Nell’ex monastero di San Benedetto di Conversano, ora biblioteca, mediateca e sede della Fondazione Giuseppe Di Vagno, ci sono due sagome di cartone a grandezza naturale. Una ritrae Pier Paolo Pasolini in divisa da calciatore e l’altra Gigi Riva. Mi sono sempre chiesto come mai. Come mai ci sia Pasolini è chiaro: in una biblioteca e mediateca Pasolini non può certo mancare. Ma Gigi Riva perché? E perché proprio lui, se si voleva trovare un simbolo del calcio, lui e non, per dire, Baggio che forse conoscono anche i più giovani o Dino Zoff capitano di una nazionale campione del mondo?
Una risposta a questi miei dubbi l’ho trovata vedendo i documentari che negli ultimi mesi gli sono stati dedicati. Prima quello proposto da Sky sport, che fa parte della serie dei racconti biografici di campioni fatti da Federico Buffa e che narra in linea cronologica la difficile infanzia di Riva, i suoi esordi nel calcio e l’affermazione nel Cagliari e in nazionale. Poi quello più tortuoso, stravagante, variegato e originale di Riccardo Milani. Un documentario che non ha avuto vita facile, con un passaggio primaverile nelle sale cinematografiche non felice e che ora è approdato sui canali sui Sky cinema, dove si spera trovi tutta una giusta e meritata ricompensa.
Perché i meriti di Nel nostro cielo un rombo di tuono, che riprende nel titolo la celebre metafora breriana, sono molti. Non si tratta di un biopic, tranne che per l’inizio che è piena fiction con attori che impersonano Gigi Riva nell’infanzia a Leggiuno e poi adolescente in collegio. Per tutte le successive due ore ci sono interviste, immagini di repertorio di calcio e altre di paesaggi naturali e umani sardi, montate secondo una linea poetica più che narrativa.
Non mancano certo le immagini dai campi di calcio: le vittorie che portano il Cagliari dalla serie B allo scudetto, i gol in acrobazia contro il Lanerossi Vicenza o la Germania Est, il magico 1970 della partita decisiva a Torino con l’orrenda pantomima dell’arbitro Concetto Lo Bello e del gol tutto di sinistro contro la Germania in Messico, i due gravi infortuni e il terzo che pone fine alla carriera agonistica.
Ma i veri protagonisti del film di Riccardo Milani sono altri. Una è la Sardegna. La Sardegna dei tenores di Bitti e Orgosolo e quella delle donne che si oppongono alla costruzione di una base militare, la Sardegna dei tramonti sul mare e quella dell’industrializzazione promossa da Moratti, la Sardegna del pensionato, dell’allevatore, del barbiere, del ristoratore, dello scrittore, amici e tifosi di Riva e quella di Graziano Mesina latitante che, leggenda e verità, nell’anno dello scudetto ogni domenica è presente all’Amsicora, lo stadio dello scudetto.
La Sardegna magica e reale, quella di De André e quella dei calciatori sardi Matteoli, Zola, Barella.
Il secondo protagonista è il Cagliari, la squadra del presidente Andrea Arrica raccontato dal figlio e di un gruppo di bravi giocatori di cui oggi si sono perse le tracce e un po’ la memoria e che Milani saggiamente recupera. Un gruppo vero che dopo anni si ritrova commosso al funerale del compagno di squadra Nené, che oggi si rammarica nel profondo del cuore del fatto che Gigi non si faccia più vedere. Un gruppo fatto di calciatori neppure sfiorati dal divismo, Reginato, Cera, Nicolai, Gori, Domenghini, Tomasini, Greatti, quei ragazzi degli anni Sessanta che portavano ancora nomi di battesimo che solo la prima metà del secolo scorso prevedeva Comunardo (Nicolai), Ricciotti (Greatti), Manlio, l’allenatore il grande Scopigno.
Ecco, oggi invecchiati bene, diversi di quegli artefici dello scudetto, insieme con il portiere Albertosi e ovviamente Gigi Riva che neppure di fronte alle sue prodezze più clamorose si scompone nel suo commento: ci ho provato.
C’è un momento del film in cui i due protagonisti, la Sardegna e i calciatori dello scudetto del Cagliari si intrecciano, si sovrappongono. È il momento in cui sfilano in carrellata le famose statue preistoriche dei giganti di Sardegna: a sorpresa al posto delle loro teste rovinate, dimezzate il regista inserisce i volti dei calciatori di quel mitico Cagliari. Una scelta estrema, pericolosa, a rischio di caduta nel ridicolo e che invece, dopo la sorpresa iniziale, convince, commuove, travolge con tutta la sua carica di affetto. E risponde al mio dubbio iniziale sulla presenza di un’effigie di Gigi Riva in una bibliomediateca.
Gigi Riva non è solo un mito apollineo (come ci dicono nel film Raffaella Carrà e Sandra Mondaini), un eroe epico, il Rombo di tuono di Gianni Brera, Gigi Riva è un bene culturale.