C’è una guerra in atto in Europa che, oltre all’uso delle stesse armi, parla la stessa lingua. Per la precisione il russo e l’ucraino, lingue simili che hanno la stessa origine (lingue slave orientali) che qui assume un significato ben preciso cioè lingua come espressione del pensiero e del sentimento, nata nello stesso alveo storico-culturale. L’Ucraina è uno Stato indipendente dal 1991, nato dopo la dissoluzione dell’URSS, oggi Federazione Russa.
Sono le ore in cui il vocabolario delle due lingue è più povero non solo perché alcune parole impopolari vanno in disuso o diventano, in ogni caso, inutili in tempi di guerra, svuotate del significato, come se si volessero lasciare sospese, per un uso successivo, a guerra conclusa. E, per assurdo, i termini pace, pacifismo, sono i più usati, anche se meno funzionali. C’è da tener presente che l’uomo non si è mai fatto condizionare dalla lingua, essendone al contempo artefice ed utente, la sua forza dinamica dalle solide radici.
Era già accaduto nei Balcani, un campo di battaglia dalle caratteristiche simili, dove si parlava la stessa lingua e, com’ è noto, con conseguenze tragiche. L’odierno Stato della Bosnia-Erzegovina, composto da due entità federate – Repubblica Serba (Republika Srpska) e Federazione croato-musulmana (Federacija BiH), nasce nel 1995, dopo la dissoluzione della ex Jugoslavia e in seguito alla guerra del 1992-1995.
Con la creazione del nuovo Stato si è assistito alla formazione di nuove lingue letterarie, serbo, croato e bosniaco, in una sorta di secessione linguistica, nate dalla lingua comune – il serbo-croato, in cui la struttura non risulta cambiata, ma è cambiato lo «status politico dell’idioma», che comporta la diversa struttura dell’alfabeto e di altre forme di standardizzazione.
Un discorso questo, prettamente filologico al quale aggiungere un dato poco noto che riguarda la storia dei primi secoli dell’età cristiana, quando questi territori appartenevano all’Impero romano che aveva nel Danubio il limes settentrionale delle provincie balcaniche. Con le loro tecniche costruivano strade che consentivano di portare la civiltà romana a contatto con le genti che popolavano il mondo allora conosciuto.
A distanza di trent’anni tra le due guerre fratricide, si può notare una sostanziale differenza a livello della comunicazione che è oggi tecnologicamente molto più sofisticata e, quanto alla denominazione, tanto significativa, quanto forviante: l’una è guerra europea, l’altra balcanica, che sta a significare una guerra senza slogan.
Ora che assistiamo alla guerra Russia-Ucraina, una riflessione estemporanea, intima, della guerra vissuta in Bosnia degli anni Novanta del secolo scorso riemerge nitida e non ha bisogno di appunti, è iscritta nella memoria. Forse perché ho vissuto la guerra sotto le bombe il giorno dell’inizio dei bombardamenti, l’ho silenziata sul nascere.
La guerra vissuta nella città natia, da testimone diretta, fa capire all’istante che la guerra è sconfitta dell’umanità e che corrisponde al proprio fallimento. I sentimenti personalissimi hanno una funzione precisa nel momento in cui la morte si fa reale; senti il tempo appropriarsi anche del tuo corpo che reagisce a input esterni mai provati prima.
In generale, ogni cosa perde la priorità dall’essere considerata, incluse le proprie pene a cui si aggiungono quelle degli altri. Una rappresentazione in cui la condivisione del nostro momento coincide con il tempo della storia comune.
Era il 2 maggio 1992 a Bosanska Gradiška (oggi Gradiška), in Bosnia occidentale. Il giorno prima, il 1° maggio, con tutta la famiglia e gli amici eravamo riuniti per l’anniversario della morte di mio padre. C’era già un’aria tetra che invano cercavo di allontanare con l’aiuto delle zie, sorelle di mio padre che erano sempre di buon umore e tenevano stretti i legami famigliari.
Abbiamo sentito cadere le bombe sul ponte del fiume Sava, in prossimità della nostra casa, al quale un tempo si affidava ogni momento importante della vita, una specie di mantra tramandato. Dopo il ferimento del ponte, il popolo si era radunato per dire la sua e, convinto di pronunciare delle verità fondamentali, diceva che i bombardamenti sarebbero cessati, giudicando le ferite insignificanti anche se, di fatto, il ponte era già inagibile.
Io non sentivo il rumore dei passi del futuro, mi sono chiusa in me stessa, credevo che la cosa fosse dovuta ad un eccesso di pessimismo, che quei pensieri invece della forza mi infondessero insicurezza, senso di inadeguatezza.
Il motivo era da ricercare a monte, nella storia della mia famiglia dove storia era uguale a esperienza; mio nonno, partigiano, eroe nazionale, mio padre da ragazzo deportato a Dachau e poi ai lavori forzati, mia madre, la stessa sorte. Altri parenti morti e scomparsi in guerra; racconti di atrocità con occhi lucidi e tremore, a colazione, pranzo e cena.
Mio padre, per non ferire, usava un tatto particolare in quelle disquisizioni; era solo per ricordare, ci diceva, perché c’è un dopo e la Vita è avanti, basta agguantarla.
È una delle ragioni per cui la guerra che stavo vivendo mi è da subito apparsa un esperienza abnorme in cui le emozioni non dovevano in nessun modo prevalere nel descrivere quello che vedevo.
Per prima cosa si comprende all’istante che la guerra fratricida sconfessa la lingua e tocca quel pudore inconscio che ha protetto l’umanità intera proteggendo l’umanità di ognuno e che d’un tratto si scontra con interessi politico-statuali del tutto estranei.
Pudore che per tre decenni ho trattenuto, pretendendo che si prolungasse fin nel mio presente, convinta che nulla di un vissuto cade in prescrizione, tantomeno una guerra, o, per essere ipocriti, un laboratorio di guerra del tutto nuovo, almeno per quanto riguarda la storia contemporanea.
Ora che di nuovo si leggono epigrafi sulle tombe di poveri caduti in guerra, il senso della vita si è rimesso in discussione e quella fedele memoria appuntata solo nel ricordo, ritorna come un proiettile conficcato nelle carni, alla ricerca delle persone che sapevo non avrei rivisto più.
Mi sono chiesta se in quell’addio di fortunosa fuga dalla guerra e il ritorno in Italia, in cui si cingeva l’intera esistenza del mio mondo, la mia gratitudine avesse raggiunto sia i vivi che i morti. Senso della pietas e invocazione a Dio santo e ai Saperi acquisiti. Poi, reinterpretazione della Poesia che parla delle cose generiche e che, dicevo io, esce dalle feritoie.
Sono solo schegge di versi scarni per non interrompere la catena aurea.
Un anatema -/ tutto è piatto nella/ piana degli stolti/ che non ricordano/ la via dei tigli/ né rammentano/ la Colchide degli Argonauti./ Mi addosso le loro colpe,/ mi sdraio accanto a me/ e non mi scorgo, nella disperazione,/ alcuna differenza fra noi.
Per chi vive la guerra fratricida, la più atroce tra le guerre civili, il pensiero lucano insegna che non celebra la vittoria perché il popolo che si combatte non è straniero.
Mi rendo conto che era un affannoso tentativo di salvare quella che considero l’identità di confine di Bosanska Gradiška, come di altri luoghi in ogni dove, perché pure io «ero stata allevata nell’amore per Noi tutti gli Slavi», come dice Joseph Roth, scrittore-soldato della Prima guerra mondiale.
La guerra è una delle insensatezze più deplorevoli perché impone una narrazione a confronto tra nemici e si fregia di una regola non scritta che sottintende che, colui che si sottrae è ugualmente schierato.
La domanda, quanto lecita tanto banale, è sulla bocca di tutti, un passa parola bisbigliato a mo’ di preghiera che si ripete all’unisono: l’umanità sarà mai in grado di riformulare questo senso delle cose? E poi, riusciranno i popoli, quelli che sono rimasti chiusi nel recinto balcanico, ad ottenere la cittadinanza europea e chi deve sciogliere la matassa prima che il filo si perda?
Delle guerre sanguinose quello che resta nella storia oltre ai morti che si dimenticano, oltre agli eroi che si commemorano, sono la toponomastica dei luoghi e le date delle battaglie più cruenti.
Una cosa è certa, in nessun posto c’è tanta speranza come in una guerra, anche quella più temibile, quale la guerra fratricida, come quella del 1992, iniziata il 2 maggio a Bosanska Gradiška che da quel giorno è stata ribattezzata col nome Gradiška, un insulto per gli abitanti e il primo segno che la globalizzazione era arrivata alle porte anche della provincia balcanica.
Quel giorno, tra la gente ho udito ripetere una frase che conoscevo, ma sembrò veritiera e nello stesso tempo fuori luogo per il contesto tragico, che diceva: «La Storia è il luogo in cui si sa chi era giusto e chi non lo era».
Una citazione, questa, del Premio Nobel Ivo Andrić, e per un attimo mi ha fatto pensare che il popolo fosse colto per aver letto i romanzi dello scrittore, sapevo, invece, che il popolo era saggio per aver tramandato i miti fondanti che non perdono il loro potere nemmeno in guerra.