La prima premier donna della storia della Repubblica segna una svolta importante nella vita pubblica, soprattutto se si considera che le italiane devono ancora lottare per conquistare pari diritti nella vita quotidiana. Ma come premier Giorgia Meloni non può essere considerata diversamente da ogni altro leader di partito che arriva a Palazzo Chigi. E la presidente, dopo le elezioni del 25 settembre, presenta due volti diversi a seconda della prospettiva dalla quale si sceglie di analizzare la sua ascesa.
Se si guarda a quella che gli studiosi di scienza politica definiscono politics, vale a dire la politica centrata sulla competizione, sulle strategie degli attori sulla scena pubblica, il gioco della politica, la Meloni trasmette un’immagine forte. La velocità con la quale ha superato gli ostacoli, emersi nella sua coalizione, la determinazione con cui ha mostrato di ridimensionare le pretese di Berlusconi e Salvini, le conferiscono un profilo di leader.
Ma se ci spostiamo in un’altra dimensione, quella della polity, vale a dire della identità della coalizione di governo e della sua visione del mondo, della architettura istituzionale e del rapporto con i cittadini, a cui occorre collegare quella che gli studiosi definiscono la policy, vale dire le scelte amministrative, i provvedimenti, i temi (le issues) che entrano nell’agenda politica di governo, allora il quadro cambia. Su questo piano più strutturale e di prospettiva l’immagine della premier mostra contraddizioni e punti deboli.
A cominciare dalla qualità dei ministri non elevata tranne per pochi nomi. La scommessa del sovranismo al governo, il vero significato che assume la presidenza del Consiglio assegnata a Giorgia Meloni, si giocherà su questi piani, che presto convergeranno. E se oggi la premier appare risoluta, domani le cose potrebbero cambiare. Così come il sentimento degli elettori è cambiato rapidamente, più volte in questi anni. Ed è proprio dalla instabilità elettorale che dovremmo partire per analizzare le sfide che attendono Giorgia Meloni.
La fluidità elettorale in cerca di un nuovo frame
Le elezioni del 2022 dovrebbero essere interpretare ponendole in una sequenza storica con quelle del 2013 e del 2018. Da quindici anni tutte le novità politiche si sono sviluppate all’interno di un contesto instabile, con un elettorato fluido, mobile sullo sfondo di un sistema istituzionale, sociale, economico dominato dall’incertezza. La fluidità dell’elettorato però è quasi sempre rimasta entro i confini delle coalizioni tradizionali di centrosinistra e di centrodestra. Il flusso di voti tra i due poli è rimasto contenuto.
Nel 2018 si è verificata la novità di un sistema incentrato su tre poli con il successo del M5S. Ma con le ultime elezioni sembra riemerso una sorta di bipolarismo. La fluidità ha operato all’interno delle coalizioni, anche a seguito della perdita di valore del voto per appartenenza e all’affermarsi del voto per scelta. Una scelta sempre più volatile, schiacciata sul momento della decisione, compiuta gli ultimi giorni prima del voto, a volte persino dentro la cabina elettorale.
Questa fluidità ha causato l’ascesa e la caduta rapida di molti protagonisti: da Renzi a Conte, da Salvini a Berlusconi. Quale può essere il tratto comune di questo apparente disordine elettorale? Una risposta è che gli elettori si sono esercitati in un problem solving, dove il problema è la politica. Hanno cioè cercato di dare risposta a un sistema politico-istituzionale che non li soddisfa, che non dà seguito alle loro istanze. La disaffezione può essere misurata dall’astensionismo (l’affluenza è stata del 63,91%, nove punti percentuali in meno rispetto al 2018).
Nel problem solving elettorale, dal 2013 il pendolo dei cittadini si è spostato verso la protesta, verso l’antagonismo. Ha prevalso il voto contro. Però in questo 2022 è successo qualcosa di più complesso: gli elettori non hanno espresso solo frustrazione, hanno indicato un’alternativa di governo. C’è stato anche un voto per. Che ha premiato la destra, anche se mettendo insieme centro-sinistra e Terzo Polo, la vittoria elettorale già viene circoscritta. Tanto è vero che al Senato la maggioranza è più risicata. Questa ricerca di un ordine nella fluidità pone in evidenza l’emergere di nuove linee di divisione nel Paese su cui si è riflettuto poco: quella tradizionale tra destra e sinistra rimane, ma sembrano sovrapporsi anche altre fratture come quella attorno all’Europa o quella tra sistema e antisistema. Il voto rafforza la tendenza alla discontinuità.
Le elezioni, quindi, sono il risultato di un assetto strutturalmente più dinamico, fluido, competitivo, che per ora non infrange i confini tra le due coalizioni, ma che sembra alla ricerca di un nuovo frame, di un nuovo quadro di riferimento per l’Italia. La Meloni arriva a Palazzo Chigi sull’onda di questa instabilità sistemica, che con un elettorato così infedele rende precario anche il consenso al suo governo.
Fine del ciclo berlusconiano e nuova centralità di FdI
La novità è che Fratelli d’Italia è il primo partito e ha la responsabilità di indicare un indirizzo al centrodestra. Si tratta di decidere cosa i tre attori della coalizione di governo vogliono essere in prospettiva. Proprio su questo problema Salvini ha bruciato il consenso che aveva ricevuto e Berlusconi ha conosciuto il suo lento esautoramento.
Non si può immaginare che gli elettori si siano convertiti ad una ideologia di destra estrema, che pure il partito della Meloni in parte ingloba. Ma allora perché ha vinto?
Scartata come non sufficientemente convincente l’offerta di Pd e M5S, troppo nuovi e improvvisati Calenda e Renzi, la scelta della Meloni e di FdI non sembra motivata solo dalla novità: non sono mai stati messi alla prova e non hanno potuto ancora fallire. Un elettorato preoccupato per l’incertezza per il futuro, pervaso dall’insicurezza, impaurito dalle diverse crisi e diseguaglianze, ha espresso la domanda di una politica in grado di ricostruire un universo di riferimento più familiare e tradizionale, un sistema di valori che richiamasse un passato che viene idealizzato come un tempo in cui le collocazioni storiche erano più semplici, i ruoli tra i generi chiari, i problemi più comprensibili e facili da dipanare, la società più leggibile.
È emersa cioè una domanda di stabilizzazione sociale e culturale, nella quale spiccano il bisogno di sicurezza e di ordine, che oltrepassa l’insoddisfazione per partiti e politica. E che il centro-sinistra non ha saputo intercettare né interpretare. Dopo i decenni della globalizzazione e dell’individualismo neoliberista si cerca un senso per i legami sociali e personali. La struttura del governo della destra sembra voler corrispondere a questa nostalgia già nei nomi dei ministeri. La retorica conferma l’abilità comunicativa della destra nel porre etichette che sono un messaggio, un richiamo a una matricere tradizionale, cattolica, che intanto parla ai timori dei cittadini: il ministero delle Imprese e Made in Italy, il ministero del Mare, il ministero della Famiglia, natalità e pari opportunità o quello della agricoltura e della sovranità alimentare. Il messaggio è: noi ci occupiamo di voi.
Il lavoro decisivo lo hanno compiuto gli elettori. Loro hanno imposto una ristrutturazione del centrodestra. Hanno bruscamente ridimensionato Salvini a casa sua, il nord. Hanno accelerato il tramonto di Berlusconi, che pure tenta di mantenere una parvenza di centralità. Ma la centralità è passata nelle mani di Giorgia Meloni.
Viviamo la fine del ciclo berlusconiano, in cui il Cavaliere è stato l’architetto, poi il perno, infine il garante nel Ppe del centro-destra. Il conflitto con la Meloni era già scritto nel risultato elettorale: privato dello scettro, il re deposto ha cercato invano di mettere in scena una sua «seconda discesa in campo» (coerente con la sua campagna elettorale), ma ha finito per ottenere il contrario. L’ uscita del Cavaliere fuori controllo sulla politica estera, a favore di Putin contro Zelensky e di fatto contro gli Usa, da una parte ha legittimato la Meloni filo-Atlantica e a favore dell’Ucraina, dall’altra ha de-legittimato lui stesso in Europa.
A destra, quindi, s’inaugura un nuovo ciclo nel nome della Meloni. Le conseguenze si sono viste nella veloce trattativa per il governo. Ma il nuovo posizionamento centrale della leader di FdI è poi collegato a una strategia politica adeguata? Se ci addentriamo nella dimensione della polity e della policy, vale a dire della prospettiva politica, emergono contraddizioni, potenziali conflitti, incognite.
Le contraddizioni del sovranismo tra identità e governo
Il governo della Meloni nasce sulla base di un triplice riallineamento. Ideologico, perché segna il passaggio dal populismo della Lega al sovranismo di FdI. Un riallineamento sociale, perché ha investito la base del consenso dei partiti di centrodestra. Un riallineamento nei rapporti di forza interni all’alleanza. Si tratta di una situazione che sembra configurare un nuovo ordine tra i partiti di centrodestra (e forse non solo). Il posizionamento centrale della premier, le nuove dimensioni del suo partito fanno immaginare un consenso che non sia radicalizzato.
L’immagine della Meloni ha avuto in questo un ruolo decisivo: la leadership che lei ha impersonato è stata per molti cittadini il veicolo per rappresentare la loro richiesta di protezione. La sua figura di giovane donna ha consentito di superare diffidenze e perplessità, fino a ritenerla in grado di raccogliere le aspettative dei cittadini. Una conferma del ruolo cruciale della personalizzazione e dell’influenza che può esercitare una leadership femminile percepita come rassicurante, pragmatica. Ma il punto è che alle domande e ai sentimenti dei cittadini la Meloni ha anche offerto una idea di società centrata sull’identità. Non si tratta tanto di Dio, patria e famiglia, ma del modello del sovranismo che corrisponde a una richiesta di tutela dalla globalizzazione. Ma arrivato al governo il sovranismo deve fare i conti con un contesto in cui la globalizzazione muta ma non termina.
C’è la rilevante eredità di Draghi, che si è conclusa con il successo sul prezzo del gas. Quale rapporto avrà questo governo tutto politico con quello precedente dei tecnici, che di risultati ne ha portati? Dovrà poi confrontarsi con i vincoli nazionali e internazionali, che non solo quelli fondamentali europei e geopolitici, ma anche quelli del bilancio e dei mercati globali.
Il declino inglese dopo la Brexit, le dimissioni della premier inglese Liz Truss, testimoniano che il nazionalismo indipendentista funziona male in un mondo interconnesso. Tutti questi fattori potrebbero spingere la premier ad auto-percepirsi non più come partito identitario della destra estrema cioè minoritario, ma proiettarsi verso un partito con una identità, una collocazione e una dimensione differenti. La sua insistenza sulla responsabilità sembra un segnale nel senso di un oltrepassamento senza tradimento dei suoi valori. Vale a dire potrebbe candidarsi a guidare un blocco conservatore più moderato in grado di rispondere alla domanda di stabilizzazione emersa dai cittadini.
Nell’esordio però ha tenuto banco la politica dell’identità di destra. La strada per la premier, dopo il passaggio improvviso dall’opposizione al governo, potrebbe rivelarsi lunga. Trasformare FdI in questa direzione non sarà semplice. Ma gli ostacoli più insidiosi li porranno Salvini e Berlusconi. Per due ragioni: la prima è che entrambi non hanno accettato la centralità della Meloni e non hanno abbandonato lo stile populista. La seconda è che se l’operazione della Meloni funzionasse, il suo successo si consoliderebbe a loro spese. Forza Italia è in declino non solo per la biografia del suo leader, ma per la sua ambiguità irrisolta. La Lega ha dilapidato la sua riserva di voti al nord a favore dell’alleata. Per recuperare, Salvini probabilmente utilizzerà l’arma della mobilitazione populista e dell’autonomia regionalizzata, che penalizzerebbe il sud e buona parte dell’Italia. Un progetto che può creare difficoltà a FdI appena diventato un partito ad ampio consenso su scala nazionale. I due leader alleati non hanno interesse a favorire il successo della premier proprio là dove loro hanno fallito. C’è da aspettarsi che la tensione concorrenziale tra i tre riemerga presto.
Una seconda questione riguarda il programma di governo. In realtà il centrodestra ha ripreso in campagna elettorale promesse che rilancia da anni e mai realizzate. Una vera convergenza tra gli alleati non è stata ricercata. Non sembra esserci in politica estera dove Berlusconi e Salvini interpretano una linea più filo-sovietica, mentre la Meloni ha una linea diversa. Ma la distanza esiste anche sulla politica economica, sull’impostazione del bilancio dello Stato e sulla riforma fiscale.
E poi c’è l’eredità di Draghi soprattutto con il PNRR, la grande occasione per il Paese, sia con le sue riforme sia con la destinazione dei fondi. Nei cinque anni passati, i tre partiti hanno avuto posizioni divergenti, spesso si sono trovati all’opposizione o in maggioranza ognuno in tempi diversi. Il paradosso è che il partito che aveva scelto di collocarsi all’opposizione di Draghi, oggi sembra più interessato a operare in relativa continuità con l’ex presidente della Bce. I due partiti che stavano al governo con Draghi manifestano invece posizioni lontane, a volte inconciliabili. Nella corsa alle elezioni non è stato costruito un programma condiviso prima di costituire il governo. Ma si è costituito un governo in cui la premier ritiene che avrà sufficiente autorità per dettare la linea e quindi il programma. È lecito dubitare che la disciplina sarà rispettata.
L’egemonia di una premier con troppe sfide
Se il populismo è stato definito una ideologia «sottile», incentrata soprattutto sulla opposizione tra popolo ed élite, il sovranismo, strettamente legato al nazionalismo, è diverso. È una caratteristica dei partiti conservatori e pone al centro la questione del primato tra istituzioni di governo nazionali e quelle sovranazionali. Non a caso la Meloni parla spesso di nazione, all’interno della quale il concetto di popolo è definito per esclusione e attiva sentimenti e categorie come noi-altri o dentro-fuori. La nazione è una costruzione (e differenziazione da altri) di lungo periodo, basata su storia, lingua, etnia, cultura, religione. Il nazionalismo poi intreccia rapporti con gli altri nazionalismi. Il tema oggi è che il sovranismo tenterà di stabilire una nuova egemonia nel Paese. E la Meloni sembra tentata di coltivare questa egemonia. Le incognite però non mancano.
Adesso che guida il governo, fino a che punto il modello sovranista e nazionalista che la Meloni ha seguito potrà essere applicato?
La premier potrebbe essere obbligata dalle complesse condizioni del presente a elaborare una diversa forma di sovranismo in cui il punto centrale sarà la capacità di riconoscere validità a valori diversi dai suoi, a diritti, libertà che sono stati realizzati e sostenuti da altri. La Meloni potrebbe scegliere di non fare passi avanti, ma neppure di tornare indietro. In fondo quasi metà del Paese non l’ha votata. Tuttavia, le pulsioni per una sorta di rivincita culturale della destra, affiorano. Un problema simile si pone nei confronti dell’Europa e della globalizzazione: la premier dovrà mostrare la sua capacità di sapersi integrare, sia pure criticamente, nella logica della interdipendenza europea e internazionale, da cui dipende la vitalità del nostro sistema produttivo, mettendo sotto silenzio la pretesa della supremazia nazionale. Il sovranismo italiano potrebbe imboccare un processo di ridefinizione, che lo orienti verso una società meno chiusa. Ma sarà possibile dimenticare gli amici della Ungheria, della Polonia e della Spagna?
La Meloni in sostanza deve decidere se affrontare o no l’istituzionalizzazione della destra estrema, che da forza di opposizione contro il sistema, fa ingresso dentro il sistema e normalizza la propria identità. È un’impresa non facile. Il M5S ha fallito. Eppure, gli italiani che l’hanno votata forse si attendono questo esito. Lei a tratti sembra volerlo garantire, a tratti sembra smentirlo.
Con le sue prime mosse, la premier pare ricordare l’orgoglio di una identità e sembra ricercare una nuova egemonia. Troppe sfide si sono accumulate nelle mani della prima donna che siede a Palazzo Chigi. E lo scenario è rischioso: si teme la recessione nel 2023, la crisi energetica, la guerra, la recrudescenza della pandemia. Ci sono forti timori per la coesione sociale. Occorrerebbe una opposizione rigorosa, vigile, ma capace di proposta nell’interesse dei cittadini. Inizia una nuova fase di trasformazione, che riguarda innanzi tutto la destra, ma coinvolge anche il centro-sinistra. Senza dimenticare la fluidità degli elettori.