito sul dialogo e sui negoziati, e non sull’uso della forza.

La scommessa dei padri fondatori, quella di dar vita a una comunità di valori e dunque a un’unione politica partendo dall’integrazione dei mercati ha in larga misura funzionato. E quelle che oggi, soprattutto alle nuove generazioni, appaiono acquisizioni scontate, come la possibilità di muoversi liberamente in Europa, di studiare e lavorare in un paese diverso dal proprio, il diritto a ricevere cure sanitarie, l’uso di una moneta solida, e molte altre cose, sono state il risultato di una costruzione lunga e paziente, a tratti molto faticosa. Come pure non è stato semplice raggiungere un’intesa sui valori e gli obiettivi che devono guidare il processo di integrazione: pace, democrazia, giustizia, libertà, libera concorrenza, coesione economica e sociale, solidarietà, sostenibilità, inclusione, rispetto delle diversità, tutela dei diritti umani. Ma questi valori sono ora scritti nell’articolo 3 del Trattato dell’Unione europea, e testimoniano di una crescita attraverso le crisi che ha saputo raggiungere traguardi importantissimi.

La profezia di Jean Monnet è anche un’allerta, perché siamo alle prese con una crisi trasformativa probabilmente destinata a cambiare in profondità il funzionamento dell’Unione. È una crisi tentacolare, che finisce per investire l’intero spettro delle politiche europee, e mette alla prova la stessa tenuta dei suoi valori fondamentali. Cadono alcune certezze che hanno fatto da sfondo all’avanzamento dell’integrazione europea: la certezza dell’appoggio degli Stati Uniti al progetto europeo; la certezza di poter affidare alla NATO la nostra difesa, e soprattutto la certezza di muoversi in un contesto nel quale non vi sono ragioni plausibili per prepararsi alla guerra.

Vengono meno i punti cardinali che hanno guidato la navigazione europea: l’apertura dei mercati, l’avanzamento della democrazia, l’approfondimento della cooperazione, la legittimazione e la capacità delle istituzioni internazionali di affrontare le grandi sfide globali, prima fra tutte quella del cambiamento climatico e delle sue conseguenze. Tutto questo sembra ora diventare «il mondo di ieri», per evocare il titolo del racconto biografico di Stefan Zweig, uno dei libri più toccanti e importanti che ci ha lasciato il secolo scorso, che tutti gli europei, e non solo, dovrebbero leggere.

Nei settant’anni della sua storia, l’Europa ha affrontato innumerevoli crisi, ma quella che stiamo vivendo si presenta come la più lacerante e potenzialmente pericolosa. Proprio per questo, la profezia di Jean Monnet suona anche come una potente esortazione. Un’esortazione a tradurre questa crisi in un’occasione di crescita senza precedenti, a mettere da parte le miopie nazionaliste, perché ora più che mai è il momento di fare i conti con tutto quello che l’Europa non è ancora riuscita ad essere, nel campo della politica estera, della difesa, della competitività economica, delle politiche di migrazione, del welfare, e via discorrendo.

Viene in mente l’appello quasi disperato di Mario Draghi al Parlamento europeo: «[…] quando mi chiedete cosa sia meglio, cosa sia meglio fare ora, vi rispondo: non ne ho idea. Ma fate qualcosa». In verità Draghi sa benissimo cosa occorrerebbe fare, sicuramente in campo economico, ma non solo. È tutto scritto nei Rapporti dei saggi del 2012 e del 2015, nei quali la sua firma di Presidente della Banca centrale europea si affiancava a quella degli altri presidenti delle istituzioni. Rapporti intitolati, rispettivamente, Verso un’autentica unione economica e monetaria e Completare l’Unione economica e monetaria, che non a caso approdavano entrambi all’esigenza di mettere mano a sostanziali riforme istituzionali.

Sulle tante proposte contenute in quei rapporti, dall’unione bancaria, all’unione del mercato dei capitali, alla creazione di una capacità fiscale, alle riforme per una politica economica comune, si è andati avanti, anche se con molte incoerenze e con colpevole lentezza. Incoerenze e lentezza che già hanno creato grandi difficoltà nel periodo successivo alla grande crisi finanziaria, ma che appaiono sempre più incompatibili con le sfide attuali.

Ursula von der Leyen ha pienamente ragione quando dice che il tempo delle illusioni è finito, e forse l’illusione più difficile da sfatare è quella che l’Europa dei piccoli passi possa ancora avere un futuro. In un mondo che sembra calpestare tutti i valori fondanti dell’Unione, pace, democrazia, giustizia, stato di diritto, multilateralismo, rispetto delle diversità, dialogo, cooperazione, solidarietà, sostenibilità in tutte le sue accezioni, c’è da sperare che i leader europei trovino proprio nella difesa di quei valori una nuova ragion d’essere, una più forte determinazione e una spinta rinnovata verso l’unità politica.

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