Garrincha, poeta epico ed eroe tragico

Sono ancora qui, in questo autunno che pare una menzogna primaverile, a pensare a Mané Garrincha, l’angelo dalle gambe storte, l’ala destra, nata con la poliomielite, diventata stella di prima grandezza del Brasile e del Botafogo, campione del mondo in Svezia nel 1958 e in Cile nel 1962, eroe epico, poetico e tragico.

Il calciatore più cantato da poeti, scrittori e musicisti. Edilberto Coutinho scrisse: «Perché il calcio come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo. I dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di Garrincha è un momento eterno. Non lo dimentica nessuno». E Vinicius de Moraes: «La rivoluzione sociale in marcia si ferma meravigliata a vedere il signor Mané palleggiare e poi prosegue il cammino». E l’indimenticabile Gianni Minà, mio direttore a Tuttosport: «Garrincha era un calciatore, mi si passi le parole, che soddisfaceva i sensi e i cuori».

Mané oggi, 28 ottobre, avrebbe compiuto 90 anni, morì cinquantenne confortato da generosi infermieri, dall’amore di Elza Soares, regina della bossa nova, e dai suoi fantasmi, dalle sue nostalgie, dalla sua inconsapevolezza. La sua fu una vita ricca di una gloria non goduta: non amava le luci della ribalta, gli ori e gli eccessi, adorava ritornare, già carico di fama, nella sua Pau Grande, ai margini della foresta, per giocare a piedi scalzi, su quei campi di polvere e speranza, con i suoi compagni d’infanzia per poi recarsi tra i fiumi e gli alberi ad ascoltare il canto dei passerotti, che lui sapeva interpretare. Perché Garrincha è un uccellino piccolo e magnifico dell’Amazzonia. E da poco è anche il nome di una casa editrice nata dalla sconfinata passione per il football e la letteratura di due intellettuali come Rosario Esposito La Rossa e Giovanni Salomone.

Mané è passato dalla cronaca al mito, un campione senza tempo e senza età, simbolo eterno del riscatto dei poveri, degli umili, degli emarginati e degli invisibili. Fu amato dai poveri più di Pelé, l’asso diventato ricco e immenso e perfetto, che mai si è perduto, come Garrincha, nei labirinti della disperazione, dell’illusione, della tenerezza. Giocava con il numero 7, il numero dei fantasisti, vedi Gigi Meroni e George Beat, possedeva una finta sola, portata dalla gamba sghemba, quella colpita dalla malattia: a quella finta, ogni volta, spiazzava qualsiasi avversario. Dopo la Coppa del Mondo del ’58, racconta la leggenda, che a volte possiede più sangue vivo della realtà, rifiutò, come premio per il favoloso successo, una villa a Copacabana. Al governatore di Rio de Janeiro, chiese soltanto di liberare un uccellino in gabbia. Solo questo.

Giocò anche nella periferia di Roma, nel 1970, accompagnando Elza nei suoi concerti. E anche, su quei prati, tra gente stupita e incredula, mostrò il suo talento. Questa vicenda è narrata in un libro imperdibile di Jvan Sica, arpiniano «bracconiere di tipi e personaggi»: Garincia, edizioni inCONTROPIEDE.

Manè debuttò nella Seleção il 18 settembre 1955 contro il Cile. Lui esordiva in nazionale a Rio de Janeiro e io nascevo a San Paolo, figlio nipote e pronipote di emigranti veneti. Ed è anche per questo che, da sempre, lo considero un mio fratello gemello.

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