Giuseppe Provenzano: Se non credessi che il Sud si può rilanciare davvero, non farei questo mestiere

Peppe Provenzano, ministro per il Sud e la coesione territoriale, 38 anni, del Pd, sa bene quanto difficile sia, in una situazione di estrema criticità di pandemia e crisi economica e sociale, portare a casa risultati per il Mezzogiorno. I contagi aumentano, e la curva occupazionale scende. Ma Provenzano indica la ricetta sua e del governo per invertire la rotta dello svantaggio storico meridionale: dalla riduzione degli oneri contributivi per le imprese al Sud agli «ecosistemi per l’innovazione». Con un radar prima di tutto: «I ragazzi del Sud devono avere la libertà, anche di andarsene se vogliono. Ma affinché sia vera libertà dobbiamo offrire anche l’opportunità di tornare e garantire il diritto a restare».

È esattamente questo il rischio che dobbiamo evitare. Gli economisti la chiamano jobless recovery, ripresa senza lavoro. Proprio per questo, abbiamo voluto accompagnare la strategia più ampia di rilancio degli investimenti del Piano Sud 2030, con una fiscalità di vantaggio per il lavoro nel Mezzogiorno, una norma che riduce del 30% gli oneri contributivi per le imprese al Sud. È partita il 1° ottobre, ha avuto un primo via libera dalla Commissione Ue, e adesso stiamo trattando per prolungarla in un orizzonte temporale congruo.

Le stime dicono che la perdita di posti di lavoro sarà più intensa al Sud, secondo la Svimez il 2020 segnerà -6%. Ma non voglio parlare di numeri crudi. Come dicevo, stiamo mettendo in campo una serie di strumenti proprio per scongiurare questa dinamica. Abbiamo esteso nell’emergenza gli ammortizzatori sociali, perché la cassa integrazione ordinaria non arrivava a molti, proprio e soprattutto al Sud. Siamo stati criticati, ma nessun rilancio può fondarsi sull’angoscia delle persone, a cominciare da quella di perdere il lavoro. Ora dobbiamo rilanciare gli investimenti, anche grazie alle nuove possibilità offerte dall’Europa, e accompagnarli al Sud con incentivi alla produzione, all’innovazione, con le zone economiche speciali e, appunto, la fiscalità di vantaggio.

Per molti rappresenta una misura storica, per me è un tassello di quella strategia di medio termine che è il Piano Sud 2030, che ora è entrato a far parte del Piano nazionale di riforme ed è stato recepito nelle linee guida del Recovery Plan italiano. È senz’altro una misura essenziale in questa fase straordinaria. Chi lavora e produce oggi nel Mezzogiorno subisce lo svantaggio di un territorio che non ha ancora gli stessi livelli infrastrutturali e di servizi. Perché questo deve scaricarsi sugli imprenditori e i lavoratori? E allora, mentre lo Stato e le istituzioni a ogni livello si impegnano a colmare quei divari con gli investimenti, rendiamo più conveniente lavorare e produrre al Sud. Per questo vogliamo prolungarla, in accordo alla Commissione, fino al 2029, in misura decrescente. Anche per esplicare due effetti indiretti ma fondamentali: favorire percorsi di emersione dal lavoro nero e attrarre, insieme ad altri strumenti, nuove attività, anche intercettando i flussi di rientro di produzioni già delocalizzate.

Molto. La Commissione Ue ci pone l’esigenza di rendere prioritaria la coesione territoriale nelle strategie di ripresa e resilienza. Ma è il governo ad aver messo in cima all’agenda il rilancio del Sud, come ha detto a più riprese il presidente del Consiglio, Conte. Non solo per un fatto di equità, ma per liberare il potenziale di sviluppo che serve all’Italia. In questa nuova stagione di investimenti, il Sud e la coesione territoriale sono una missione trasversale, non devono ridursi ai progetti di un ministero, ma di tutti. E il ministro Enzo Amendola sta facendo un ottimo lavoro di coordinamento. Poi ci sono singoli progetti, ne cito uno, a cui stiamo lavorando con il ministro dell’Università, Gaetano Manfredi, che dà l’idea del Sud che abbiamo in mente: creare nelle città del Sud degli ecosistemi dell’innovazione, replicando il modello del polo tecnologico di San Giovanni a Teduccio di Napoli, che rappresenta una best practice anche nell’utilizzo dei fondi europei, per coniugare innovazione tecnologica e produttiva, a partire dalle realtà universitarie e industriali di qualità esistenti, con l’innovazione sociale, la riqualificazione di contesti urbani marginalizzati.

Se non lo credessi non farei questo lavoro! La stessa pandemia ci ha mostrato anche alcune dinamiche virtuose, spazzato via molti luoghi comuni. Al di là della retorica delle eccellenze, al Sud ci sono molte cose che funzionano, dunque le cose si possono far funzionare. Le esperienze di South working (il lavoro agile svolto dal Sud) indicano il bisogno e l’attrattività di un Mezzogiorno diverso, innovativo e inclusivo. Sul piano della politica nazionale, abbiamo già cominciato a invertire la rotta. Abbiamo stanziato risorse senza precedenti, oltre quelle del Next Generation Eu, abbiamo aumentato quelle per le politiche di coesione nazionali ed europee, che saranno disponibili già prima di quelli del Recovery: stimiamo che nel 2021-27 si possono attivare 140 miliardi di investimenti aggiunti al Sud. Abbiamo strumenti senza precedenti, a partire dalla fiscalità di vantaggio. Il compito delle amministrazioni pubbliche è migliorare la loro capacità di mettere a terra tutto questo. E per farlo c’è la necessità di reclutare giovani qualificati, nuove competenze che oggi mancano. Ma vorrei dire anche che devono essere le forze economiche, il mondo del lavoro, il Terzo settore, le associazioni, la società meridionale tutta ad impugnare questi strumenti, a spingere le amministrazioni ad ogni livello ad essere all’altezza dell’occasione storica che abbiamo di colmare il divario, e che non possiamo sprecare.

È il grande ritardo che dobbiamo colmare, e la scelta della rete unica deve darsi questa priorità, garantire l’accesso alla rete, un diritto alla connessione per spezzare l’isolamento di molti luoghi. È da lì che passa la differenza tra immaginare quelle aree come un piccolo mondo antico o invece come i luoghi in cui sperimentare nuovi modelli di organizzazione sociale e produttiva. La pandemia ci sta dicendo che abbiamo bisogno di uno sviluppo più diffuso, equilibrato, sostenibile. Noi abbiamo rafforzata la strategia nazionale per le Aree Interne, vogliamo trasformarla da una bella sperimentazione a una politica strutturale, per il reinsediamento abitativo e produttivo. Nelle aree già coinvolte, spesso, abbiamo visto buone pratiche, dalla telemedicina a servizi di prossimità, da imprese innovative a cooperative di comunità, che indicano una direzione per l’Italia tutta.

Non può e non deve rimanere una suggestione il fatto che il nuovo corso dell’Europa sia dedicato alle nuove generazioni. Così la nuova stagione di investimenti pubblici e privati che dobbiamo portare avanti in Italia, a partire dal Sud, non può che guardare ai giovani. La prima missione del Piano Sud 2030 è rivolta ai giovani, perché negli ultimi quindici anni ci stavamo privando di loro. L’emergenza era l’emigrazione, mentre gli stolti parlavano di invasione. I ragazzi del Sud devono avere la libertà, anche di andarsene se vogliono. Ma affinché sia vera libertà dobbiamo offrire anche l’opportunità di tornare e garantire il diritto a restare. Ecco perché servizi, a partire dalla scuola e dall’università, l’innovazione, a partire dal digitale, e soprattutto la sostenibilità, parlano al Sud e parlano ai giovani. In particolare sul tema della transizione ecologica, il Mezzogiorno mostra una grande vitalità imprenditoriale, rischia maggiormente gli effetti del cambiamento climatico ma presenta vantaggi competitivi notevoli. E poi, mi lasci dire, stiamo facendo debito: il modo migliore per iniziare a ripagarlo è offrire alle generazioni future un mondo più vivibile.

Io ho sempre detto, anche quando facevo responsabile lavoro del Pd, che il reddito di cittadinanza poteva funzionare sul fronte del sostegno al reddito e per dare un aiuto alle fasce più deboli della popolazione. Ma come strumento di politica attiva per la ricerca del lavoro, invece aveva chiari limiti e non avrebbe funzionato. Così è stato. E dunque, anche se non è nell’accordo di governo, credo sia giunto il momento di provare a migliorarlo. Il reddito di cittadinanza ha salvato dalla fame centinaia di migliaia di persone, questo non si può negare per pochi truffatori che vanno perseguiti. Partendo da questa premessa – migliorarlo, non cancellarlo – si può fare un buon lavoro. Sia sul fronte della lotta alla marginalità, dove credo vadano coinvolti Comuni e Terzo settore e riviste le condizionalità. Sia sul fronte delle politiche attive del lavoro, che vanno staccate dal reddito e potenziate, e soprattutto offrendo la possibilità, come accade in Germania, di integrare il reddito da lavoro per evitare che si rifiutino impieghi. Ma mi lasci dire che trovo vergognose, specie a sinistra, le parole di chi schernisce la misura con l’argomento le persone stanno «sul divano a guardare la televisione». È la testimonianza della distanza siderale dalla vita quotidiana di un pezzo di paese, sopraffatto dal bisogno e dall’angoscia del futuro, per un lavoro che non c’è o che è sfruttamento. Senza giustizia sociale, non ci può essere Ricostruzione.

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