Votate Giorgia. Si potrebbe dire: un nome una garanzia. La mossa della premier Meloni a Pescara è stata interpretata come una fase estrema della personalizzazione politica. Certamente si innesta nel processo di leaderizzazione che sta ridimensionando i partiti, ma conferma anche la natura comunicativa della sua leadership. L’invito a votarla, scrivendo il suo nome sulla scheda elettorale, instaura con gli elettori un rapporto personale, confidenziale. Giorgia è il messaggio.
Ma qual è la sua logica? Innanzitutto, stringere con gli elettori un legame diretto, che somiglia a quello delle celebrità con i fan, in cui la dimensione affettiva, simbolica è importante per stabilire una connessione sentimentale con il pubblico. Giorgia si propone come una figura familiare: insieme ordinaria (è una di noi) e straordinaria (una leader carismatica). Attua una disintermediazione totale. Tra lei e gli elettori non si frappone nulla, neppure il suo partito personale. La vittoria della rappresentazione sulla rappresentanza è una scelta comunicativa e politica diffusa su tutti i canali (Rai, Mediaset, i social). I manifesti in strada la rilanciano: ritraggono una giovane donna rassicurante, che invita a unirsi a lei. A partecipare attraverso di lei: «Con Giorgia» recita lo slogan. Con quale programma? C’è l’accenno all’Italia che può cambiare l’Europa. Ma il vero progetto è l’affidamento alla leader. Il resto sparisce.
A chi è rivolto questo discorso? Qui compare un’altra novità. Lo sfondo non è tanto l’arena dei partiti, soprattutto il suo competitore a destra, la Lega. La Meloni sembra voler parlare allo scontento della società. Un tema che conosce bene, dato che, quando era all’opposizione, l’ha utilizzato senza riguardo per nessuno. La sua narrazione sulle sorti dell’Italia è trionfante, però la premier deve avere la percezione che il Paese è insoddisfatto. La disaffezione traspare nei sondaggi: la fiducia nella premier si è attestata su un livello non molto alto, il suo partito è al primo posto, ma più basso rispetto alle percentuali di qualche mese fa. Preoccupa i cittadini la difesa del reddito. La premier ha un vantaggio: l’opposizione non riesce a rappresentare l’insoddisfazione. Ma fino a quando? Così Giorgia lavora affinché il voto diventi un plebiscito sulla sua leadership. Per ora i sondaggi non le danno la soddisfazione di superare l’exploit di Salvini (34%), cinque anni fa. A Pescara la Meloni non ha inaugurato solo una diversa campagna elettorale. La discesa in campo della sua leadership sembra motivata dalla necessità di prevenire l’insoddisfazione e confezionare un’offerta che possa intercettare le domande degli elettori.
La disaffezione non nasce con la Meloni. Le sue radici risalgono ai primi anni Novanta, e aveva alla base un giudizio molto negativo sull’operato dei governi e dei partiti. Da questa valutazione derivava una forte richiesta di cambiamento, che ha innescato il ciclo della protesta. La premier sa che la frustrazione può ampliare lo spazio competitivo tra le forze politiche. Sembra quasi che pensi che l’eredità politica di Berlusconi le sia stata assegnata dagli elettori solo in via provvisoria. Nell’arena politica deve fare i conti con un’elevata mobilità elettorale all’interno della sua coalizione. Cova un potere destabilizzante nella società italiana, che in passato è stato a lungo compresso, quando la maggioranza votava Dc «turandosi il naso». Poi è esploso in momenti decisivi: negli anni di Tangentopoli, con il successo di Berlusconi, con la vittoria del M5S di Grillo. Ora potrebbe riversarsi all’improvviso nell’arena competitiva con richieste di nuove offerte, nuova classe dirigente, nuove priorità. Il disegno di riforma costituzionale può essere uno strumento per frenare l’insoddisfazione attraverso la semplificazione e la verticalizzazione del sistema politico. Ancora una volta la soluzione è l’accentramento nella leader (il premierato). In questo modo la Meloni imputa la ridotta legittimità del sistema politico al numero dei partiti e alla loro rissosità. L’occupazione neopatrimoniale delle istituzioni, delle aziende pubbliche, della Rai, segue una logica simile: non è solo bramosia partitocratica di chi è stato a lungo escluso, rivela un bisogno di estendere il controllo su ogni cosa. Di fronte al rischio del Paese insoddisfatto, la Meloni ricorre al «potere di essere visti», come lo ha definito il professor Pizzorno nel suo libro Le radici della politica assoluta. La leadership comunicativa investe su sé stessa. Secondo le regole della intimate politics, racconta di sé, della vita privata della leader-celebrity. Poi le parole e le immagini evocano un mondo. Non si parla di sanità, di deficit pubblico, di scuola, delle ombre sull’economia. Come spiega il linguista Austin «fa cose con le parole». È un atto illocutorio, dicono i linguisti: le parole contano di per sé, creano conseguenze per i destinatari, sono enunciati performativi come una promessa, o frasi del tipo «vi dichiaro marito e moglie» o «la dichiaro in arresto». Giorgia crea un universo narrativo intorno a sé e in questo modo si offre come oggetto di consumo pubblico.
L’obiettivo della iper-personalizzazione, quindi, è connettersi con l’insoddisfazione latente del Paese. Del resto, Giorgia ha un programma debole. La battuta della segretaria Pd Schlein, «sotto il nome niente» coglie il problema: lo stato dei conti pubblici costringe la Meloni ad acrobazie per annunciare misure per le quali non ha tutti i fondi necessari. Per esempio, la storia della una tantum di 100 euro ai lavoratori: prima annunciata per Natale, poi spostata a gennaio 2025 (anno fiscale nuovo), poi sono stati posti limiti per ridurre la platea dei beneficiari; quindi, si è chiarito che i 100 euro sono lordi (23 per cento di tasse), infine chi vuole concorrere dovrà fare domanda. Il bilancio pubblico appesantito dal superbonus non lascia molti margini. Qui emerge il problema segnalato dal professor Flinders nel libro In difesa della politica: i politici promettono più di quanto possono mantenere per vincere le elezioni, poi il sistema politico ed economico vincola ciò che si può realisticamente offrire. Il divario tra questi due poli – in Italia sempre più ampio – crea il divario delle aspettative. Il meccanismo suscita disaffezione: i politici promettono di tutto, i cittadini si aspettano molto, il sistema democratico può erogare solo una minima parte. Come ha spiegato il professor Anthony Downs nel suo classico Teoria economica della democrazia la competizione gonfia le aspettative pubbliche che poi verranno dimenticate o drasticamente ridimensionate senza riuscire a rispettarle. È la discrepanza tra retorica politica preelettorale e comportamento post-elettorale, dice Flinders, che manda in pezzi gli slogan. E delude gli elettori. Arrivata al governo, la Meloni ha scoperto la differenza tra parlare e legiferare. E ora avverte i rischi delle aspettative deluse. Nel suo caso si aggiunge il vuoto programmatico della destra. Il PNNR con i suoi investimenti europei è in grave ritardo, la situazione dei conti pubblici e dell’economia resta delicata, c’è una crisi latente della sanità nazionale, l’immigrazione non si ferma: sono solo alcuni argomenti che rivelano una crescente carenza di iniziative per affrontarli. Emerge con maggiore chiarezza la poca efficienza dell’azione di governo e la debolezza della cultura politica della destra. In questo vuoto, spicca il comportamento da nuova casta degli attuali governanti. Si capisce perché la Meloni si concentra nel pubblicizzare sé stessa come brand.
Alla scelta di offrirsi come oggetto di consumo si lega anche l’idea che la politica deve restaurare la sua capacità di definire la società e il suo destino, di plasmarne il modello. Sottostante a questa ambizione emerge il desiderio di ricostruire l’ordine, la gerarchia, l’autorità, che la metta al riparo dalla critica di non avere saputo modernizzare il Paese. La restaurazione consiste nel riconsegnare alla politica la sua centralità del passato. La Meloni afferma che la sua vittoria elettorale consentirà di cambiare l’Europa, di «risvegliare il continente» e restituirgli il suo destino dimenticato. Ancora una volta retorica senza programma. La situazione reale è che l’Italia viene guardata con una certa freddezza da Paesi importanti e le elezioni potrebbero confermare a Bruxelles la maggioranza popolari-socialisti-liberaldemocratici che la esclude. L’offerta di Giorgia consiste nella fiducia nelle sue doti di leader e nella promessa di un risveglio spirituale dell’Europa. Un’idea che entra in contraddizione con lo scenario contemporaneo della post-politica, in cui la politica svolge una funzione importante, ma si è trasformata e indebolita. Oggi la politica non riesce più da sola a definire la società. Né a stabilirne il destino. Nello scenario della post-politica compaiono forze fondamentali come il capitalismo globalizzato, l’ascesa della tecnocrazia, l’indebolimento dello Stato-nazione (che in parte ha recuperato influenza con le recenti crisi geopolitiche), la potenza della tecnologia. Soprattutto occorre considerare l’autonomia della società civile, che articola la sua identità e i suoi interessi spesso al di fuori dei partiti. I partiti si sono personalizzati e professionalizzati, sono diventati più stato-centrici, hanno conservato la loro forza nel processo istituzionale e nella distribuzione delle risorse, come ha scritto il professor Piero Ignazi nel libro Forza senza legittimità, ma si sono molto indeboliti sul fronte della legittimità. Qui si vede un possibile punto critico tra la destra della Meloni e la società contemporanea. Più che il passato post-fascista, la sfida per la Meloni sembra riguardare queste due questioni. Innanzitutto, la capacità di porre rimedio alla sfiducia verso la politica ed evitare a sé stessa di pagare il potere conquistato con una lenta perdita di legittimità. Poi occorre capire fino a che punto la società è disposta a indietreggiare rispetto all’autonomia che ha conquistato.
La Meloni, quindi, vuole evitare di perdere fiducia e legittimità, ovvero consenso. Inoltre, si trova a dover fare i conti con una società civile plurale che potrebbe essere restia a rinunciare a quote di autonomia e chiede nuovi riconoscimenti. Per superare queste difficoltà, Giorgia sfrutta fino in fondo lo strumento della politica dell’identità. E le affianca alcune misure d’immagine, che dovrebbero sostenere la sua narrazione. Rientra in questo quadro il decreto del Primo Maggio con cui la Meloni tenta di sottrarre la Festa del Lavoro e il suo significato alla sinistra. La scarsità di risorse la costringe a varare misure che incidono sul fronte dell’identità, ma sono deboli nella realtà. Un esempio sono gli incentivi alle imprese per le assunzioni. Sulla carta sembra che il governo voglia favorire l’occupazione. Però il mercato del lavoro sta andando abbastanza bene, perché le imprese hanno bisogno di manodopera e assumono. Il governo stanzia fondi a favore delle aziende per fare quello che farebbero in ogni caso. È un finanziamento alle imprese senza ottenere nulla in cambio: i rinnovi di molti contratti sono fermi, i salari italiani sono bassi e tra i più penalizzati in Europa. La premier, dunque, tenta di spostare il senso del voto dalla «libertà di scelta di politiche», come presagì Alessandro Pizzorno, alla «libertà di identificazioni» in cui contano aspetti emotivi, affettivi, senso di appartenenza, rappresentazione, e pesa meno la realtà. Giorgia offre identificazione, non ha molto altro da esporre.