Ferrarotti, il provocatore che amava disvelare gli autoinganni

Il professor Franco Ferrarotti nato in provincia di Vercelli e morto a Roma all’età di 98 anni, è considerato il padre della sociologia in Italia

Simone D'Alessandro

Ho un ricordo vivido delle evocative conversazioni con il professor Franco Ferrarotti; nel suo studio romano erano paradossalmente i libri, in ogni dove, a reggere le pareti.

Ribadiva il compito primario della sociologia: disvelare gli autoinganni, osservando ciò che la società non vede ancora, abbattendo stereotipi e pregiudizi con dati alla mano, storie di vita, osservazioni partecipanti e immaginazione, riprendendo in questo l’eredità di Charles Wright Mills.

Per il nostro decano la sociologia è sempre stata in crisi, ma è proprio questa la forza (diceva) di una disciplina «comparativa» e «condizionale», ché esplora le condizioni che consentono l’emergere (a volte l’esplodere) di determinati fenomeni. Ferrarotti, inoltre, affermava che le diatribe sui modi di considerare i fatti sociali hanno precedenti illustri: Benedetto Croce e Vilfredo Pareto.

Da giovanissimo Ferrarotti ha il coraggio di contrapporsi al pensiero di Croce, difendendo la sociologia in due articoli usciti nella Rivista di Sociologia, dal titolo rispettivamente di La sociologia di Thorstein Veblen e Un critico americano di Marx, ma senza schierarsi per una sociologia meccanica alla Pareto (L’eredità di Ferrarotti, “teorico sul campo”).

Nei suoi scritti propone una visione anticonvenzionale, eclettica ma sempre ricostruttiva della disciplina. La sociologia per quanto scientifica è ibrida, caratterizzata da un originario impulso filosofico e latamente speculativo, ma nello stesso tempo tenuta a una validazione empirica delle ipotesi di lavoro. «In questo senso è legittimo ritenere che non si dà sociologia senza ricerca sul campo, vale a dire senza il tentativo, cui talvolta, ma non sempre e non necessariamente, arride il successo, di unire riflessione teorica e indagine sul terreno» dice Ferrarotti nella prefazione agli scritti teorici del primo dei sei volumi, pubblicato dalle edizioni Marietti, che raccoglie tutte le sue opere.

Ferrarotti non pone confini netti. Così come ripudia la distinzione fra scienze dimostrative, che seguono il noto percorso problema-ipotesi-verifica (o falsificazione) e scienze interpretative, in cui prevale l’approccio ermeneutico e che comprendono filosofia, storia, sociologia, antropologia culturale e psicologia sociale. «Con la seconda legge della termodinamica e soprattutto con l’irruzione nella ricerca scientifica della dimensione tempo, come gli studi di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers hanno ampiamente dimostrato, è oggi possibile parlare di una «nuova alleanza» fra scienze della natura e scienze della cultura, così proseguiva il suo discorso.

Ma quello che più mi attraeva era la sua capacità di ritornare sul pensiero dei giganti del passato, per rovesciarne le considerazioni. La sua provocazione dialettica era foriera di nuove idee. Egli, ad esempio, contrastava l’assioma di Cartesio: al Cogito ergo sum preferiva il Reminisco ergo sum (Ferrarotti nella società irretita dalla tecnica / Reminisco, ergo sum: il pensiero “involontario”).

In Il pensiero involontario nella società irretita, affrontava il tema della memoria e quello della creatività che costituiscono l’essenza della nostra sopravvivenza sulla terra (temi che ricorrono in altre sue opere precedenti).

Ferrarotti ci lascia con un monito. Dobbiamo contrastare un sistema che ci vuole sempre più costretti nella weberiana gabbia d’acciaio delle procedure, laddove anche il processo creativo tenta di essere definitivamente formattato dall’intelligenza artificiale, in una logica combinatoria e ricorsiva che ricorda «precedenti fallimenti illustri»: La Dissertatio de Arte Combinatoria Leibniz, scritta e pubblicata nel 1666 a Lipsia e l’Ars compendiosa inveniendi veritatem seu ars magna et maior di Raimondo Lullo del 1274. Lottando contro qualsiasi forma di pensiero che cerchi di circoscrivere la nostra capacità inventiva in una matrix prevedibile, il nostro Decano (per me ancora vivo) avverte che «la caratteristica fondante degli esseri umani è la loro imprevedibilità, qualità straordinaria, che li distingue radicalmente dai non umani e si manifesta nel pensare involontario, non necessariamente precondizionato da uno scopo prefissato… libero e anche, talvolta, del tutto gratuito».

Proseguiamo, allora, lungo il cammino della sua eredità. Torniamo a difendere il diritto alla nostra disinteressata e prolifica imprevedibilità! Addio, anzi no! Arrivederci.

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