Francesco Granito, la forza evocativa della pietra

Il lavoro di Francesco Granito riflette la sua personalità, intrisa sostanzialmente di quella stessa semplicità che non è intesa come una alternativa alla dimensione contemporanea della complessità né tantomeno come semplificazione del pensiero e dell’azione, ma come capacità di sottrarre il superfluo, eliminando tutto quello che non è utile alla trasmissione di un pensiero. Il pensiero è semplicemente consegnato all’interlocutore. «Ti lancio un pensiero», direbbe, parafrasando il titolo di una sua personale.

La semplicità, che anima il lavoro di Granito, si traduce nell’immediatezza del pensiero, senza alcuna sovracodificazione, utilizzando un linguaggio esplicito che mette a proprio agio l’interlocutore. Troppo spesso tuttavia, quello stesso interlocutore, quando non in sintonia con la dimensione più intima della semplicità, si ferma solo alla superficie (seppur straordinaria) della sua espressione tecnica, perdendo il senso più profondo del significato dell’opera.

La semplicità è certamente caratterizzata dalla trasparenza, ma per poterla cogliere ha bisogno di un grande esercizio di umiltà; una conquista progressiva (nel tempo e nello spazio) della liberazione da tutto quello che, troppo spesso, conforma il nostro agire per riflesso, influenzando sempre più le nostre relazioni e la nostra stessa esistenza.

La complessità, di contro, può essere raggiunta solo da chi vive la semplicità come filosofia di vita, come progressiva liberazione da tutto ciò che soffoca il pensiero.

La semplicità di Francesco Granito, è intesa come conquista progressiva, come sfida, da giocare nella quotidianità della propria vita e del proprio lavoro. La semplicità, infine, quella che ci rivela Alda Merini «[…] è mettersi nudi davanti agli altri […] perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora amore».


Non so quanto abbia influito nella mia poetica artistica il legame con i miei luoghi di origine. Molte cose agiscono a livello inconscio, talvolta non ce ne accorgiamo nemmeno, ma tutto quello che facciamo, tutto quello che siamo, è il frutto di un cordone ombelicale che ci unisce alla nostra terra di origine, alla nostra storia, al nostro passato.
Personalmente noto, come anche avendo vissuto solo fino all’età di quattordici anni ad Apricena, l’esperienza maturata in quegli anni sia stata fondamentale per la mia formazione culturale ed in particolare per la mia sensibilità artistica.
Volendo esemplificare, con il lavoro di questi ultimi anni, osservo come il rapporto dialettico tra peso e leggerezza viene fuori proprio dalla memoria delle mie origini, la pietra, un materiale che segna fortemente il nostro territorio e la fantasia positiva, soprattutto quella della adolescenza.
La pietra, da sempre, mi suscita una forza evocativa smisurata e, di contro, una sfida continua nel dominarla, smaterializzarla, nel ridurla alla leggerezza di un pensiero.


Non esiste un metodo per la trasmissione dell’amore, della passione per il proprio lavoro. Quando si vive intensamente qualcosa, la passione risulta spontanea. Nel mio lavoro di insegnante molti dicono che trasmetto passione, ma io non riesco a comprenderne la ragione, so soltanto che il mio impegno è interamente speso nella direzione di consegnare ai miei allievi gli strumenti per esprimere sé stessi, poiché ritengo che l’arte sia, come la parola, le immagini, la musica, una forma eletta di comunicazione. Sono certo, anzi, che l’arte vada anche oltre la parola stessa; la capacità di sovracodificare il messaggio per comunicare con maggiore forza un concetto.

In verità la committenza in generale è un limite, perché ti vincola, ti costringe sia nei contenuti che, talvolta, nell’estetica. Per diversi secoli, tuttavia, la committenza è stata il nutrimento fondamentale della produzione artistica, condizionando profondamente e soprattutto positivamente la storia dell’arte. Giotto, Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Caravaggio, sono gli esempi più alti per comprendere come la committenza possa avere i suoi lati favorevoli; per loro, anche in presenza delle convinzioni dei committenti, l’opera d’arte è riuscita comunque ad esprimersi ai livelli più elevati. Il problema rimane nel nostro contemporaneo, nel quale è difficile considerare il diverso rapporto tra richieste ed esiti; non esiste più la grande committenza ecclesiastica o aristocratica dei signori di corte, né tanto meno la borghesia eletta e colta della prima modernità.
L’artista contemporaneo ha perso i suoi punti di riferimento, vaga in solitudine, e sono ormai rare le occasioni in cui si è stimolati da richieste precise che, anche quando sono fortemente indirizzate, finiscono per fornire occasioni concrete di ricerca e sperimentazione.

Per me non esiste il momento creativo o l’ispirazione. Un’opera è il frutto di lunghe sedimentazioni, di strati che si accumulano nell’esperienza quotidiana. L’artista non è solo il filtro di accadimenti personali ma anche di quelli sociali più in generale, di situazioni vissute attraverso il contatto con tutto ciò che lo circonda ed esprime ciò che respira, che sente, che tocca con mano. È sufficiente guardarsi intorno per rendersi conto di vivere una dimensione molto più aspra e priva di contenuti condivisibili, nella quale l’accelerazione schizofrenica prodotta dal mercato e dal consumo ha ormai sostituito ogni forma di dignità umana, ogni esistenza capace di definirsi ancora tale.


Francesco Granito intreccia nel suo linguaggio leggerezza e fragilità, contrapposti alla pesantezza del materiale usato nelle sue sculture. La sua ricerca è improntata alla sottrazione di peso, focalizzata sull’ingrandimento delle forme e il superamento della materia.
Ha partecipato a diverse mostre collettive e personali tra le quali: Una nuovissima generazione alla Fortezza Medicea di Siena, a cura di Enrico Crispolti (1985); la XI Quadriennale d’Arte di Roma (1986); L’origine e il fine al Centro Luigi Di Sarro a Roma (2002); Eclettica al Castello di Carovigno, a cura di Antonella Marino (2010); Tra carte alla Fondazione Banca del Monte di Foggia, a cura di Loredana Rea (2011); 54° Biennale di Venezia al Salone Nervi in Palazzo delle Esposizioni di Torino, a cura di Vittorio Sgarbi (2011). Tra le personali più recenti, invece, si ricordano: Ti lancio un pensiero al Castello di Barletta (2003); Paesaggi e nature morte alla Galleria Bluorg di Bari (2007); Equilibrio Squilibrio al Parkers Hotel di Napoli (2016) ed alla Domus Milella di Bari curata da Carmelo Cipriani. Ha realizzato opere monumentali per enti pubblici e privati.



La scultura che accompagna l’articolo s’intitola: Scultura di vento. 2012/2013, pietra di Apricena e legno, h 350x120x70 cm. Lesina, lago

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