Federico Caffè e lo Stato sociale

Il 14 e 15 aprile di 35 anni fa Federico Caffè lasciò casa sua e non fu mai più ritrovato. Il prossimo 24 maggio la Facoltà di Economia Sapienza di Roma lo ricorderà in occasione della presentazione del Rapporto sullo Stato Sociale 2022, a cura di Felice Roberto Pizzuti, Michele Raitano e Massimiliano Tancioni.
Noi lo ricordiamo con questa riflessione di Mario Tiberi su Federico Caffè e lo Stato Sociale.


Federico Caffè ebbe l’occasione di essere nel Regno Unito, con una borsa di studio, proprio quando, a cavallo tra gli anni 1947 e 1948, si dispiegava in tutta la sua pienezza l’applicazione concreta, in campo politico, della visione interventista di Keynes, esplicitamente richiamata nel secondo Rapporto Beveridge, il cui stesso titolo, Full employment in a free society, indicava uno degli obiettivi fondamentali caratterizzante tale visione: il pieno impiego; obiettivo, al quale Caffè ha riservato grande attenzione in tutta la sua vita, riproponendolo con la formula dello «stato occupatore di ultima istanza».

Caffè aveva già raccolto il messaggio innovativo di Keynes per quanto riguardava la politica monetaria, e soprattutto la politica fiscale, ma apparirà successivamente con tutta evidenza, l’influenza esercitata su Caffè dall’ispirazione welfarista che contraddistinse la politica del Governo britannico in quel periodo e lasciò un segno complessivo nella vita politica della Gran Bretagna, condizionando anche l’azione dei vari governi conservatori avvicendatisi in seguito al potere, compreso quello a forte indirizzo neoliberista della Thatcher.

Senza indugiare nell’elencare le numerose citazioni di Caffè che possano dare sostegno alla precedente affermazione, ci si può limitare a indicare i passaggi più significativi, che si possono individuare nei suoi lavori.

Intanto vanno segnalati alcuni contributi particolari che lo hanno visto impegnato su quel filone della teoria economica raccolti sotto la denominazione di economia del benessere: un insieme di scritti, spesso molto raffinati (esternalità, beni meritori, beni pubblici, tra gli altri), che hanno fornito le basi logiche per motivare quell’insieme di interventi, per ragioni sia di efficienza sia di equità, caratteristici del cosiddetto Stato sociale.

Intendo fare riferimento ad alcune tappe fondamentali della ricerca di Caffè; le prime due, praticamente contemporanee sono l’uscita dei Saggi sulla moderna economia del benessere (Einaudi, 1956) e del Dizionario di economia politica (Comunità, 1956).

Ci sono poi due testi strettamente legati alla sua attività didattica: il primo, curato e introdotto da lui, è un importante testo dell’economista danese Frederik Zeuthen (Boringhieri, 1961), che è stato parte fondamentale del programma d’esame degli studenti della mia generazione; infine, le varie edizioni del suo manuale fino alle Lezioni di politica economica (Boringhieri, 1984).

In questi suoi contributi Caffè ha continuato la costruzione del suo approccio metodologico alla politica economica; come ha scritto Becattini: «In Caffè […] l’analisi economica non è mera elencazione di teoremi o mera cassetta di strumenti, anche se ci son gli uni e gli altri, ma analisi scientifica e discorso sociale e politico ad un tempo, dissezione concettuale e proposta operativa» (Meridiana Libri, 1995).

Tale impostazione è servita anche per dare conforto all’introduzione delle varie istituzioni dello Stato sociale nei sistemi economici contemporanei; senza dimenticare che, alla nascita e all’estensione di tali istituzioni, hanno dato un certo impulso, nel corso del tempo, le motivazioni offerte da altre discipline aventi particolare attenzione rispetto a quei «mali giganteschi» segnalati dal Rapporto Beveridge: bisogno, inattività, malattie, ignoranza e miseria.

In effetti la letteratura, magari critica, sullo Stato sociale è piuttosto estesa; Ciccarone, in un suo contributo dedicato ai vari modelli riguardanti questa parte molto importante dell’intervento pubblico sul sistema economico, ha collocato Caffè nell’ambito dei sostenitori del cosiddetto modello riformista (Meridiana Libri, 1995). E  quindi non è solo l’andamento dell’indagine economica a scandire le vicissitudini dello Stato sociale ma anche  gli orientamenti culturali che, nel corso del tempo, si sviluppano all’interno dei vari Paesi; così si definiscono le caratteristiche qualitative e quantitative degli interventi destinati a soddisfare le esigenze di sicurezza complessiva delle persone, a prescindere dagli oneri versati individualmente per finanziarli, con l’intento quindi di alleviare il peso delle disuguaglianze caratteristiche delle economie di mercato, anche opulente.

Si può constatare, allora, che non esiste in generale un percorso di crescita continua delle risorse pubbliche destinate a tale scopo, perché può avvenire, come è avvenuto, che si affermino linee di pensiero favorevoli al ridimensionamento dell’ammontare di tali risorse per favorire attività private con fini analoghi o per cancellare tipologie di servizi già attivati; basta pensare a quanto è avvenuto in Italia in campo sanitario. Ed è necessario esprimere il rammarico perché, nel campo delle soluzioni private, anche in Italia, si sta affermando il cosiddetto Welfare occupazionale, prodotto dalla contrattazione tra le parti sociali, estesa alle prestazioni sanitarie oltre a quelle previdenziali.

Su questo terreno della battaglia delle idee Caffè ha fatto la sua parte incessante con l’attività di ricerca e divulgazione, di cui è doveroso dare conto in questa occasione. Ricordo, ad esempio, il semplice passaggio di un’intervista con Nadia Tarantini in cui dice, «La trasformazione d’immagine che io vedo a Pescara, di quei contadini che non si mettono più le pianelle in testa, ma prendono il mezzo di trasporto urbano realizza anche la previsione di un’economista dell’800, che diceva: l’unica forma di redistribuzione che possiamo fare, sono i servizi sociali» (Medium, 1985).

Ancora più intensa e vigorosa diventa la sua ricerca a sostegno delle ragioni, non solo economiche, che hanno dato origine e vitalità alle istituzioni dello Stato sociale intorno alla metà degli anni ottanta del secolo scorso quando gli orientamenti neoliberisti si affermavano nei Paesi più avanzati con tentativi, più o meno riusciti, di ridimensionare le dimensioni dello Stato sociale che la cultura interventista, non solo keynesiana, era riuscita a costruire. Sono praticamente gli ultimi prodotti dell’attività scientifica di Caffè prima che l’incombere della depressione gli togliesse la capacità di lavorare; mi sembra opportuno, tra l’altro, sottolineare questa coincidenza per indebolire l’ipotesi, avanzata da alcuni, che il cedimento della sua salute sia stato determinato dalla consapevolezza dell’inevitabile arretramento della sua impostazione culturale.

Al riguardo sono tutti del 1986 tre prodotti del suo lavoro: il primo, di contenuto non strettamente economico, ebbe la collocazione in una rivista (Micromega), col titolo Umanesimo del Welfare espressivo della componente etica della sua ricerca quale «[…] sforzo di attenuazione delle molteplici forme di emarginazione degli esseri umani. Nell’individuarle, nel ricercare i mezzi per ridurle o eliminarle, chi si dedichi a questa immagine non è mosso da alcuna schumpeteriana ostilità intellettuale verso l’attuale sistema economico, ma dal convincimento di essere il fiduciario di una civiltà possibile».

Il secondo, invece, è di taglio accademico e faceva parte di una raccolta, accompagnata da una sua introduzione, di saggi con il titolo emblematico, In difesa del welfare state (Rosenberg & Sellier, 1986): chiaro segno di uno studioso impegnato nella battaglia per quelle idee in cui credeva fermamente. In questo caso la sua impostazione interventista viene riaffermata, più che nei confronti dei numerosi pensatori neoliberisti, nei confronti di alcuni economisti, prevalentemente di formazione marxista, che consideravano il diffuso ridimensionamento dello Stato sociale come una dimostrazione dell’impossibilità di riformare il capitalismo. Si trattava, quindi, di una esemplificazione concreta di quella solitudine culturale di riformista, rivendicata però con orgoglio, qualche anno prima (il manifesto, gennaio1982).

Caffè non richiama, quindi, i padri fondatori dell’economia del benessere (Marshall, Sidgwick e Pigou), ma i contributi di studiosi contemporanei come Beveridge, Myrdal, Meade, Hirschman e Joan Robinson, che avevano dato nuova linfa alla visione interventista. In particolare, per quanto riguardava lo Stato sociale, rilanciando, a suo supporto, non solo le motivazioni etiche ma anche quelle economiche e fornendo nuove e serie argomentazioni all’affermazione della compatibilità tra una maggiore equità e una maggiore efficienza.

E così, sostenuto anche dalla elaborazione di tale qualità, Caffè poteva affermare che «[…] si tratta di studi che possono contribuire a farci comprendere come il problema dello stato garante del benessere sociale […] sia quello della sua mancata realizzazione; non già quello del suo declino, o del suo superamento».

Sono parole a cui mi sento di riconoscere piena attualità anche perché erano accompagnate, in un passaggio successivo, da un monito che conserva altrettanto intatta la sua freschezza, quando ci invitava a seguire «l’intelligente pragmatismo di coloro che si sono adoperati per dare vita a una solidarietà istituzionalizzata terrena, non già a una immaginaria costruzione ideale».

Il terzo lavoro, infine, è l’Introduzione alla raccolta di saggi, appena menzionata, che mi è capitato più volte di affermare, costituisce l’essenza del suo testamento culturale, a partire dall’eloquente incipit nel quale enuncia «i punti fermi di una concezione economico-sociale progressista», cioè: «L’insistere su una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell’espressione dello Stato garante del benessere sociale; che affidi all’intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica».

La fermezza con cui sintetizzava i suoi giudizi di valore si accompagnava al preciso richiamo di uno dei principi ispiratori della sua funzione formativa: «Infondere la consapevolezza che l’indagine economica è soggetta all’assillo di un continuo ripensamento critico e di un puntuale riscontro con i fatti mutevoli della realtà storica può forse portare a un problematicismo sistematico».

Entriamo, infine, nel campo di uno dei fondamentali campi, la sanità pubblica, in cui si dispiega, o si dovrebbe dispiegare, la presenza dello Stato sociale; mi piace così concludere con una frase, contenuta nell’intervista già citata della Tarantini, in cui ho avvertito nuovamente la compresenza di economia ed etica, caratteristica della personalità di economista passionate, qual è stato Caffè, secondo la sua stessa autodefinizione.

Dice appunto Caffè alla Tarantini: «Non sono un fautore del disavanzo, ma certo l’unica trasformazione effettiva che c’è stata a Pescara è questa, i servizi sociali. Ho visto dei miei parenti occasionalmente ricoverati all’ospedale di Atri, si sono trovati benissimo […] e ho notato queste infermiere, con una base di studio limitata, ma con una volontà che ne faceva delle ottime professioniste […] allora ho riflettuto: si era data ad Atri una possibilità estremamente superiore a quella delle fabbriche di camicie, che poi non sono mai state aperte. Questo è tutto quel che non si comprende quando si parla di crisi fiscale del benessere…».

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