Durante la traduzione della raccolta di poesie L’ultimo pranzo di Miodrag Pavlović, gli dissi che nell’introduzione avrei citato l’Ode alla nazione serba. Il grande poeta serbo, onorato di poter essere, finalmente, letto anche nella lingua di Dante, annuiì aggiungendo che non piacerà a nessuno perché D’Annunzio era tutto sommato poco studiato per ragioni ben note.
Gli spiegai che il primo dei motivi riguardava le sue poesie e in modo particolare Il Popolo del grande urlo che, a traduzione completata, era di un patriottismo ancestrale, un inno al Medioevo e al potente Stato serbo.
Un altro motivo si riferiva alla mia recensione del libro di Renzo De Felice, D’Annunzio politico (1918-1938) rimasto non pubblicato, scritto in tempi non sospetti, prima della disgregazione della Jugoslavia.
In una gentile lettera il direttore della rivista mi comunicava, con rammarico e imbarazzo, il motivo della mancata publicazione del saggio: «D’Annunzio è un tema spinoso e deve essere trattato con un forte senso critico, mantenendo una dovuta distanza e riserva. L’approccio scelto da lei, invece, apre tante domande oscure e delicate per le quali non si ha una risposta adeguata. Tutto questo, però, in nessun modo doveva impedirmi di mandare, come al solito, altri contributi che ritenessi interessanti sull’attualità della cultura italiana».
Contributi che io, puntualmente, continuai a scrivere e pubblicare senza alcun turbamento.
Avevo capito che c’era qualcosa che riguardava i corsi e i ricorsi storici e che, a volte i contrattempi non sono inutili e portano risposte a tempo debito.
Riguardo al libro di De Felice, tra i massimi studiosi del fascismo, mi domandavo se mi fossi davvero attenuta a riportare i punti salienti del testo che, a sua volta, riportava le tesi di altri storici che sostenevano la stessa tesi e cioè che D’Annunzio «fascista non lo fu mai».
A conferma dello studio documentato e approfondito, De Felice riporta la lettera del 9 gennaio 1923 in cui D’Annunzio scrive a Mussolini che qualcosa che è «fondamentale per il fascismo resta del tutto fuori dalla sua vita interiore, qualcosa che egli stesso non era riuscito ad accettare né moralmente né culturalmente».
È questo l’antefatto che spiega l’incipit dell’introduzione al libro L’ultimo pranzo e questa è la forma scelta per contestualizzare lettura e studio del poema dannunziano: «Parlare oggi delle poesie di Miodrag Pavlović significa riproporre, in chiave poetica, la storia del Medioevo serbo. Va subito ricordato che grande merito, per aver descritto quell’unità politica e letteraria della “serbica gente”, va a Gabriele D’Annunzio e alla sua Ode alla nazione serba. Nei quattrocentoventi versi, i nomi e le gesta degli eroi serbi sono documentati ed elaborati con stupefacente erudizione e intensa partecipazione emotiva: “Tieni duro, Serbo! / Se pane non hai, odio mangia /se vino non hai, odio bevi; / se odio sol hai, va sicuro.”».
È ben noto che D’Annunzio, sommerso dai debiti, era in «esilio volontario» in Francia dal 1910 al 1915 e che, appena giunto in Italia, annota sul diario di sentire «un tremendo taedium vitae e di avere sotto mano i canti epici serbi».
Su commissione del direttore Luigi Albertini del Corriere della sera, all’inizio di novembre, comincia a scrivere il poema che consegna il 16 e che sarà pubblicato il 24 novembre del 1915.
Il poema dall’enfasi vibrante, è un crescendo sia nel contenuto che nella lingua: «O Serbia di Stefano sire, / o regno di Lazaro santo, / cuore dei nove figliuoli / di Giugo, di Miliza pianto, / lo sai: hanno ricrocifisso / il Cristo dell’imperatore / Dusciano ad ogni albero ignudo».
A parte la notazione dell’arcaicità dei nomi nella trascrizione, risalente ai tempi di Nicolò Tommaseo, traduttore dei canti epici serbi nel 1842, il testo è di forte impatto, una proiezione della storia serba. Sembra parli la voce di un patriota che evoca la gloriosa storia dello stato primigenio, di Raška medievale, della dinastia dei Nemanjidi, considerato «il più potente stato balcanico e uno dei maggiori dell’Europa intera».
D’Annunzio entra nella storia serba e celebra Stefan Nemanja, il fondatore della dinastia, il re Dušan, il più grande della stirpe che nel 1349 scrisse il Codice di Dušan che «viene considerato un monumento giuridico tra i più importanti, non soltanto per l’area slavomeridionale, ma altresì per l’Europa medievale». E poi, l’ultimo re Lazar che fronteggia sulla piana del Kosovo il sultano Murat I, il 15 giugno 1389, data indelebile per i Balcani – che saranno conquistati dagli ottomani che vi rimasero per quasi cinque secoli -, facendo da baluardo alle altre conquiste europee.
I serbi furono segnati dalla sconfitta, i turchi dalla morte di Murat.
Nel corso dei secoli quella sconfitta è diventata l’indecifrabile prodigio come fine per risorgere.
In D’Annunzio la descrizione storica risulta essere puntuale e dettagliata e il contenuto epico si lega al misticismo ortodosso nella forma di quell’estetismo compiuto che modernizzò la lingua italiana, riconosciuta tale da critici e scrittori, tra i quali Alberto Moravia.
Colpisce la sublimazione del mondo condiviso e non di meno sorprende la capacità del poeta di coglierlo appieno, soprattutto tenendo presente le sue esperienze successive.
A favore della conoscenza storica e dell’empatia poetica di D’Annunzio verso il popolo serbo, accreditata dallo stesso poeta già dal 1882, è nota la leggenda sulla sua nascita che lo vuole a bordo del brigantino Irene «che faceva spola tra Fiume e Pescara nelle acque dell’Adriatico».
C’è da aggiungere che l’eco dell’Ode ebbe un forte impatto e la collaborazione con la firma di D’Annunzio aumentò la tiratura del Corriere della sera che raggiungerà le 700.000 copie, e il suo compenso fu di 3000 Lire.
Dall’altra parte dell’Adriatico, il mondo politico in guerra era diviso tra due fronti, quello russo e quello austroungarico e, quanto alla cultura, essa godeva di un periodo particolarmente favorevole.
Lo conferma, in effetti, la ricezione dell’Ode che fu immediata. All’isola di Korfù si stampava Il giornale serbo (Srpske novine) dove, il 7 aprile 1916, veniva pubblicata la traduzione serba del poema dal titolo Oda srpskom narodu.
Il traduttore è il giovane poeta e soldato austroungarico Milutin Bojić (1892-1917), aiutato nella traduzione da un soldato serbo rimasto sconosciuto e con i commenti al poema scritti da Tommaseo.
Il poeta traduttore Milutin Bojić muore di tebuercolosi a soli ventisei anni a Salonicco. Tra le diverse traduzioni fatte in seguito, quella di Bojić è rimasta a tutt’oggi la più citata.
Fu la risposta e il ringraziamento di tutto il popolo serbo nonché la riconoscenza per l’irripetibile narrazione della storia serba in versi, fatta da uno scrittore straniero.
A nessuno era riuscito tanto, non prima e non dopo.
In quegli anni alleggiava un comune sentire che bisognasse affermare il presente per poter descrivere il passato e concepire il futuro. Nascono le poetiche del Novecento che si oppongono alla guerra «uomo a uomo», motivo per cui la Prima guerra mondiale è considerata tra le più cruente e accade che la lingua si prende la rivincita sul resto dell’esistenza.
D’Annunzio ha riversato nell’Ode tutta la sua poetica, come in un respiro e come fosse un segno ricevuto per ispirazione. I versi si snodano in una specie di tensione continua che arriva ad una descrizione cruda e reale: «Il capo del Santo di Serbia, / il teschi di Lazaro splende / non nella Sinica sola / ma in ogni fiumana».
Dalla lettura dei versi sembra che il poeta abbia vissuto l’esperienza del mondo balcanico e che l’abbia «imparato».
Ma non è durevole la piena poetica dannunziana e nemmeno la fascinazione verso il poeta lo fu; viene offuscata il 12 settembre 1919 dall’«impresa di Fiume» e durerà per decenni, anche se la sua fama non è mai stata dimenticata.
Secondo De Felice, nonostante la forma di esplicazione ed esposizione dimostrativa «D’Annunzio non è stato né a Fiume né mai, un vero politico, perché gli mancavano sensibilità e capacità politiche quasi del tutto, e la sua politica o non era proprio sua personale oppure, spesso, era frutto del suo stato d’animo e di reazioni morali». Non è stato mai membro del P.N.F (Partito Nazionale Fascista), né mai gli è stata offerta l’iscrizione ad honorem.
C’è una sola risposta alla domanda dove poter collocare D’Annunzio, ed è quella della poesia, anche per i versi dedicatari alla nazione serba. Un modello culturale del canto popolare serbo che era arrivato alle sue mani con la conoscenza degli usi, riti e tradizioni della Serbia dal passato eroico che ha stimolato la sua immaginazione, e ha sorpreso anche il più severo dei lettori.
Il riconoscere quel luogo come spazio culturale sottintende una contestualizzazione rappresentativa oltre che della Serbia e dei Balcani, anche dell’Europa, raccontata «a nuovo» ed ha una valenza storico-letteraria ancora tutta da scoprire.
Come a voler significare che quella terra delle province romane all’interno della Serbia ha dato i natali al maggior numero di imperatori romani fuori la patria, pare siano più di sedici, tra cui: Marco Aurelio Probo, Costantino il Grande, Traiano Decio, Claudio II, Aureliano, Licinio, Costanzo II, Vetranione.
Ne parliamo ancora oggi perché quel regno perduto per D’Annunzio è «santa Serbia» in cui la mitologia include l’eroe e il santo, come anche testimoniano i celebri versi di Victor Hugo che D’Annunzio potrebbe aver letto durante il suo soggiorno parigino: «Uccidono un popolo. / Dove? / In Europa. / Ci sono testimoni? / Il mondo intero».
D’Annunzio con il poema Ode alla nazione serba s’impossessa della storia serba e penetra il misticismo slavo-ortodosso dove il principe Lazar è l’emblema di quell’unico impenetrabile esempio di «eroismo senza gloria e martirio senza compenso».
Gabriele D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, Mondadori, 1964
Renzo De Felice, D’Annunzio politico (1918-1938), Luni Editore, 1978
Miodrag Pavlović, L’ultimo pranzo, a cura di Stevka Šmitran, Le Lettere, 2004
Bruno Meriggi, Le letterature della Jugoslavia, Sansoni-Accademia, 1970