In questi giorni è stato ricordato in varie sedi l’anniversario della scomparsa di Federico Caffè, avvenuta nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1987. A stimolare l’attenzione sul suo nome è stato anche l’intervento significativo col quale Mario Draghi ha espresso, con un articolo sul più importante quotidiano finanziario europeo, il Financial Times, il suo parere sulla linea che l’Unione europea dovrebbe seguire per riparare rapidamente i danni provocati dalla pandemia del Covid-19. Vari articoli hanno ricordato che uno dei maestri ispiratori di Draghi è stato proprio Caffè, suo mentore nello sviluppo della breve carriera accademica, abbandonata per seguire la sua vocazione di civil servant, espletata brillantemente fino all’arrivo al vertice della BCE.
In questo contesto mi è arrivato l’invito di pagina21 a scrivere un intervento dedicato a Caffè, che abbiamo concordato di dedicare ad un aspetto non sempre riconosciuto del suo lavoro di ricercatore. Ho accettato volentieri, anche perché Oscar Buonamano è coinvolto nella felice esperienza del Premio Federico Caffè, che l’associazione intitolata al suo nome e il sindacato SPI-CGIL di Pescara hanno organizzato, in questi anni, per sollecitare il ricordo dell’insegnamento del loro concittadino tra gli studenti delle scuole superiori.
Ricordo dunque che Caffè, soprattutto negli anni successivi al 1970, quando, stimolato anche dai messaggi, talvolta irriverenti, provenienti dai suoi studenti della Facoltà di Economia della Sapienza, dove lui insegnava Politica economica, anch’essi protagonisti del movimento avuto in Italia alla fine degli anni sessanta, lasciò l’impegno di consulente della Banca d’Italia, e iniziò a svolgere un’intensa attività pubblicistica. Infatti liberatosi dal doveroso riserbo che avvertiva rispetto al ruolo fondamentale svolto da quella istituzione del nostro Paese, poté diffondere al di fuori del mondo accademico, con articoli giornalistici sui fatti d’attualità, la sua cultura interventista, basata sull’affermazione della politica economica, come disciplina autonoma, ancorata rigorosamente alla teoria economica. Ciò gli consentiva di sostenere, in sintonia con Keynes ma non solo con lui, una visione del mondo che affida alla responsabilità umana la possibilità del miglioramento sociale. Rifacendosi più precisamente a quelli che lui definiva i suoi «punti fermi: una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell’espressione dello Stato garante del benessere sociale; che affidi all’intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica».
Questi punti sono sufficienti per comprendere come la sua limpida posizione interventista si contrapponesse alla visione neoliberista, che guadagnava posizioni nella pratica politica di gran parte dei Paesi ad economia di mercato e, con suo profondo rammarico, anche nel mondo accademico, politico, sindacale progressista. Dunque il suo riformismo radicale, come a me è piaciuto definirlo, o rivoluzionario – ossimoro dovuto alla fantasia di Ermanno Rea – gli consentiva, attraverso le sue posizioni pubbliche, di conquistare simpatie profonde tra molte persone ma anche di isolarlo: rispetto ai suoi colleghi e a settori della sinistra attratti dal neoliberismo che cominciava a guadagnare posizioni in gran parte dei Paesi ad economia di mercato e, allo stesso tempo, rispetto agli ambienti, intellettuali e militanti, attratti da posizione politiche estreme.
Di qui nasce quella «solitudine del riformista» che Caffè avvertiva, e che espresse apertamente in un significativo articolo su il Manifesto nel quale menava fendenti a destra e sinistra. In effetti uno degli addebiti che gli venivano mossi era di essere un visionario, prigioniero della sua vita da metalmeccanico, come a lui con civetteria amava descriversi, seduto nel suo Istituto, lontano dal mondo esterno, quindi dalla conoscenza delle aspre contraddizioni che contraddistinguono le economie di mercato.
Si può ovviamente pensare tutto quello che si vuole dell’opera intellettuale di Caffè, ma ritengo doveroso ribadire che nulla sia più infondato di una valutazione del genere.
Caffè aveva lavorato qualche decennio in Banca d’Italia tanto per ricordare il tipo eccezionale di osservatorio del mondo economico del quale aveva potuto disporre, con un ruolo fondamentale, negli ultimi anni di permanenza nell’importante Ente, quando partecipò alla stesura della Relazione del Governatore all’Assemblea dei partecipanti, che rappresentava, in quegli anni il documento più importante di analisi dell’andamento dell’economia italiana nell’ambito dell’economia mondiale. E fatto ancora più inedito, come egli ci raccontava, l’attività svolta in qualità di membro di qualche delegazione della Banca, impegnata spesso nelle trattative internazionali, per definire, tra l’altro, le insidiose clausole minori presenti nei documenti ufficiali.
Ricordo, inoltre, che, non a caso, proprio un gruppo di allievi di Caffè, quando accettammo di buon grado l’invito, pervenutoci da Attilio Esposto e Vincenzo Carunchio, animatori della Società di Studi Ragione e Libertà, di organizzare un convegno nella loro sede di Penne sull’opera del nostro maestro, decidemmo, con grande convinzione, di scegliere il tema Federico Caffè. Realtà e critica del capitalismo moderno. E nella prefazione agli Atti del Convegno, curati da Attilio Esposto e da me, scrissi appunto: «la realtà con cui egli (Caffè) si misura è […] un capitalismo, quale esso è oggi, con le multinazionali e gli oligopoli nazionali, con le medie e piccole imprese, con i grandi finanzieri e gli infaticabili speculatori, con i possessori di ricchezza di qualsiasi entità, con i lavoratori più o meno organizzati, con vecchi e giovani disoccupati, nonché con le istituzioni, nazionali e sovranazionali, che cercano di regolare ed orientare i meccanismi spontanei del mercato».
L’attenzione per il capitalismo storico, diverso da quello ideale – come saggiamente ci aveva insegnato Luigi Einaudi – si ritrova con tutta evidenza in due capitoli delle sue Lezioni di politica economica, dedicati rispettivamente a Il mercato nella sua realtà concreta e l’azione dei poteri pubblici e a Moneta e organizzazione finanziaria nelle concrete economie di mercato.
Non mi sembra opportuno, in questa sede, snocciolare i numerosi scritti a sostegno di quanto ho affermato, ma mi limito ad un paio di citazioni che delineano la natura lungimirante e non visionaria di Caffè. In un suo articolo del 1971, Di una economia di mercato compatibile con la socializzazione delle sovrastrutture finanziarie, scriveva: «Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica, con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati, favorisca non già il vigore competitivo, ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori, in un quadro istituzionale che, di fatto, consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi».
Appena un anno dopo, ne La strategia dell’allarmismo economico, rifacendosi alla nozione di «struttura oligopolistica del potere» con la quale Papandreu caratterizzava il capitalismo contemporaneo, Caffè scriveva che «la spregiudicatezza è uno dei tratti caratteristici delle strategie e tattiche che vi si adottano» e, quindi, «l’accentuazione in senso pessimistico di una situazione che non sia brillante ma nemmeno catastrofica, può essere una strategia efficace per modificare l’esistente stato di cose, allorché si faccia avanti un “nuovo pretendente che reclama una fetta di potere”».
É in questo modo che Caffè ha svolto il suo compito di «uomo di buone letture, il riformista che conosce perfettamente quali lontane radici abbia l’ostilità a ogni intervento mirante a creare istituzioni che possano migliorare le cose»; e così, da «impenitente tappabuchi», come amava descriversi, si è impegnato a coltivare quelle «aspirazioni che si identificano in quel tanto di socialismo che appare realizzabile nel contesto del capitalismo conflittuale con il quale è tuttora necessario convivere».