Ha vinto Macron, e adesso?

Thierry Vissol

Emmanuel Macron è stato eletto per un secondo mandato presidenziale con il 58,54% dei voti espressi, superando le previsioni degli ultimi sondaggi, che prevedevano una vittoria più tenue tra il 52 e il 57%. Questo fu un sollievo per gli europei (almeno quelli a favore della costruzione europea), ma una vittoria di Pirro per i francesi. In effetti, leggere questo risultato richiede una grande cautela nell’analisi delle conseguenze che il voto potrebbe avere sulla governabilità della Francia a breve e medio termine e sulla capacità del presidente di attuare il suo programma, in particolare in materia europea.

Analisi dei risultati elettorali
Bisogna ricordare che nell’ordine costituzionale francese il presidente della Repubblica è, principalmente, responsabile della politica estera e capo delle forze armate, ma non della politica interna, che è di competenza del Primo Ministro e del Parlamento. Di conseguenza, la capacità del presidente di influenzare o addirittura dirigere la politica interna – che è già di per sé un abuso costituzionale – dipenderà dalla sua maggioranza sia nell’Assemblea nazionale e nel Senato.

Il Senato, attualmente con una maggioranza di destra moderata, sarà rinnovato nel 2023, con delle elezioni indirette. Il collegio elettorale è composto dai membri di entrambe le camere, dagli eletti regionali e dipartimentali e dai delegati degli eletti locali.

Gli eletti regionali, dipartimentali e locali sono stati eletti nel 2021 e non saranno rinnovati fino al 2028. Nonostante un tasso di astensione molto alto (circa il 66%), la composizione politica di quest’ultimo è piuttosto tradizionale con una maggioranza di destra moderata (circa il 44%), una forte presenza di sinistra moderata (circa il 36%), un centro debole (circa il 17%) e partiti estremisti di destra o sinistra marginali. È quindi probabile che la composizione del Senato non sarà molto diversa da quella attuale e non darà al presidente una maggioranza. Questo rappresenterà un primo ostacolo. Infatti, le leggi devono essere approvate per consenso dalle due camere. È previsto un processo di navetta per raggiungere un compromesso sugli articoli contestati dall’una o dall’altra assemblea, anche se alla fine, in caso di disaccordo non negoziabile, il governo può avere l’ultima parola all’Assemblea nazionale.

Le elezioni legislative, basate su un sistema uninominale a due turni, dovrebbero svolgersi il 12 e il 19 giugno 2022 e determineranno la composizione dell’Assemblea nazionale.

Il partito di Emmanuel Macron, La République en Marche (LREM), e i suoi alleati centristi (Modem e UDI) hanno attualmente la maggioranza assoluta. Quelli di Jean-Luc Mélenchon (La France Insoumise) e di Marine Le Pen (Rassemblement National) sono marginali, con 17 e 8 deputati rispettivamente.

Il presidente, che ha il potere di sciogliere l’Assemblea, potrebbe decidere di anticipare queste elezioni per approfittare dello slancio dato dalle elezioni presidenziali. Ma è improbabile che lo faccia, perché questo sarebbe considerato da tutte le opposizioni come una provocazione. Una tale decisione potrebbe quindi ritorcersi contro. È chiaro che, visti i risultati del primo e del secondo turno delle elezioni presidenziali, la composizione dell’Assemblea sarà molto diversa, anche se il sistema di voto tende sempre a sfavorire gli estremi. In caso di pareggio tra un rappresentante di un partito moderato e un rappresentante di un partito estremista, lo «sbarramento repubblicano», anche se limitato, entrerà di nuovo in gioco.

Di conseguenza, si possono trarre tre lezioni principali da queste elezioni.

La tripartizione politica della Francia e il peso degli estremi
La prima lezione delle elezioni presidenziali è la tripartizione politica con una forte polarizzazione e acrimonia tra questi tre assi. Sulla base del numero totale degli elettori iscritti nelle liste elettorali, i partiti tradizionali moderati rappresentano poco più di un quarto dell’elettorato (28,11%), equivalente al numero degli astensionisti e di coloro che hanno votato in bianco o non valido (27,94%). La destra radicale rappresenta un quarto (25,54%); l’estrema sinistra meno di un quinto. Se è molto improbabile che, come desidera il suo presidente Jean-Luc Mélenchon, Les Insoumis ottengano una maggioranza parlamentare, anche relativa, è anche improbabile che l’attuale coalizione macronista ottenga una maggioranza assoluta. Il presidente e il suo primo ministro saranno costretti a fare concessioni ed è improbabile che riescano a far rispettare la parte economicamente più liberale del programma del presidente.


Euroscetticismo in maggioranza
La seconda lezione è legata alle aspettative delle istituzioni europee e di molti dei paesi membri dell’UE, l’Italia in primo luogo, di un forte rilancio della costruzione europea verso l’indipendenza geopolitica e un’Europa della difesa. In effetti, se si leggono i programmi di tutti i candidati al primo turno, l’euroscetticismo è particolarmente alto, molto più alto di quello che mostrano di solito i sondaggi. Tutti i partiti estremisti (compreso il Partito Comunista, che ha ottenuto l’1,65% dei voti) vi si oppongono. La RN e i suoi alleati mirano a un’alleanza strategica con la Russia, gli Insoumis sono a favore del disarmo. Come gli ungheresi e i Polacchi e una grande minoranza in Germania, la RN e gli Insoumis considerano che la Costituzione francese dovrebbe essere superiore alla legislazione europea. In totale, il 42,3% degli elettori ha votato per i partiti euroscettici e solo il 29,8% per i partiti eurofili.

D’altra parte, è possibile che questi partiti sostengano, da un lato, le politiche volte a riconquistare la sovranità economica e industriale francese, prima, poi quella europea, e, dall’altro, qualsiasi proposta volta a limitare i controlli europei sulle politiche nazionali di bilancio (fiscal compact e altre).

L’odio per il presidente Macron e per le élite
La terza lezione, e non la meno importante, è la scarsa simpatia – per usare un eufemismo – di molti francesi verso la personalità di Macron e le sue pseudo alleanze con «l’oligarchia capitalista e finanziaria». Anche qui, l’analisi dei risultati del primo e del secondo turno rivela la rabbia e persino l’odio di molti nei suoi confronti. Alla fine del primo turno, il voto potenziale a favore di Macron (dei partiti che hanno annunciato il loro sostegno) ammontava a 13,7 milioni di elettori, ovvero il 23,3% degli iscritti. Ha ottenuto il sostegno di 18,8 milioni di persone. Ciò significa che 5,1 milioni, o il 10,4% degli elettori registrati, hanno votato per lui, non per sostenere il suo programma, ma per fermare Marine Le Pen. Inoltre, rispetto al 2017, ha perso quasi 2 milioni di elettori.

Marine Le Pen, dopo il primo turno aveva un potenziale di 11,3 milioni di voti, ne ha ottenuti 13,7 milioni, cioè 2,4 milioni in più che rappresentano il 4,7% degli elettori registrati. La maggioranza di questi ultimi ha votato per bloccare Macron piuttosto che per sostenere le sue idee, il che mette in dubbio l’idea che l’estrema destra abbia avuto un «grande successo». Tuttavia, il suo guadagno netto rispetto al 2017 è inequivocabile: aveva ottenuto il sostegno di 10,6 milioni di elettori, senza i voti di sbarramento. Ora arriva, nel 2022, a 11,3 milioni (+ 6,6%), che era il suo potenziale di partenza.

Infine, al primo turno il tasso di astensione è stato del 26,3%, ma le schede bianche e non valide hanno rappresentato solo l’1,63%. Cioè sono 13,6 milioni gli elettori che si sono rifiutati di votare per uno o l’altro dei 12 candidati. Nel secondo turno, mentre il numero di astensionisti è aumentato leggermente (28,0%), il numero di schede bianche e non valide è quasi quadruplicato (6,2%). Ciò significa che 3,1 milioni di elettori in più hanno rifiutato di votare per uno dei due candidati, seguendo le istruzioni di Mélenchon.

Queste differenze tra il primo e il secondo turno, e rispetto al 2017, misurano in gran parte il risentimento di un gran numero di francesi verso il presidente uscente e le élite che è accusato di rappresentare. I commenti degli elettori o dei membri dei partiti estremisti durante tutta la sua presidenza, in particolare dopo i movimenti dei Gilets jaunes, lo testimoniano. Questa mancanza di empatia non è solo dovuta alla critica delle sue politiche sociali, ma deriva dall’immagine di arroganza che la sua padronanza delle questioni e la sua franchezza nel modo in cui sembra dare lezioni a coloro che non hanno le stesse capacità o conoscenze. L’arroganza della ragione e lo scontro con la realtà contro l’emozione dei sogni utopici proposti dai suoi avversari. Una caratteristica attuale della politica, e non solo in Francia.

E adesso?
Il presidente eletto è ben consapevole di tutte queste difficoltà, prima fra tutte della rabbia che sta crescendo e rischia di rendere molto difficile il suo secondo mandato. Nel suo discorso di vittoria ha riconosciuto la validità di questa rabbia, che deve trovare risposte efficaci. Ha affermato che nessuno deve essere lasciato indietro. Ha anche impedito ai suoi simpatizzanti di fischiare coloro che avevano votato per la sua rivale. Cercando di disinnescare la sua immagine altezzosa e arrogante, ha detto che la sua presidenza sarebbe stata ispirata dalla gentilezza e dal rispetto. Non ha esitato a riconoscere che la sua vittoria era in parte dovuta allo «sbarramento repubblicano» e ha assicurato che questo voto lo obbligava a rispettare le idee di coloro che avevano deciso di votarlo anche solo per questo motivo. È quindi probabile che se otterrà una maggioranza (anche di coalizione) alle elezioni legislative, le sue prime misure saranno misure sociali per combattere l’aumento dei prezzi, migliorare il potere d’acquisto, e delle misure territoriali per combattere la desertificazione amministrativa rurale e migliorare i trasporti locali e regionali.

Per quanto riguarda l’Unione europea, questa dimensione è stata centrale nel 2017 sia nella sua campagna sia nel suo discorso di vittoria alla Piramide del Louvre, al suono dell’Inno alla gioia. Anche se è il presidente del Consiglio dell’Unione europea nella prima metà del 2022, questo tema è stato molto meno sviluppato durante la sua campagna per associarlo alla «grandezza della Francia e dei suoi valori». E nel suo discorso della vittoria, è stato solo sfiorato. Se l’Inno alla gioia ha accompagnato il suo arrivo con la moglie al Campo di Marte, la sua esecuzione e la sua teatralità erano ben lungi dall’essere paragonabili a quelle del 2017 e all’emozione della Marsigliese cantata a cappella alla fine del suo discorso da Farrah El Dibany, un mezzo soprano egiziano dell’Opera di Parigi.

Infine, la scelta del Campo di Marte per celebrare la sua vittoria è anche simbolica. Da un lato, il suo nome simboleggia il dio della guerra in questo periodo di «ritorno del tragico». D’altra parte, è su questa piazza, creata alla fine del Settecento, che si è svolta la Festa della Federazione, intorno a un «altare della Patria». Una grande festa rivoluzionaria il 14 luglio 1790, per celebrare il corpo unito della nazione «una e indivisibile».

Nel 1794, il pittore Jacques-Louis David organizzò la Festa dell’Essere Supremo intorno a una roccia artificiale in cima alla quale si trovava l’Albero della Libertà, simbolo dell’unità e del sostegno della nazione alla rivoluzione. È questo Albero della Libertà che è riprodotto sulle monete da 1 e 2 euro, inserito in un esagono (che simboleggia la Francia) accompagnato dal motto «liberté, égalité, fraternité», i valori democratici della Francia che il presidente appena rieletto si vanta di voler rappresentare.

Se, come ha riconosciuto Macron alla fine del suo discorso, citando, en passant, la guerra in Ucraina, i prossimi anni saranno tutt’altro che tranquilli, non lo saranno né per la Francia né per l’Unione.

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