Il Berlinguer di Andrea Segre senza retorica e santificazioni. Umano, serio e popolare

Giorgio Simonelli

Dunque, nonostante i tentativi del ministro Sangiuliano prima e di Giuli poi, continua l’egemonia culturale della sinistra, anzi dei comunisti. Così ci dice il box office del cinema italiano che vede il Berlinguer di Andrea Segre addirittura sul podio dei maggiori incassi nel fine settimana. Lo hanno già visto più di un milione di spettatori in una settimana in cui non mancava la concorrenza, visto il grande successo del film di Paolo Sorrentino, Parthenope.

Ovviamente scherzo a proposito dell’egemonia culturale, ma non troppo. Perché, quando ascolto le lamentele della destra sull’egemonia culturale (qualcuno l’ha definita una dittatura) della sinistra che tanti problemi ha creato allo sviluppo della società italiana e ha dato spazio ad artisti immeritevoli di tanta fama e successo, mi viene in mente un’immagine, celebre come fotografia, ma che è anche un’inquadratura ripresa nel film di Segre: un’immagine dei funerali di Berlinguer. La bara del segretario del PCI è ancora a Botteghe Oscure dove migliaia di italiani gli rendono omaggio. Nel buio della notte a fargli da corona in quello che enfaticamente i dirigenti del partito definirono picchetto d’onore appaiono alcuni artisti complici e succubi di quella dittatura: sono Federico Fellini, Citto Maselli, Ettore Scola, Marcello Mastroianni, un po’ più indietro Monica Vitti e Michelangelo Antonioni.

La visione di quell’immagine ci dice, sul delicato tema dell’egemonia culturale, molto più di tante chiacchiere proposte negli ultimi tempi.

Il cinema ha sempre amato Berlinguer: gli ha detto esplicitamente «ti voglio bene», Giuseppe Bertolucci tramite i monologhi del Cioni quando Enrico era ancora vivo e impegnato. Poi, dopo la sua morte, c’è stata la lunga serie dei documentari rievocativi, quello di Walter Veltroni, di Michele Mellara e Alessandro Rossi, quello più recente di Samuele Rossi. Non è dunque forse un caso che all’inizio del racconto di Segre ci sia proprio il cinema.

Siamo a Sofia nell’autunno del 1973 e Berlinguer ha appena avuto uno scontro dialettico molto deciso con il segretario del partito comunista bulgaro ed è in auto su quella famosa autostrada dove avverrà lo strano incidente di cui subito si capisce la natura di attentato. Ma si viaggia ancora tranquilli e il vicesegretario bulgaro, che a differenza del suo superiore ha una certa simpatia per la linea eurocomunista, confessa a Berlinguer tutta la sua ammirazione per l’Italia, in particolare per il cinema italiano, soprattutto per Federico Fellini che vorrebbe conoscere. Glielo saluterò, promette Berlinguer, con il garbo che caratterizza ogni sua comunicazione.

Poi il discorso sul cinema lascia spazio a temi assai più complicati. Le linee su cui si sviluppa la narrazione di Segre sono diverse. C’è quella dell’eurocomunismo, della scelta berlingueriana di un progressivo, non traumatico ma deciso distacco da Mosca rappresentata nel film con misura, precisione senza ricorrere a toni esasperati, senza cadere nei cliché, anche nelle fasi più rischiose (per Berlinguer ma anche per Segre), quelle della ricostruzione del Congresso di Mosca dove non c’è solo Germano che deve impersonare Berlinguer (e, come si sa, lo fa benissimo) ma c’è anche chi deve impersonare Breznev. E alla fine tutto è decisamente credibile.

Poi c’è la linea della politica interna, l’intuizione dell’alleanza imprescindibile con i cattolici, maturata da Berlinguer in seguito al trauma del golpe cileno e portata avanti tra mille difficoltà: il referendum sul divorzio, lo scetticismo di molti militanti e di alcuni dirigenti di grande autorevolezza e prestigio, la grande vittoria alle amministrative del 1975, l’ostilità del governo USA e l’inaffidabilità di alcuni politici democristiani, il terrorismo nero e quello nascente brigatista, il gioco a scacchi delicato ma leale con Aldo Moro, fino alla morte tragica del leader democristiano che segna la fine del progetto di Berlinguer e del racconto di Segre.

Infine, c’è il Berlinguer privato, il rapporto affettuoso con la moglie, la semplicità della vita domestica, le discussioni con il figlio e le figlie non proprio favorevoli, come tanti giovani in quegli anni, al compromesso storico, il legame con la Sardegna, con il suo mare e la navigazione, metafora del difficile percorso politico.

Come si accennava sopra, Segre è riuscito a evitare i rischi più grossi in un lavoro assai difficile. Ha evitato retorica e nostalgia, giudizi sommari, santificazioni e populismo di sinistra, ma soprattutto non è caduto nella trappola di quella che si definiva un tempo noschesizzazione, citando il più famoso degli imitatori televisivi, oggi si potrebbe dire crozzizzazione. Non c’è nella messa in scena, la ricerca della somiglianza tra gli interpreti e i personaggi della politica. Lo stesso lodatissimo, a giusta ragione, Germano riproduce la voce, il tono, il ritmo, l’accento sassarese, la postura, la gestualità ma non cede alla tentazione dei trucchi che trasformano il volto.

Per gli altri protagonisti, Ingrao, Moro, Cossutta la vicinanza all’originale è ancor meno cercata. La riconoscibilità è affidata alla didascalia. Ed è molto più saggio così.

L’ultimo ostacolo per la riuscita del lavoro era rappresentato dall’alternarsi di immagini di finzione e immagini di documentazione, un’alternanza che spesso risulta stridente. Qui non accade: c’è nel passaggio tra le due realtà una certa fluidità, un’armonia, qualche soluzione inaspettata come la Tribuna politica televisiva tutta ricostruita con attori, non poche soluzioni originali di montaggio più poetico che informativo delle immagini di repertorio. E quelle che scorrono sulle note dell’Internazionale, in contrasto con il contesto ufficiale e burocratico del Congresso sovietico, lasciano non pochi brividi di commozione.

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