La vicenda che ha coinvolto Giulia Cecchettin mi ha turbata più del solito. Forse perché ho una figlia della sua età. Forse perché da anni lavoro ogni giorno come insegnante con ragazze e ragazzi poco più piccoli di lei. Forse a causa del mio impegno personale e professionale in una lotta che appare spesso impari contro un sistema radicato così profondamente nelle viscere della nostra società, delle nostre famiglie, di noi stessə da apparire quasi indistruttibile. Eppure. Eppure, proprio storie come questa devono essere interpretate come dei segnali evidenti delle crepe che si stanno aprendo nel sistema patriarcale.
Le motivazioni della morte di Giulia non so se le sapremo davvero. Possiamo dedurle, dalle informazioni che sono trapelate in questi giorni, dai familiari suoi e del suo ex fidanzato, Filippo Turetta.
Giulia è morta perché stava per laurearsi in ingegneria biomedica, prima del suo ex, che doveva ancora dare alcuni esami.
Giulia è morta perché aveva deciso di lasciare, lo scorso agosto, Filippo, che sembra che non avesse mai accettato la sua decisione e che continuasse a rimanere nella sua vita spesso imponendo la sua presenza contro la volontà della ragazza.
Giulia è morta perché aveva deciso, dopo la laurea, di trasferirsi a Bologna per seguire un corso di fumetti, altra sua passione, sfuggendo così definitivamente al controllo del suo ex.
Giulia è morta perché faceva parte di quella schiera di giovani donne che stanno battendo strade nuove. Che si stanno laureando in facoltà tradizionalmente maschili. Che lo fanno prima e meglio dei loro coetanei. Che non hanno paura di decidere di proseguire da sole il loro percorso, se non più felici in coppia.
Giulia è morta perché il contraltare maschile di questa società in cambiamento non si è dimostrato all’altezza e invece di accettare e rielaborare la separazione subita, di rispettare la libertà della sua compagna, di decidere di rimboccarsi le maniche e rimettersi in gioco, ha preferito tarparle le ali, recidere alla base il fiore di una vita che stava sbocciando, di fatto rovinando anche la propria.
Filippo lo ha fatto nel modo peggiore possibile. Non so cosa possa spingere un giovane uomo di 22 anni a un’azione così violenta, così efferata, molto probabilmente premeditata. Quanto odio, quanta rabbia, quanta frustrazione, quanta disperazione, quanta paura dell’abbandono e della solitudine deve esserci dietro la forza distruttiva e autodistruttiva che ci vuole nel decidere di picchiare a sangue, quindi, impugnare un coltello e affondarne la lama nel corpo vivo della persona che dichiari di amare, non riesco a immaginarlo.
Ma quanti giovani uomini simili a lui esistono nel quotidiano delle nostre figlie, che non arrivano ad ucciderle eppure agiscono violenze meno eclatanti ma che ne condizionano la quotidianità e ne deviano il destino? Quanti giovani uomini come Filippo ancora oggi non sono in grado di rispettare la libertà delle loro compagne, di accettare un no, una separazione, di non forzare un consenso non pieno? Quanti giovani uomini agiscono la violenza del controllo, della gelosia, dell’imposizione, della ricerca del potere, dell’uso della forza? Quanti le portano a sminuirsi per bisogno costante di emergere, di mettersi in competizione senza essere in grado di allearsi, di supportarle, senza capire che si può fiorire insieme, che la vita non è sempre una gara ma che può essere una staffetta, o una danza con continui scambi di ruoli? Quanti sono in grado di accettare di restare in secondo piano, di dare spazio alla propria compagna, di sostenerla nella crescita professionale, assumendosi la propria parte, se non di più, del lavoro domestico e di cura dei figli per darle modo di dedicarsi al lavoro che hanno scelto di svolgere con lo stesso impegno che di solito viene garantito ad essi stessi?
Mai come in questo momento storico gli uomini sono chiamati a farsi queste domande e a darsi e a dare delle risposte oneste e responsabili. Dopo anni di diritti acquisiti faticosamente grazie alle lotte delle loro antenate, le giovani donne di oggi stanno iniziando a percorrere nuovi sentieri, agendo una libertà sempre maggiore. I loro coetanei vanno accompagnati in un percorso di cambiamento, che li porterà a perdere i privilegi derivanti da un potere esercitato da millenni (legati al genere, alla razza, alla classe, all’orientamento sessuale, al non essere disabili), ma che permetterà loro di liberarsi da quegli stessi stereotipi sessisti che li hanno costretti e li costringono ad una costante performatività, a sentirsi sempre in competizione, a dover dimostrare di essere il migliore, il più veloce, il più bravo, il più ricco, il più fico, il più muscoloso, il più forte.
Credo che la scuola possa e debba avere un ruolo importante in questo percorso, che deve però coinvolgere in prima istanza il corpo docente in un lavoro di studio e consapevolezza su sessismo e stereotipi di genere da lui stesso interiorizzati. Ritengo comunque che la scuola da sola non possa farcela. Si tratta di un percorso che deve coinvolgere anche la cultura tutta, i media, la pubblicità, la politica, l’economia, l’urbanistica, la ricerca scientifica, in un cambiamento radicale di prospettiva e di valori.
Gli uomini devono dichiararsi: sono pronti a dichiararsi e dimostrarsi nostri alleati nell’abbandonare il patriarcato con i suoi schemi, ruoli, riti e miti? A educare i propri figli secondo i valori del rispetto reciproco, dandone l’esempio in prima persona? Sono pronti a supportarci in questo percorso di reciproca liberazione? Ad accogliere il cambiamento in atto, a viverlo con gioia, consapevoli che avere accanto compagne libere libererà essi stessi?
Nei giorni scorsi è stata recisa una giovane vita che stava sbocciando e si apprestava a fiorire. Eppure, io continuo a pensare che, «se potranno tagliare tutti i fiori, non potranno fermare mai la primavera». Il cambiamento è in atto, e nessuno potrà fermarlo. Giulia è con noi, e continuerà a camminare accanto a noi.