Finalmente, dopo tanto tempo, ieri sera, nella notte rinnovata di San Siro, ho ripreso ad emozionarmi per una partita del football moderno. Un match antico, tra gol ed errori, follia e fantasia, furore e fuoco: come accadeva una volta, quando il pallone rappresentava il regno di tutte le meraviglie del possibile e dell’impossibile.
Inter-Juve 4-4, il breriano Derby d’Italia, trasmesso in mondovisione, ha mostrato il volto nascosto di un evento agonistico che aveva perso il proprio fascino, stordito da differenze di valori tecnici ed economiche, dal marketing, lo ripeto spesso, che ha sostituito il dribbling, con disfide noiose, senza anima e senza qualità. Sono ritornato alla mia infanzia brasiliana: dove segnare era la missione, tecnica e filosofica; dove Garrincha e Pelé, Vavá e il giovane Altafini rinominato «Mazzola» rappresentavano i sacerdoti di quel rito magico, di quel futebol in poesia narrato da Pier Paolo Pasolini, ala destra per passione e vocazione.
Poi, in Italia Riva e Anastasi, Pulici e Boninsegna, Chinaglia e Pruzzo, fino al realismo magico di Pablito Rossi e ai fasti epici di Maradona, D10S.
Ieri, sono stati messi da parte, almeno per una volta, per carità, i fautori dello 0-0 come risultato perfetto, vedi alle voci Gianni Brera e Arrigo Sacchi. Ma io ho sempre fatto parte di un’altra corrente di pensiero: quella scapigliata e rivoluzionaria nel nome dello spettacolo puro e della fantasia ribelle; insomma, miei prodi, andate e segnate!
Ho ammirato giocatori di lotta e istinto, arrembanti salgariani delle aree avversarie: Mkhitaryan e il Thuram nerazzurro, il padrone della finta e controfinta Conceição e il travolgente turco Yildiz, entrato sul prato verde («la quiete e l’avventura») al 17’ della ripresa per miracolo mostrare. Oh sì, esclamerebbero in Gran Giôann e il mio amato poeta «delle cose che potevano essere e non sono state», Guido Gozzano: «Calcio, mistero senza fine bello!».
Ecco: non fatemi più tornare sulla terra agra, percorrete tutti questa strada della follia e del divertimento. Perché, come scriveva il maestro Eduardo Galeano, «Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo con il cappello in mano, e negli stadi supplico: “Una bella giocata, per l’amor di Dio”. E quando il buon calcio si manifesta, rendo grazie per il miracolo e non mi importa un fico secco di quale sia il club o il paese che me lo offre».