Franco Cassano e Il pensiero meridiano

Il paradosso è che di Sud, di Mezzogiorno, ne Il pensiero meridiano si parla poco o punto.

Se ne parla un po’ nell’introduzione, rilanciata nelle tre righe della quarta di copertina, ma nulla di più. Eppure, il libro è passato alla storia come il nuovo testamento sulla questione meridionale, il punto di svolta nel paludato dibattito sull’immarcescibile ritardo del Mezzogiorno. Se da un lato questa torsione impropria ha fatto da lievito immaginario e da pistone motivazionale per tutta una costellazione di soggetti e di processi più o meno virtuosi di rinascimento civile, sociale, politico e persino economico a Sud, dall’altro ne ha circoscritto pesantemente la portata intellettuale e la fortuna critica. Le due cose non sono indipendenti l’una dall’altra, poiché il sostanziale fallimento delle «promesse meridiane», sulla cui base si sono sviluppati quei processi, dipende in larga parte dalla vera e propria mutilazione che il saggio ha silenziosamente subito sul piano intellettuale. Più precisamente, dipende dal debole lavoro interpretativo sui contenuti del testo e, in secondo luogo, dalla sua mancata declinazione in termini istituzionali e politici, necessaria a mondanizzare la potenza visionaria del pensiero meridiano.

Ma di che parla il libro di Franco Cassano?

Non tragga in inganno la solennità del titolo: della fondazione di un pensiero organico, una nuova metafisica d’occasione ad uso degli orfani del dover esser, non v’è traccia. Attraverso i sei saggi componenti l’opera, l’autore, scegliendo angoli visuali differenti e molteplici, va piuttosto a tratteggiare uno stile, un modo di stare al mondo. Uno stile meridiano, appunto. Intento vieppiù flagrante negli ultimi due, laddove Cassano abborda la questione isolando in rilievo lo stile di due figure intellettuali capitali del nostro dopoguerra: Camus e Pasolini.

Il focus non è il Mediterraneo, né il Sud o i Sud. Il focus è l’Occidente. In questo senso, il libro s’innesta dentro una lunga e nobile tradizione di critica auto-riflessiva sulla civiltà occidentale, il cui esempio paradigmatico resta quello della Scuola di Francoforte. Stare dentro la traiettoria emancipatoria della modernità e al contempo evidenziarne tutte le poste negative, i mondi che ci perdiamo in nome del progresso dell’umanità.  Una «critica della ragione per mezzo della ragione», qual era il programma di Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo. È qui che si colloca, e a pieno titolo, il pensiero meridiano. Oltre la modernità. Dopo averla attraversata tutta e vissuta fino dentro il midollo. Abbiamo citato esemplarmente i francofortesi, ma potremmo citare decine di altri autori che gravitano sullo stesso terreno.

Qual è la differenza cassaniana, il suo apporto innovativo rispetto al filone in parola?

Cassano esercita questo doppio sguardo posizionandosi al margine invece che al centro del sistema. Questo gli consente due cose: 1) di vederci meglio, ossia di comprendere più pienamente la cifra del modello occidentale; 2) di elaborare una possibile via d’uscita.

Sui lembi estremi di un impero, se ne scorge meglio la cifra. In questo senso, il Sud non è l’Altro della modernità o, peggio, il suo «non ancora», bensì la cartina di tornasole che ci consente di decodificare la logica profonda del regime d’Occidente. Il Sud è pienamente moderno e si è adattato come ha potuto alla furia del mutamento che ne ha invaso gli anfratti, «l’integralismo della corsa». Dalla periferia vediamo l’intero e non soltanto il centro della scena. Le zone illuminate e quelle in ombra, i punti alti e i recessi inconfessabili. I successi del sistema e i suoi fallimenti. È questo che normalmente manca a chi fa critica stando al centro. Una civiltà la vedi dai bordi: dalle prigioni, dai rifiuti abbandonati, dai perdenti che semina ai lati delle sue Main street.

La camera a Sud – e questo è il secondo punto – consente poi di intravedere un altro orizzonte, evitando di crogiolarsi in quella forma di resa senza condizioni tipica proprio dei francofortesi, ma che si è poi consolidata definitivamente a partire dagli anni settanta con quelli che Di Liberto chiama i filosofi del ritiro (Deleuze, Foucault, Agamben ecc.). Adorno e Horkheimer auto-certificano l’inconcludenza della loro riflessione in quanto «critica senza soggetto», vale a dire inidonea a incarnarsi in persone e luoghi interessati a condurla nell’arena storico-politica. Un mero messaggio nella bottiglia, che chissà quando e chissà dove magari qualcuno raccoglierà.

È qui che, invece, interviene il Mediterraneo. Della civiltà europea ha visto la nascita ma oggi si vede relegato allo stato di periferia di un Occidente sempre più affaccendato a rincorrere se stesso. La configurazione fisico-geografica del Mediterraneo (ed in particolare dell’Egeo, che, fin dall’etimo, ne riproduce in scala ridotta le caratteristiche) allude già in sé alla possibilità meridiana. Questo luogo ospita una peculiare complicità tra terra e mare. Per i popoli che vi si affacciano il mare è una presenza costante, così come costante è la consapevolezza che appena al di là di esso non c’è altro mare, altro vuoto, ma nuova terra, quindi altri popoli, culture, modi di essere differenti.

La terra diventa per Cassano una metafora del radicamento, il riconoscimento di un’origine simbolica; il mare, all’opposto, una metafora dell’emancipazione, della libertà, dell’oltrepassamento di sé, dell’apertura all’altro e quindi del progresso. Ciascun elemento è a rischio di dismisura. Se la terra non sentisse la presenza del mare, conoscerebbe probabilmente la chiusura identitaria e il rifiuto dell’altro: ospiterebbe di lì a poco regimi dispotici, tirannie sanguinarie (quelle, non a caso, conosciute nelle steppe asiatiche, non lambite da brezze marine). Scegliere definitivamente il mare, tuttavia, significherebbe incontrare prima o dopo la forma opposta di dismisura: il vuoto dell’oceano, dove non si danno più referenti di senso, dove tutte le differenze sono appiattite e ridotte ad astrazione universalistica. Uno spazio che si apre a quella nuova forma di tirannia che è il dominio della tecnica (la via senza ritorno imboccata dall’Occidente).

Le due dismisure sono assolutamente speculari: le si ritrova nelle biografie – non solo intellettuali – di Nietzsche e Heidegger. Il primo che spinge la sua avventura emancipatoria fino a perdersi nel deserto e quindi nella follia, il secondo che, in opposizione a questo atteggiamento, sceglie di farsi contadino, di tornare alla chiusura identitaria della Foresta nera, all’ottusità della terra. E le ritroviamo ancora oggi contrapposte drammaticamente, laddove si assuma tutta la consapevolezza, come Cassano ci aiuta a fare in uno dei saggi più incisivi, che l’avvento deleterio degli integralismi religiosi, nazionalistici e via cosi, non è affatto estraneo, anzi, è molto probabilmente una risposta, all’integralismo occidentale della corsa al più alto PIL, alla rottura d’ogni vincolo e legame comunitario, il quale lascia lungo il suo percorso una folla sempre più vasta di perdenti e che, soprattutto, annulla ogni punto di vista alternativo.

Il Mediterraneo, in questo quadro, emerge come luogo della misura: da un lato, il radicamento identitario è mitigato dalla presenza del mare, quindi dall’offerta costante di una chance di emancipazione, dalla presenza di altri mondi oltre quella barriera fluida e penetrabile; dall’altro, l’avventura emancipatoria non è votata a far tabula rasa di ogni referente, poiché si andrà incontro ad altre terre, ad altri significati mai completamente traducibili in codici uniformizzanti.

L’incontro, nel Mediterraneo, non si dimidia in confronti dialettici risolvibili illusoriamente dentro sintesi unitarie (come l’universalismo liberale pretenderebbe): l’alterità non aspira ad essere ridotta e sanata; resta tale anche dopo l’incontro. E soprattutto vi è sempre la possibilità di riprendere la strada del ritorno a casa, alla propria radice, che immersa in questa pluralità di mondi cambia di statuto passando dalla necessità ascritta alla possibilità eletta. È proprio il valore del ritorno che Cassano enfatizza nell’epopea di Ulisse, della quale il Mediterraneo è teatro: la grandezza dell’eroe omerico sta nella scelta del Nostos, nella decisione di ritrovare Itaca dopo le sue esaltanti peregrinazioni a caccia di virtute e canoscenza. Solo la consapevolezza di un’origine, di una radice, può dar senso al desiderio di libertà, tenere alto il gusto del viaggio, dell’incontro con l’altro.

I percorsi intellettuali di Camus e Pasolini, seppure marcatamente differenti, hanno in comune questo doppio movimento, proprio dello stile meridiano: entrambi campioni di libertà, hanno puntualmente demistificato l’ordine istituito, si sono sempre posti in aperta contraddizione rispetto alla morale corrente. Ma quando questa istanza emancipatoria è stata eretta a sua volta a pratica istituzionale, a senso comune, facendo strage di ogni riferimento normativo, essi non hanno esitato a suonare il campanello d’allarme. Hanno sfidato ancora una volta la corrente, opponendovi valori inattuali come il senso dell’onore, il sacro, i beni pubblici, le imprese collettive, la necessità del trascendente, della tradizione e, paradossalmente, delle stesse istituzioni.

È evidente, dunque, che il lavoro di Cassano ha valore universale: egli parla della faticosa e insidiosa costruzione della libertà. Una libertà che non viaggia a senso unico (quando lo fa, diventa deleteria), ma che per restare viva ha bisogno di curvarsi e, a tempo debito, di fare persino marcia indietro. La libertà dell’uomo, non del meridionale. Da questo punto di vista, lo slogan che ha marchiato e continua a marchiare il marketing del pensiero meridiano («occorre restituire al sud l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato solo da altri»), sebbene potente ed evocativo, ne costituisce una straordinaria riduzione.

Se da un lato la proposta cassaniana supera l’impotenza francofortese, dall’altro marca però anche la sua distanza dalla via d’uscita postmoderna (questa «grande narrazione che parla della fine delle grandi narrazioni»), laddove si immagina il mondo come un succulento ipermercato dove ciascuno può acquistare il proprio modus vivendi, lo stile, la cucina preferita, in un quadro di totale «reversibilità del senso» (cfr. Magatti). Cassano, invece, mette costantemente a tema il differenziale di forza che segna il rapporto tra culture differenti e le incrostazioni gerarchiche che lo caratterizzano.

Quale bilancio è possibile tracciare a venticinque anni dall’uscita del libro?

Ebbene, Franco Cassano ha evocato un orizzonte possibile. Ha tracciato un’idea di bene e di giustizia. Ha fatto il suo. Quello che un intellettuale, nel suo senso più autentico e pieno, ha da fare: leggere la realtà e partorire visioni. Il pensiero meridiano avrebbe richiesto l’esistenza di corpi collettivi strutturati (nel mondo della ricerca, della cultura, della politica) in grado di leggerlo in profondità, ri-articolarlo, declinarlo in progetto politico, azioni, forme di regolazione istituzionale che fossero alla sua altezza e che permettessero di realizzare l’idea di bene in esso contenuto. Sappiamo, però, che questi sono ovunque evaporati. «Al pensiero meridiano manca la forza», ha scritto tempo fa Pasquale Serra (uno dei silenziosi allievi di Franco Cassano). Se esso cioè non viene preso in carico politicamente e fatto scendere nell’arena della lotta per l’egemonia, diventa solo un prontuario etico ad uso delle anime belle.

Se guardiamo da vicino, il pensiero meridiano ha sicuramente generato una stagione politico-civile esaltante a Sud e, soprattutto, in Puglia (maledetta «primavera»). Ma come spesso capita alle fedi religiose, esso è stato imbracciato non per realizzare le istanze di cui era portatore ma per carburare sul piano motivazionale altri progetti, altre traiettorie. L’orgoglio meridionale che esso ci ha restituito non è stato adoperato per mettere in discussione il regime sviluppista occidentale, bensì per «recuperare il ritardo» rispetto al Nord. Per diventare a tutti gli effetti «europei» (di più, nord-euorpei). Per millantare smart city e start-up. Per prendere posto nei mainstream letterari, musicali, cinematografici, turistici. Per essere finalmente moderni ed efficienti, facendo della lentezza e della bellezza meri articoli di marketing territoriale.

Se guardiamo a medio raggio, il Mediterraneo è tornato ad essere pienamente il bacino di scolo della crisi economica, della disperazione migrante, dei conflitti endemici, degli stati falliti e dei nuovi autoritarismi.

Se guardiamo a lungo raggio, il capitalismo surreale continua indefesso ad ogni latitudine la sua marcia trionfale, incurante delle crisi economiche e sanitarie che lo affliggono, digitalizzando la predazione e spalmandosi addosso vernice verde. A sfregio.

Franco Cassano ci ha lasciato. Ma il pensiero meridiano è ancora lì. Urgente più che mai.


La foto che accompagna l’articolo è di Claudio Bazzocchi

Related posts

Le radici non si estirpano

L’Italia e il delitto Moro: una storia pubblica e privata

La scoperta di Pavese negli anni dell’utopia