Giuseppe Di Vagno e Giacomo Matteotti: per la democrazia e contro il fascismo

Gianvito Mastroleo

Il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, non diversamente da quanto accaduto per il centenario dell’assassinio di Giuseppe Di Vagno avvenuto solo tre anni prima, ha offerto l’occasione per una bibliografia molto ampia intorno alle figure cardine dell’avanzamento e consolidamento del fascismo come regime.

Sia Di Vagno che Matteotti, infatti, dopo la loro tragica fine e salvo la vera e propria venerazione nelle case dei socialisti e dei lavoratori di Conversano e della Puglia come a Fratta, nel Polesine e nel resto del Paese, subiscono la sostanziale marginalizzazione nella storiografia in larga misura succube dei cascami dell’antisocialismo e della «guerra civile a sinistra».

Il primo relegato nella pur generosa retorica celebrativa dei socialisti pugliesi, la memoria di Matteotti consegnata ad uno dei partiti minori della tradizione socialista; entrambi, salvo rare e pur autorevoli eccezioni, ignorati dalle nostre Università per lo più interessate allo studio di figure più vicine al sentire di ben definite visioni politiche.

Eppure, il messaggio che restituisce al Paese quel duplice assassinio, accomunato nelle finalità, nei mezzi e nei risultati, ispirati o eseguiti entrambi ad opera della componente più dura, quello agrario, del fascismo, oggi appare attuale più che mai: quando il rigurgito di quello che fu, anche nella sua simbologia più becera, torna senza alcuna vergogna, ma anche senza alcuna remora di responsabilità.

Saluti fascisti si ripetono più frequenti che mai assieme al richiamo, volutamente distorto, di eventi che appartengono ad un passato consegnato alla storia non certo la migliore del Paese, irresponsabili (mi auguro poco consapevoli!) richiami all’orrore dei forni crematori, l’uso sempre più frequente dell’antisemitismo camuffato da simpatie palestinesi è ormai radicato in alcune famiglie, fino alla vendetta, la più obbrobriosa, verso un’ignara, innocente fanciulla (Parigi, Courbevoire) sono il segno della mancanza di freni inibitori favorita dall’ascesa del post/fascismo nel cuore dello Stato.

Dunque, il crescente interesse verso Matteotti del quale, nel suo centenario si sta scrivendo e parlando da Nord al più profondo Sud, così come il riferimento a Giuseppe Di Vagno, presupposto del fascismo che nasceva e del secondo delitto sempre più ricorrente, va salutato con grande interesse: per la correttezza dell’analisi storica più che per una sorta di  campanilismo funereo.

Quella correttezza che ha consigliato a studiosi come Gentile, Cazzullo, Fimiani, Colarizi ed altri italiani, a biografi come Capurso e Colucci, allo storico inglese John Foot nei loro studi sulla storia del fascismo di collocare la figura di Di Vagno, con i processi che hanno sancito l’impunità degli autori del delitto, al posto che compete nella storia nazionale.

Per questo è doveroso tornare all’attualità di Giuseppe Di Vagno e Giacomo Matteotti esaminando le affinità e le non casuali coincidenze: due delitti, tra il 1921 e il 1924, ad opera dall’ala dura del fascismo agrario che in Puglia come nel Polesine si manifestava con particolare asprezza.

Il primo, «l’oscuro Matteotti del sud», come scrive Leo Valiani negli anni ’50, vittima della violenza inedita verso un membro del Parlamento; il secondo, «Pellegrino del nulla» come scrive Antonio Gramsci dopo la morte, ma come certamente non avrebbe mai più ripetuto.

Due figure che nascono e crescono a mille chilometri di distanza, che non si conoscono ma rivelano, ben al di là dal tragico epilogo, affinità e coincidenze che non sono affatto casuali, come potrebbe apparire.

Il delitto Di Vagno fu concepito scientemente dagli agrari del cerignolano Giuseppe Caradonna per bloccare il corso del «patto di pacificazione» che ormai era sul tavolo del Presidente della Camera e che era stato già sottoscritto da Mussolini. E così fu.

Benito Mussolini, saldamente al potere da un paio d’anni, per consolidare il regime dittatoriale aveva necessità di eliminare Matteotti, il più irriducibile dei suoi avversari, molto determinato nell’azione e rigoroso nello studio e nella ricerca di compromettenti documentazioni: come sarebbe accaduto di lì a qualche ora in Parlamento per il quale era ormai in preparazione la denuncia degli scandali e della corruzione del regime.

Sono entrambi socialisti, riformisti turatiani.

Provengono da famiglie agiate, se non ricche (in particolare Matteotti), ma entrambi assecondano la spinta interiore che induce Di Vagno a rinunciare alla carriera forense già brillantemente intrapresa a Roma, e Matteotti, giurista ancor più fine, al percorso di studi che l’avrebbe condotto alla Cattedra all’Università di Bologna: ma alla quale lui rinuncia definitivamente, come scrive al suo Maestro Luigi Lucchini, al quale fa presente che, nonostante la pericolosità della situazione politica, o proprio per quella, lui sceglie di occuparsi del Paese.

E poi la zappa, la pesantissima zappa: li abbiamo conosciuti, fra gli  anni ’40 e ’50, a Conversano gli stessi corpi stremati dalla fatica, piegati letteralmente in due che già prima avevano appassionato Di Vagno.

Il Socialismo, dunque, esige da entrambi un impegno irremovibile anche se, più che dalle fabbriche, esso nasce nella povertà e nello sfruttamento del bracciantato della Puglia o quello del Polesine devastato dalla pellagra: entrambi sfruttati dal ben più rozzo padronato agrario che Matteotti definisce «il peggiore, incivile schiavismo agrario».

Sicché, entrambi per cambiare il mondo, per migliorare le condizioni di vita e di lavoro del popolo sanno che la prima conquista è il governo dei loro piccoli borghi e città.

Lo fa Di Vagno a Conversano che nelle elezioni del 1914 sconfigge gli agrari e insedia un sindaco di nobile famiglia ma sensibile alle aspirazioni del mondo del lavoro; lo fa Matteotti che diventa sindaco (allora era possibile) di diversi piccoli Comuni del Polesine, mentre entrambi sono eletti, e con largo suffragio, nei Consigli provinciali di Bari e Rovigo tra il 1914 e il 1920.

«Sappiamo – scrive Matteotti il 1907 per il primo Congresso dei Consiglieri comunali e provinciali del Polesine – che il Comune in mano ai socialisti […] non può essere la cuccagna dei lavoratori […] noi dobbiamo aspirarvi per trasformalo in una provvida funzione di patrocinio dell’interesse generale per il proletariato […] i pubblici servizi […] meritano di esser rispettosamente e seriamente ponderati e avviati a soluzione con metodi e mezzi diversi da quelli in uso presso il feudalesimo reazionario […] come una vigna da sfruttare».

Di Vagno a sua volta ebbe chiara la consapevolezza che la crescita e lo sviluppo di un’imprenditoria locale, nella realtà del capoluogo pugliese, coinvolgeva il sistema politico a cui non erano estranei istanze affaristiche e finanziario-speculative: e per questo non poteva essere tollerato.

Nel 1914 per l’Italia si profila la partecipazione alla guerra: ma entrambi, pur in dissenso dal Partito, si schierano contro quella «inutile strage»; Di Vagno per non essersi associato al «viva la guerra» del Presidente è cacciato dall’aula del Consiglio Provinciale di Bari; accade lo stesso a Matteotti a Rovigo anche se questi è messo anche sott’osservazione dalla Polizia per sovversivismo.

«In queste lotte per tutte le libertà – scrive Matteotti – […] quando la classe borghese viene davanti ai lavoratori e li invita ad entrare nei propri eserciti armati per la difesa della patria noi gridiamo “abbasso il  militarismo” perchéè la borghesia vuol preparare soltanto il trionfo di questo che è essenzialmente nemico della libertà e della giustizia; vuole soltanto il dominio proprio sostituito a quello di un’altra borghesia».

Nel suo scritto del 1917 In difesa del Mezzogiorno Di Vagno afferma: «Le industrie se vogliono vivere e rafforzarsi trovino in sé la forza di bene produrre e le necessarie condizioni di esistenza. Cessino di […] essere le trivellatrici della nazione […] gli Stati non dovranno mettersi sul binario tedesco del protezionismo che accelera la formazione dei processi economici che sboccano nella guerra, ma su quello della più larga libertà, come il più naturale ed il più provvido pel consumatore».

Inoltre, nello scritto Contro il protezionismo: i partiti politici e il problema doganale si coglie lo spessore di una riflessione teorica e politica che assume come punto di riferimento i cambiamenti prodotti dalla guerra nella realtà meridionale e le prospettive di una visione del socialismo non riducibili ad una astratta e schematica polarizzazione di classe. Di Vagno è  consapevole, come scrive Vito Antonio Leuzzi, che la guerra aveva rafforzato la grande proprietà terriera ed alimentato le aree affaristiche speculative del ceto medio, rendendo più precaria le condizioni di piccoli proprietari e fittavoli; e che la situazione di crisi e l’antagonismo sociale si acuiscono con il ritorno dei contadini-soldati che, svanite le promesse della terra e del lavoro, si trovarono di fronte lo spettro della disoccupazione.

E perciò entrambi sono internati: Di Vagno prima a Sassari poi in Toscana, Matteotti in Sicilia, posti che, se ora si raggiungono in qualche ora a quel tempo occorreva qualche giorno.

Di Vagno, esule a Firenze, nella casa del socialista abruzzese avvocato Trozzi, incontra il fior fiore del Socialismo massimalista, Bordiga, Serrati, lo stesso Gramsci ancor giovanissimo; Matteotti ormai ha adottato come suo secondo padre Filippo Turati, poi Claudio Treves ed Enrico Ferri, il maestro di Di Vagno.

Sia Di Vagno che Matteotti dopo giovanili pulsioni massimaliste adottano il socialismo riformista: rifiutano la rivoluzione come strumento di lotta politica e scelgono la democrazia come terreno di lotta per il cambiamento graduale; e dopo la scissione comunista del gennaio 1921 si ritrovano entrambi nella componente riformista che darà vita al Partito Socialista Unitario del quale Matteotti, nel ’22, sarà segretario nazionale.

Nel 1919 Di Vagno con un processo sommario, addirittura l’espulsione dal Partito rientrata dopo qualche mese, subisce il veto di Rita Maierotti, una maestra socialista massimalista venuta in Puglia dal nord; ed invece, dopo le tormentate elezioni del 25 maggio 1921, è in Parlamento: nonostante a lui come a Matteotti fosse stato impedito di svolgere il proprio dovere di candidati nei rispettivi Comuni; a Di Vagno già da mesi è vietata la permanenza nella sua Conversano, dove tornerà solo il 30 maggio, quindici giorni dopo l’elezione, mentre Matteotti è costretto a soggiornare a Padova, da clandestino spesso mimetizzato.

Sono assieme in Parlamento quando accade il «disgustoso incidente» raccontato dal più autorevole dei testimoni, Giuseppe Di Vittorio, nel suo scritto commovente all’indomani del delitto per Puglia Rossa: in Transatlantico Di Vagno, avvistato il Deputato popolare ultrafascista, Cappa, in procinto di aggredire un Matteotti «gracile ed esile» che era in compagnia di lui stesso, di Turati ed altri, lo afferra per i bavari della  giacchetta e anziché scaraventarlo in terra lo deposita delicatamente su uno dei divanetti che, allora come ora, arredano lo storico «corridoio dei passi perduti». Perché lui è il Gigante Buono, come l’ha già definito Turati.

Il rigore nell’impegno, nella lotta e nello studio li accomuna, assieme ai ripetuti violenti attentati da entrambi subiti; Di Vagno è lontano dalla sua compagna, sposa solo da qualche mese e che già attende un figlio che non conoscerà mai suo padre, ed è oggetto di violenti agguati in vari Comuni della terra di Bari; Matteotti è quasi sempre lontano dalla famiglia perché l’intransigente impegno parlamentare lo trattiene nella Biblioteca della Camera a studiare i bilanci del Governo dove, fra l’altro, appresta quel suo insuperabile j’accuse: «Un anno di dominazione fascista».

Matteotti, infatti, pure in epoca di forte ideologizzazione del pensiero socialista fu uomo di azione e non un teorico. Come del resto era stato Giuseppe Di Vagno.

«Ma escludo assolutamente – dice al Congresso nazionale di Roma dell’ottobre ’22 – che si debba perdere tutto il nostro tempo nelle polemiche; mi vergogno che i nostri Congressi dedicano tutto il loro tempo a queste diatribe; che non si pensi ad altro che a scissioni; e che la frazione dominante non abbia altro programma che cacciare fuori i compagni. Il proletariato deve essere unito; un blocco solo anche sotto la tempesta. Se c’è chi crede solamente alla violenza, quegli esca e vada ai comunisti!».

Il fare, il socialismo che diviene di Turati, quello che sarebbe di grande utilità per l’oggi, è la stella polare di entrambi.

L’alternativa tra massimalismo (leggi: rivoluzione) e riformismo appassionò entrambi essenzialmente perché per loro il superamento degli squilibri fra le classi era affidato al più profondo senso della giustizia sociale: i braccianti e i contadini, la concreta possibilità del loro riscatto non solo attraverso un più giusto trattamento economico ma anche attraverso la loro istruzione erano la loro ansia: vera rivincita sociale verso i possidenti, «il peggiore incivile schiavismo agrari» che non era affatto diverso da quello pugliese.

Molto illuminante, pur nella sua semplicità, la favola La fiaba del grano (Giuseppe Di Vagno – Scritti e interventi – 2007, Camera Deputati) che racchiude l’essenza degli ideali del giovane politico pugliese ispirato dalla giustizia sociale: la ghianda è ciò che rimane al contadino dopo le lunghe  faticose ore di lavoro passate sotto il sole, mentre la spiga, ovvero la parte migliore, va a chi gode passivamente del frutto del sacrificio altrui.

Non per caso, ciascuno ignaro dell’altro, nel rispettivo Consiglio Provinciale (Bari e Rovigo) promuovono, e con successo, iniziative per creare istituti per l’istruzione popolare.

Un riformismo nel quale la qualità sociale è il contenuto dell’agire politico e che per combattività e fermezza nella difesa dei principi, intransigenza verso il fascismo condusse alla definizione del socialismo di Matteotti come «riformismo rivoluzionario»: un vero ossimoro.

In Matteotti, invece, non era estranea una sorta di complementarità tra riforma e rivoluzione: battersi per le riforme e per il capovolgimento dei rapporti sociali, purché a prescindere dalla violenza, significava essere rivoluzionari nell’unico modo possibile per il mutamento radicale dell’ordinamento sociale: piuttosto che la conquista del potere con l’uso della forza e l’esercizio al di fuori delle regole democratiche. Dal che il suo irriducibile discrimine verso il comunismo.

Più che riformismo rivoluzionario, forse o molto meglio, riformismo radicale: un’innovazione originale ma necessaria nell’intendere il Socialismo valida ieri come oggi.

Di Vagno e Matteotti sono entrambi consapevoli del rischio che genera il loro rigore: il primo, preavvertito di «non andare a Mola», come metterà in versi Vittore Fiore, ci va, avvia il suo discorso con l’ammonimento consapevole di Lincoln  «possiamo cadere nella lotta» e al termine viene raggiunto da tre colpi di pistola. Matteotti, pur presago della pericolosità già drammaticamente vissuta con un rapimento e molte malversazioni, fra le quali a Ferrara la più grave, il trenta di maggio pronuncia l’impietosa requisitoria contro il regime mussoliniano ormai al potere, e mentre ben altro ha in preparazione viene rapito e assassinato.

Con i massimalisti del Partito Comunista d’Italia Matteotti non ritiene possibile nemmeno un’intesa tattica nella lotta al fascismo: perché i comunisti proponevano ai socialisti che la lotta al fascismo non avesse come obiettivo immediato il semplice ritorno a un regime di libertà: ed era la prova della loro insensibilità al valore della democrazia, come scrive Leonardo Rapone.

Per Matteotti, invece, la democrazia e la sua difesa è la vera priorità. Nell’intervento alla Camera dei deputati del 4 giugno 1923 Matteotti si rivolge al Governo: «[…] ora io domando: hanno o non hanno i cittadini il diritto di riunirsi pacificamente in una casa o in uno studio? si può saperlo? Ha o non ha il Partito Socialista unitario il diritto di svolgere la sua propaganda? Anche ieri mattina qui a Roma si sono riuniti dieci studenti alla Casa del popolo; escono, sono arrestati e perquisiti! Abbiate il coraggio di dichiarare che questo è il sistema che volete attuare, abbiate il coraggio di dire che questa è la norma, è la legge in modo che almeno i cittadini sappiano su quale legge devono fidare!».

Fra tutti i Parlamentari fu il più rigoroso nella difesa del ruolo e della dignità del Parlamento, della legalità e innanzitutto delle regole democratiche, come testimonia il discorso del 30 maggio; e poi fu convinto sostenitore del rigoroso rispetto della finanza pubblica e del bilancio dello Stato, del pareggio degli Enti locali e della loro autonomia.

Ma è stato anche intransigente difensore dell’unità dei socialisti, con una visione unitaria e pluralistica del Partito – non per caso il PSU è quello di cui nel 1922 è segretario nazionale – nel quale socialisti riformisti e rivoluzionari avrebbero potuto godere di eguale diritto di cittadinanza, con l’implicito suo riconoscimento della legittimità finanche delle idee rivoluzionarie. Anche se Matteotti non crede alla rivoluzione: e non per le condizioni obiettive quanto per le insufficienti capacità delle classi popolari non ancora mature, per difetto di risorse morali, di educazione, di abilità tecniche ad assumere la direzione degli affari sociali e pubblici.

È tragicamente ovvio, dunque, che i fascisti la facciano pagare a entrambi, e con la vita: Di Vagno con tre colpi di pistola la stessa sera del 25 settembre; Matteotti rapito e colpito da un pugnale il 10 giugno, solo dieci giorni dopo la sua requisitoria davanti al Parlamento.

Molto controversi i processi agli autori di entrambi quei delitti: in particolare a quelli dell’assassinio Di Vagno che restano impuniti. Ma tutte da studiare le ragioni per le quali, nel corso dei processi e pur in un contesto politico diverso, la vedova Matteotti prima, il figlio di Di Vagno dopo la prematura scomparsa della madre, rinunciano alla costituzione di parte civile nel processo agli assassini dei loro cari.

Di Vagno, il primo Parlamentare della storia d’Italia, Matteotti il più autorevole degli avversari del fascismo: entrambi vittime dell’antiparlamentarismo del regime, a entrambi il fascismo non poteva consentire di sopravvivere e continuare nella  lotta.

Insofferenti verso i veri pellegrinaggi di socialisti e gente comune che si recavano per rendere omaggio, i fascisti spudoratamente proseguono nel disturbare le tombe dove a Conversano o a Fratta Polesine riposano le martoriate loro spoglie mortali; ed ancora, non paghi della gazzarra con banda e corteo che accolse alla stazione di Conversano la squadra degli omicidi di Di Vagno che, dopo la latitanza, torna a casa per l’impunità assicurata dall’amnistia Oviglio e accolti come eroi per «aver agito nell’interesse nazionale», la quiete delle povere vedove, Giuseppina e Velia, viene disturbata da inutilmente persecutori controlli, quando non anche dagli insulti delle squadre che a Conversano sfilano sotto casa Di Vagno inneggiando al «25 settembre»; al punto che Giuseppina Di Vagno è costretta a rivolgersi al federale barese del fascio il quale dal duce, direttamente interpellato per telefono, sente intimare un: «dite di non disturbare».

Mentre a Fratta Polesine dopo i numerosi tentativi dello spostamento del sacro sacello il fascismo impone rigorose restrizioni per la visita o l’omaggio del popolo: per non parlare del controllo poliziesco alla povera vedova durata fino al suo ultimo respiro.

Salvo qualche schifezza fascistoide che tuttora sopravvive, il fascismo, quello del regime mussoliniano, è morto ed è sepolto nel disprezzo della storia.

Giuseppe Di Vagno e Giacomo Matteotti vivono e «risorgerà[nno] dalle ceneri lacrimate quando la giustizia pia del lavoro unirà le genti di questa terra, di tutte le terre nel socialismo», secondo la profezia di Filippo Turati scolpita nella pietra nella facciata del Comune di Conversano.

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