La guerra di Gaza sembra aprire un nuovo scenario: in passato arabi ed ebrei erano uniti e coesi contro l’avversario e così i loro alleati. Oggi dominano le divisioni all’interno dei due fronti di guerra. La frammentazione sembra essere lo sfondo anche del mondo contemporaneo, che non è più bipolare, non sembra multipolare, ma appare liquido secondo la definizione di Bauman. Al centro sembra collocarsi il confronto serrato tra le democrazie e le autarchie. L’equilibrio dell’ordine mondiale si è spezzato, è stato sostituito da una rete di equilibri provvisori e instabili. Questa frammentazione espone il mondo a rischi sempre meno prevedibili. Inoltre, la frattura tra valori e disvalori lega la guerra di Gaza e la guerra in Ucraina. L’incertezza offre però anche possibilità inedite di soluzione. Il dato nuovo indica che le divisioni interne al quadro internazionale e ai due belligeranti potrebbero influenzare le sorti della guerra. La contesa forse si deciderà sul governo della frammentazione.
Il confronto democrazie-autarchie e il ritorno della guerra come soluzione
Dopo l’Ucraina e ora con Gaza, la guerra torna protagonista della storia. Per decenni si è pensato che le relazioni internazionali, le sue istituzioni, la globalizzazione avrebbero contenuto il rischio di risolvere i contrasti con il confronto armato. La guerra è considerata illecita dal diritto internazionale, ma oggi segna nuovamente confini, ristruttura rapporti di forza, delinea un diverso ordine mondiale. La lotta armata tra gruppi, etnie, nazioni sembra dettare legge. Papa Francesco ha avvertito del pericolo di una guerra mondiale a pezzi. Inoltre, la guerra odierna assume una fisionomia in parte diversa non tanto a causa della potenza raggiunta dalla tecnologia. In passato si distingueva tra la guerra assoluta, che mira alla distruzione dell’avversario, che Raymond Arnon definiva la «guerra reale», e la guerra limitata che è un mezzo in funzione di un fine. La guerra moderna sembra un ibrido: lo scontro cruento tra Hamas e Israele e quello in Ucraina ha i caratteri di una guerra sia assoluta sia limitata. La frammentazione dell’ordine globale, le divisioni tra le superpotenze e le spaccature al loro interno determinano il declino del diritto come soluzione dei conflitti. L’assenza di un equilibrio globale paralizza le istituzioni come l’ONU, evidenzia le difficoltà del diritto internazionale come arena di composizione delle controversie e restituisce alla guerra il monopolio della produzione di un cambiamento. Un segno dell’emergenza è il viaggio di Biden a Tel Aviv: il presidente degli Stati Uniti non si reca mai in un teatro di guerra, Biden si è precipitato in Israele per arginare la possibile escalation e per rilanciare l’interpretazione del conflitto all’interno della competizione tra le democrazie e gli stati autoritari.
Il disordine globale e la nuova centralità dell’ideologia
La perdita di unità del mondo, lo sciogliersi di un collante, sembrano far emergere nel disordine una pluralità di interessi, fondamentalismi religiosi, identità nazionali ed etniche. Soprattutto restituisce alla ideologia una centralità inattesa. Per ideologia dobbiamo intendere, come spiega il professore Carlo Galli nel suo recente libro Ideologia, un sapere di parte, che esprime una critica dell’esistente e insieme contiene un progetto di nuovo ordine, di nuova umanità. Questa certezza e la sua promessa muovono passioni, conducono gli individui verso una mobilitazione conflittuale.
L’ideologia, quindi, non esprime solo un sapere. Manifesta una potenza politica. Dice Galli: è «un discorso per il potere politico». In effetti l’Islam e in particolare l’Iran, il regime più radicale di quell’area, vede Israele come nemico pericoloso per due ragioni che superano la fede o gli interessi: sono l’alleanza con gli Stati Uniti e il progetto sionista di creazione di un «grande Stato di Israele» già cominciato ai danni della popolazione palestinese. Lo stato ebraico è visto sia come base del colonialismo occidentale sia come pilastro dell’imperialismo americano in Medio Oriente. L’antisemitismo sembra avere un’origine ideologica, che non tiene conto delle tragedie sofferte dagli israeliani, dall’Olocausto alla diaspora alle guerre di aggressione, ad opera di alcuni paesi arabi. Distruggere Israele per loro è una missione rivoluzionaria, considerata – come vuole l’ideologia – un dovere morale oltre che politico. Per Hamas, del resto, lo stato ebraico è uno stato di colonizzatori e conquistatori, che ha occupato la loro terra.
Sul fronte opposto, la maggioranza di Netanyahu, che governa da 8 anni il Paese, sembra avere avviato una costruzione identitaria e politica che si ricollega al sionismo. Non il sionismo delle origini, che aveva una natura democratica, liberale, in parte vicina al socialismo e alla cultura del kibbutz, che non vedeva come un problema la presenza della popolazione palestinese. Negli ultimi anni, dietro l’affermazione dell’autodeterminazione dello Stato di Israele, della sua autonomia, del suo diritto ad esistere, il sionismo si è collegato al nazionalismo moderno, escludente, di destra, che vive gli Stati arabi confinanti come un assedio permanente. Il sionismo non è solo un sentimento di appartenenza, anch’esso si è trasformato in una ideologia che enfatizza l’identità religioso-culturale ebraica, la sua potenza e sicurezza. L’ideologia, qualunque essa sia, segue la logica dei mezzi giustificati dal fine. E il mezzo è la guerra.
La guerra come continuazione della politica: Hamas e il bellum justum
Il nuovo libro del professore Mastropaolo, Fare la guerra con altri mezzi, ci segnala che il generale prussiano von Clausewitz spiegava la guerra come «la prosecuzione della politica con altri mezzi». Il professore Mastropaolo osserva che i regimi democratici hanno di fatto rovesciato questa definizione: la democrazia si può interpretare come una tecnica per governare il pluralismo sociale, per addomesticare la lotta per il monopolio del potere e risolvere le controversie delle élite che aspirano al dominio. Il filosofo Foucault, in Dits et écrits, aveva osservato che la decisione di non spargere più il sangue dei perdenti aveva trasformato la politica nella continuazione della guerra con altri mezzi. Norberto Bobbio ha autorevolmente elaborato questa interpretazione. Ma questo salto evolutivo, come lo definisce Mastropaolo, riguardò l’Occidente. Hamas ora ha compiuto una drammatica involuzione: la guerra torna ad essere la prosecuzione della politica con altri mezzi. E lo stesso sembra aver fatto la Russia in Ucraina. Del resto, il confronto tra democrazie e autarchie innanzi tutto sembra ideologico.
Von Clausewitz sosteneva, infatti, che la guerra è «un atto politico, un vero strumento della politica». Qual è la ragione politica di Hamas? Impedire che tra Israele e alcuni stati arabi, in particolare l’Arabia Saudita, luogo in cui è nato l’Islam, si concluda un accordo che stabilisca relazioni tra gli ex-avversari. La ragione sarebbe colpire il processo di normalizzazione. La seconda ragione politica di Hamas è ricollocare al centro del mondo mussulmano la questione palestinese, che da tempo sembrava non essere più in agenda. Ad alzare la tensione ha contribuito il giro di vite israeliano attorno alla moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, le misure adottate per rendere più severe le detenzioni dei palestinesi, l’occupazione dei territori da parte dei coloni, la violenza crescente in Cisgiordania. Tuttavia, la giustificazione centrale di Hamas resta scongiurare gli «accordi di Abramo»: Israele appariva sul punto di essere accettato dal mondo arabo, tanto che l’intesa prevede l’avvio di scambi economici e tecnologici. La mossa di Hamas di scatenare una guerra brutale, uccidendo e torturando civili, bambini, donne e anziani, sembra motivata non solo dall’odio per l’antico nemico, ma dalla decisione di sabotare a tutti i costi l’opera di pacificazione. Ricorrere alla barbarie, usare gli ostaggi, ripararsi dietro la popolazione palestinese come se fosse uno scudo umano, trasformare Gaza in una prigione, per Hamas è il mezzo per ottenere il risultato di suscitare una violenza capace di travolgere Israele.
Sembra quasi che Hamas abbia appreso la lezione di Hegel: la guerra come un «giudizio di Dio» del quale la provvidenza della Storia si avvale per far trionfare l’incarnazione migliore dello Spirito del mondo. Per il filosofo nel piano provvidenziale della Storia, un popolo succede a un altro per manifestare lo Spirito del mondo, dominando in nome di questa superiorità altri popoli. «Una forza esterna – dice Hegel – con violenza spossessa il popolo dal dominio e fa sì che cessi di essere il primo». Per Hamas la «forza esterna» è la guerra che diventa necessaria e pertanto «giusta». Ritorna il principio medievale del bellum justum le cui condizioni vennero teorizzate da San Tommaso d’Aquino: la guerra deve essere dichiarata dall’autorità legittima, deve sussistere una «giusta causa», chi conduce la guerra deve avere una retta intenzione. A queste si aggiunse una quarta causa: la necessità appunto, vale a dire l’impossibilità di farsi giustizia con altri mezzi.
Ma la barbarie con cui ha mosso l’attacco rende impossibile per Hamas rivendicare il bellum justum, principio difficile di per sé da giustificare con il diritto internazionale. L’obiettivo non si limitava al nemico ebraico, ma coinvolgeva il mondo arabo che si preparava alla normalizzazione con Israele. La guerra ideologica, quindi, è lo strumento di mobilitazione delle opinioni pubbliche arabe sensibili alla sorte dei palestinesi contro i loro governi. Lo scopo sembra in parte raggiunto: in Arabia Saudita, in Egitto, negli Emirati, l’opinione pubblica oggi sembra più propensa a solidarizzare con i palestinesi, soprattutto dopo la strage dell’ospedale di Gaza, la cui responsabilità è da chiarire (potrebbe essere stato un missile mal funzionante di Hamas). Di fronte a questo clima di allarme, gli accordi di Abramo non possono che subire un rinvio. Ma il problema è che la frammentazione si acuisce, modifica il corso degli eventi: si rischia una divaricazione tra opinione pubblica araba e i loro governi disponibili all’intesa con Israele. E non è detto che lo scontro non si trasferisca all’interno di quegli stati.
La politica come continuazione della guerra: Netanyahu e lo jus in bello
La logica che presiede la strategia di Netanyahu sembra speculare a quella di Hamas. Il modello che Netanyahu ha in mente è la risposta israeliana inferta nel 2006 dopo l’attacco e il rapimento di due soldati israeliani da parte di Hezbollah. Per 34 giorni gli arabi furono incessantemente bombardati dall’aviazione, facendo pagare un prezzo molto alto ai leader e alle loro famiglie. Il capo di Hezbollah, Nasrallah disse in una intervista: «Se l’avessi saputo che l’operazione avrebbe portato a una tale guerra, l’avrei fatto? Dico di no, assolutamente no». Da allora il confine tra Israele e Libano è stato relativamente stabile. La destra al governo però ha immaginato che la sicurezza potesse essere garantita da una strategia intransigente, che non si fermava di fronte ai danni inflitti ai civili. In questo senso questa politica è la continuazione della guerra. Le origini della violenza, quindi, vanno ricercate anche in questa ideologia sionista. La destra religiosa e nazionalista ha tentato di cambiare il sistema democratico israeliano, puntando a depotenziare e mettere sotto controllo il sistema giudiziario. Nello stesso tempo ha rimosso la questione palestinese e la sua possibile soluzione negoziata. Ha adottato una strategia intransigente: ha incoraggiato i coloni a occupare territori, ha attuato un giro di vite punitivo verso i lavoratori palestinesi, ha creato un clima di ostilità attorno alla moschea di Gerusalemme. Il tentativo di Netanyahu però ha lacerato nel profondo la società israeliana. Per rendersene conto vale la pena ricordare un episodio: Idit Silman, ministra del partito estremista Likud al governo, è stata accompagnata fuori dall’ospedale dove si era recata a visitare alcuni feriti. I medici che l’hanno espulsa hanno detto: «Avete rovinato questo paese, vattene. Vergognati».
Israele è l’unica democrazia in Medio Oriente, ha alle spalle una storia di assediato, la tragedia dell’Olocausto, molte guerre di aggressione e ora un massacro sconvolgente, ma non può ignorare che anch’esso ha delle responsabilità. Anche Tel Aviv ha difficoltà a reclamare il principio del bellum justum quando la reazione colpisce la popolazione civile. Per questo Biden ha ammonito Netanyahu, che voleva incrinare le regole democratiche, a «non commettere i nostri sbagli dopo l’11 settembre» e a non farsi prendere dalla rabbia. Gli Usa e l’Europa sono giustamente solidali con Israele, tuttavia non possono ignorare che l’invasione di Gaza può provocare una catastrofe umanitaria in parte già in corso. Innanzi tutto, le opinioni pubbliche degli stati arabi più moderati, favorevoli all’accordo di Abramo, potrebbero premere per un intervento. Il fronte potrebbe allargarsi alle democrazie occidentali come rivelano alcune manifestazioni. Israele può essere legittimato a una risposta dopo il massacro, ma non può ricercare una vendetta. Può colpire i terroristi colpevoli di violenze atroci, ma deve separarli dalla popolazione palestinese. Stati Uniti ed Europa tentano di far sì che il diritto riporti sotto controllo la guerra. Una democrazia si difende senza rinunciare ai suoi valori. «Non siete soli» è stato il messaggio di Biden. Ma proprio per la sua partecipazione al mondo democratico, Israele ha il dovere di rimanere fedele ai principi della democrazia.
La sfida tra diritto-democrazia e guerra sullo sfondo del mondo frammentato
Con la destra al governo, Israele si è scoperto più fragile, più esposto alle minacce, più insicuro di quanto abbia mai immaginato. L’attacco riuscito di Hamas ha lanciato un monito: lo Stato ebraico non può più garantire la sua sicurezza, possiamo annientarlo. Il concetto di sicurezza che la destra nazionalista e religiosa ha costruito sulla forza, sulla tecnologia, su una sorta di apartheid palestinese, ha fallito. E ha trascinato con sé l’ideologia di potenza di Netanyahu. Il paradosso del disordine globale è che, mentre sembra declinare l’idea della interdipendenza tra gli stati, dall’Ucraina a Israele si moltiplicano invece gli esempi in cui l’autosufficienza di uno stato non basta. Nessuno sembra poter costruire la propria sicurezza (o il benessere economico) solo su sé stesso.
In questo scenario, il diritto democratico ritorna affermando due principi che circoscrivono la guerra e l’idea di guerra giusta: lo jus ad bellum, vale a dire il diritto a una reazione (che quasi nessuno contesta) e soprattutto lo jus in bello. L’America e l’Europa spingono Israele a conformarsi alla dottrina dello jus in bello. Che significa: uso della forza proporzionale all’offesa subita, diritti riconosciuti dei prigionieri e dei combattenti, preservare la popolazione civile indifesa.
È quella che Macron ha definito una «reazione giusta». La pressione americana e occidentale vuole convincere Israele ad agire nel quadro dei meccanismi internazionali di tutela collettiva e a restare nel perimetro di una legittima difesa (come per l’Ucraina) per evitare di fare il gioco di Hamas e dell’Iran. In questo modo acquista evidenza lo jus in bello, come richiesta di misura, di moderazione, di rispetto dei valori democratici per ristabilire, per quanto possibile, un principio di legittimità nel ricorso alla guerra. Il passaggio dallo jus ad bellum allo jus in bello segna lo sforzo delle democrazie di porre sotto controllo l’evoluzione del conflitto. È la sfida del diritto e delle democrazie alla guerra per stabilizzare questa crisi e i lutti che comporta. La missione di Biden punta a tracciare un confine da non superare, che non esclude il popolo palestinese.
Le fratture interne alla società israeliana, a quella araba e nel mondo hanno evocato questo spazio di manovra. L’opposizione israeliana che aveva guidato la protesta contro la svolta autoritaria di Netanjahu adesso è all’interno del nuovo governo di unità nazionale. Si tratta della stessa divisione interna che è stata osservata e analizzata da Hamas, da Hezbollah, dall’Iran, i quali devono avere pensato che fosse il momento di colpire il nemico indebolito dalla sua leadership. Una conferma che l’evoluzione del conflitto si giocherà sul difficile governo della frammentazione.