I referendum, prova di forza calcolata

La raccolta delle firme per il referendum sullo ius scholae ha spinto a considerare questo successo come il segno del risveglio della società civile contro l’ordine che ha in mente la destra al governo. Senza dubbio si tratta di un segnale che va raccolto, ma oggi appare più una speranza o un desiderio che un’analisi della funzione che il referendum può svolgere nella contesa politica. Trovate le firme occorre attendere la convalida da parte della Cassazione. Poi occorrerà la dichiarazione di ammissibilità del referendum da parte della Corte costituzionale. Infine, nel caso si arrivasse al voto, si tratterà di vedere se si raggiungerà il quorum e come voteranno i cittadini. Ci vuole cautela nell’indicare l’attivazione della società civile come molla del risultato, anche se secondo alcuni esperti l’abbinamento del referendum sullo ius scholae (più firmato al nord) e quello sull’autonomia (più sostenuto al sud) potrebbero favorire una buona partecipazione al voto.

Il valore politico del referendum sembra legato a una ragione interna alla competizione politica: le forze politiche che non si riconoscono nel governo per la prima volta sono riuscite a imporre il proprio conflitto di riferimento come dominante. In virtù di questa mossa sono riuscite a far passare la narrazione di una società che vuole cambiare, potenziando la cittadinanza e i diritti. È una concezione che contraddice il populismo della destra. Nella relazione carismatica con il leader, immaginata dalla destra, la cittadinanza viene in parte svuotata perché è il leader il depositario della volontà popolare. I referendum, quindi, possono rivelarsi un’arma efficace per mettere in difficoltà la premier. Possono marcare il disallineamento della destra con il sentimento prevalente nel Paese su un tema cruciale come i diritti. Ribaltano la concezione del rapporto leader-cittadini a favore dei secondi. Infine, la mobilitazione può spingere gli elettori di centrosinistra a riconoscersi come una coalizione, a privilegiare questa logica più che dividersi nella competizione tra leader e partiti alleati. Si tratterebbe di un effetto in controtendenza rispetto alla distinzione perseguita soprattutto (ma non solo) da Conte e dal M5S, che mette a rischio il campo largo.


Nel 1960 il politologo americano Eric Schattschneider, in un libro importante The semi-sovereign people, ha spiegato che la competizione politica ha al suo centro un «conflitto tra conflitti», in cui vince chi riesce ad imporre il proprio conflitto di riferimento. Per lo studioso la società è caratterizzata da un equilibrio tra gruppi di interessi e di potere, la democrazia è una questione di governo attraverso il conflitto tra questi gruppi. Oggi possiamo osservare che  a questo quadro è connesso il conflitto tra narrazioni della realtà sociale. Se prendiamo a riferimento la tesi di Schattschneider, possiamo osservare che finora è stata la Meloni a imporre il proprio conflitto. Per la premier l’oggetto del suo conflitto è la realizzazione di un ordine populista e securtario, centrato sul disciplinamento gerarchico, verticale della società, che garantisce l’identificazione di nemici (sui quali scaricare ogni colpa) e il tentativo di una egemonia culturale, ottenuta occupando istituzioni e Rai. Alcune conseguenze politiche sono il controllo duro dell’immigrazione, la difesa dei ceti di riferimento attraverso un fisco benevolo, la crescita delle diseguaglianze, l’ostracismo della sinistra.

Contro questa offensiva politica e comunicativa, l’area progressista è riuscita a sollevare questioni sentite dall’opinione pubblica, come la sanità o il salario minimo. Ma finora non ha compiuto il salto di qualità: porre come centrale il proprio conflitto di riferimento, che verte attorno alle ingiustizie sociali e ai diritti. La novità del referendum sulla cittadinanza, e di quello sull’autonomia differenziata, è che stavolta le opposizioni possono riuscirci. Se nella primavera del prossimo anno si voterà, il centrosinistra avrà costretto la Meloni a misurarsi con una sfida che non vuole e che potrebbe perdere. Prenderebbe corpo anche una narrazione del Paese differente da quella ottimistica della premier. Si tratta di un racconto che insiste meno sull’ambiguità del sovranismo post-fascista (che tuttavia c’è) e molto di più sui temi. Per una volta il centrosinistra assumerebbe l’iniziativa e detterebbe l’agenda del Paese. Sarebbe lo sfidante. Questo non significa che la partita sia conclusa: c’è un lavoro da compiere per  vincerla.


Il primo problema che il centrosinistra ha di fronte è strutturare il conflitto che sono riusciti a imporre. Occorre dare coerenza e stabilità ai fini ideali dei referendum, si deve rendere visibile la materia del confronto con la parte avversa, si devono mobilitare cittadini e associazioni portandoli a votare, servirebbe una organizzazione in cui partiti, sindacati cittadini agiscono di concerto. Il conflitto, del resto, presuppone una società divisa in alleanze avversarie, che sono portatrici di interessi e soprattutto di visioni del futuro alternative. Questo lavoro è fondamentale per conferire identità all’area progressista. Inoltre, creerebbe le condizioni affinché l’oggetto dello scontro persista nel tempo: sarebbe radicato nei bisogni, nelle strutture sociali, nei valori. Ma per compiere questo lavoro, il fronte progressista dovrebbe convergere; invece, è sottoposto a continue spinte centrifughe. È un ostacolo che mette a rischio il risultato.

C’è poi da considerare che la società atomizzata ha assistito all’insorgere di un fenomeno contraddittorio: da anni avvengono esplosioni di rabbia rivendicativa, ma nello stesso tempo declina la dimensione della lotta organizzata. La crisi delle identità collettive ha fatto emergere una serie di antagonismi che si potrebbero definire privati in contrasto tra di loro. Un vuoto che ha dato spazio alla rabbia sociale, come scrive il professore Invernizi-Accetti nel suo importante libro Vent’anni di rabbia, caratterizzata da «spontaneismo orizzontale e caotico». La rabbia è cieca: ha mobilitato velocemente molte persone, ma per un periodo limitato di tempo e senza indicare obiettivi collettivi. Anzi alcuni movimenti, come i gilet gialli in Francia, «rifiutavano esplicitamente la rappresentanza politica». A causa di questa frammentazione, il centrosinistra e il Pd, partito maggiore, hanno la responsabilità di delineare una soggettività politica, un ideale di cambiamento, che facilitino l’aggregazione e la partecipazione. Si tratta di utilizzare i referendum per  trasformare un movimento di opinione ancora fluido, poco organico, ma consistente, in un movimento politico riconoscibile. Non tutti i leader dell’opposizione però lavorano in questa direzione.


Il secondo problema dell’opposizione, dunque, è riuscire a canalizzare il conflitto verso una soluzione politica condivisa. Il contesto sociale non aiuta. La rabbia è conseguenza della crisi dei gruppi sociali organizzati, della frammentazione delle identità collettive oltre che del mancato riconoscimento sociale. Il filosofo di origini coreane Byung-Chul Han ha descritto la società moderna come un insieme di «sciami», vale a dire di individui isolati, autoreferenziali, poco propensi a impegnarsi in un lavoro collettivo, che si aggregano in modo «disorganico». In questo quadro, il centrosinistra si trova a dover mettere a segno la difficile operazione di indirizzare il movimento referendario verso la sfera elettorale. Di imprimergli la forma di una  proposta politica e istituzionale cui partecipano persone con orientamenti differenti. Ma le fratture che emergono nel campo largo sono un vincolo.

Il conflitto, tuttavia, offre anche delle opportunità. Intanto apre la possibilità di ottenere un riconoscimento sociale alle diverse parti in causa e dignità individuale alle persone. Nel mondo contemporaneo, segnato da un proliferare di antagonismi, gli individui sentono acuirsi il senso di solitudine, mancano di punti di riferimento certi. Prevale una insicurezza dovuta alla moltiplicazione di minacce percepite, che giungono da ogni parte. In queste condizioni, è difficile comprendere il senso del proprio ruolo. La partecipazione a una battaglia comune può consentire alle persone di vedersi riconosciuto un ruolo e di recuperare il significato del proprio agire.

Le forze politiche progressiste, invece, avrebbero l’occasione di offrire una leadership rinnovata. Possono rappresentare nelle istituzioni queste domande. Possono sottoporre i problemi all’attenzione dell’opinione pubblica e chiedere una riforma delle leggi. La base referendaria potrebbe riconoscersi come una coalizione plurale tra diversi. La logica che dovrebbe prevalere è la ricerca di coesione e di dialogo, del gioco di squadra in vista di un fine comune. A destra, nonostante le divisioni interne, alla fine l’accordo prevale.


L’area progressista si scontra con una difficoltà di fondo che riduce le impedisce di vincere: la competizione sembra più rivolta all’interno della alleanza che all’esterno, contro la destra. Le vicende delle nomine Rai e della lista in Liguria hanno messo in evidenza che l’offerta politica del centrosinistra è diversificata al massimo. In alcuni leader, soprattutto Giuseppe Conte, prevale la strategia della distinzione, che impedisce il nascere di uno spirito di coalizione. Ma partiti e leader devono misurarsi con l’interpretazione che gli elettori danno dello spazio della competizione. La raccolta delle firme ha consentito ai cittadini di sperimentare la forza risolutrice della coalizione rispetto a quella del singolo partito. Incoraggiati da questa dinamica, gli elettori potrebbero dissuadere i leader dal perseguire proprie strategie di visibilità e potere sul mercato elettorale, che creano divisioni. La Schlein avrebbe l’opportunità di investire sull’immagine di rappresentante dell’istanza di unità nella diversità, immagine che probabilmente l’ha premiata alle elezioni europee. Ma la segretaria del Pd fatica a utilizzare il potere coalizionale che le deriva dall’essere il partito più grande.

I referendum potrebbero consentire un processo di costruzione dal basso di un programma comune, che fa leva sui cittadini e che contrasta le spinte centrifughe nel campo largo. Il professor Ilvo Diamanti ha di recente pubblicato sul quotidiano Repubblica i risultati di una indagine in cui solo nel Pd la maggioranza degli elettori è favorevole al campo largo. Ma i referendum e il loro eventuale successo potrebbero far maturare un’opinione differente. Bisogna tenere presente che i fattori istituzionali (compresa la legge elettorale) influiscono sulla percezione del funzionamento del sistema politico da parte degli elettori. Incidono sul sistema di credenze degli individui. Non a caso alle ultime politiche si è parlato, da parte degli studiosi, di un ritorno del bipolarismo da parte dell’elettorato. Presto si voterà in Liguria, Emilia-Romagna e Umbria poi forse seguiranno i referendum: tutte prove elettorali nelle quali il centrosinistra potrebbe muoversi come uno schieramento di alleati, consolidando negli elettori un’interpretazione coalizionale della competizione.

Infine, i referendum hanno il merito di evocare il ruolo attivo dei cittadini nelle scelte del Paese, riconoscendo loro un allargamento dei diritti e non riducendoli a destinatari manipolabili dell’operato del governo. Una scelta che contribuisce a definire la posta in gioco. La destra populista è schiacciata sulla leader, unica interprete autorizzata della presunta volontà del popolo, che per questo tende a escludere una parte della società. Al contrario il centrosinistra può restituire potere agli elettori, includendo più persone possibili. Ha scritto la professoressa Nadia Urbinati nel libro Pochi contro molti che i conflitti si possono considerare «prove di forza calcolate». I referendum possono essere la prova di forza calcolata per far risaltare la divaricazione tra una parte (maggioritaria?) del Paese e la destra al governo. Se così fosse, il giudizio degli elettori potrebbe tornare a investire sulla coalizione. Sarebbe difficile per i partiti non tenerne conto.

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