Il dentro e il fuori delle città dopo la tempesta del Covid

Edoardo Zanchini

Questi mesi di quarantena hanno aperto uno squarcio di luce sull’interno delle case degli italiani – raccontate dalle telecamere di smartphone e computer per lezioni scolastiche, webinar e riunioni di lavoro – e al contempo sugli spazi delle città improvvisamente senza traffico, rumori e inquinamento. Non dobbiamo dimenticarcelo ora che siamo nella Fase 2, come se dovessimo ritornare a quella apparente normalità a cui eravamo abituati prima della pandemia. A questi due estremi dobbiamo tornare a guardare con attenzione, ai vuoti e i pieni della città a cui troppa poca attenzione abbiamo dedicato negli ultimi decenni. Quando abbiamo rinunciato a immaginare una convivenza con la natura e a progettare spazi che non fossero solo per parcheggiare automobili e a garantire un’idea di modernità fatta di asfalto, cemento, cartelli e neon. Ma anche quando abbiamo rinunciato a guardare dentro gli spazi costruiti, per capire come restituire dignità e funzionalità alle «macchine per abitare», come si diceva una volta, nel periodo in cui di questi temi il mondo dell’architettura si occupava davvero con progetti visionari e concreti di cambiamento.

In queste settimane abbiamo visto dentro le case degli italiani e assistito a storie terribili di ingiustizie e tragedie domestiche, legate a spazi troppo piccoli e angusti per convivenze multiple e obbligate, dove per tanti ragazzi risultava impossibile seguire le lezioni per mancanza di connessione o di computer, di spazi e di silenzio.

Cosa ci dobbiamo portare dietro di questi mesi di sospensione della normalità? Di sicuro non dobbiamo dimenticare quanto abbiamo vissuto dentro e fuori gli spazi delle città. La sfida sta nel far capire che da questa drammatica crisi, sanitaria ed economica, si può uscire solo tornando a guardare ai territori e agli spazi dove viviamo. E che anche per il rilancio mettere questi temi al centro delle politiche sarà indispensabile, le città dovranno essere una priorità degli investimenti e dei cantieri per mandare un messaggio di speranza alle persone, che la loro qualità della vita può migliorare.

Qui dobbiamo chiamare a una precisa responsabilità il mondo dell’architettura, il cui contributo al dibattito in questi mesi si è limitato a una fantomatica fuga nei borghi che, dopo il primo effetto sorpresa, è apparsa una distrazione snobistica di chi sembrava in cerca di vetrine e incarichi professionali, più che un contributo reale in una situazione quanto mai difficile e da cui non si può sfuggire. Anche perché in parallelo la politica si è avvitata in un dibattito autoreferenziale sulle idee per il rilancio in cui questi temi non hanno trovato spazio. Non dobbiamo sprecare anche questa crisi per cambiare, per far capire come nelle città si incrociano le tante questioni su cui il nostro Paese è in difficoltà e che solo con idee e progetti dentro le aree urbane potremo ridurre le disuguaglianze nell’accesso a spazi, connessioni e innovazioni, creare opportunità per progetti di riqualificazione e mettere in moto cantieri per garantire l’accesso alla casa per chi ne ha bisogno.

Non possiamo perdere altro tempo anche perché presto l’altra grande crisi, quella climatica, ci presenterà il conto. In questi giorni lo abbiamo visto a Milano con l’esondazione del fiume Seveso e tra qualche settimana lo vedremo di nuovo con le ondate di calore che anno dopo anno diventano più frequenti e determinano conseguenze sempre più rilevanti sulla salute delle persone, in particolare di quelle più povere e anziane che non dispongono di sistemi di raffrescamento.

Una novità positiva il Covid ce l’ha lasciata. La si può vedere nel modo in cui in questi giorni si parla di mobilità urbana e dei progetti che si stanno mettendo in campo per affrontare una situazione inedita e preoccupante, perché la riapertura delle città vedrà una forte riduzione delle possibilità di muoversi con i mezzi pubblici (per limiti fisici e paura dei contagi). Per scongiurare che sia la mobilità privata in auto l’alternativa, per la prima volta in tutto il mondo si parla di estensione della ciclabilità, si aprono cantieri per bike lanes che già si programma di trasformare in permanenti, e i sindaci discutono di estensione della sharing mobility in tutti i quartieri e per tutte le possibilità (bici, scooter, monopattini elettrici, ecc.).

Ricette ambientaliste a cui fino a qualche mese fa si guardava con simpatia, per la convinzione è che sarebbero rimaste di nicchia, e che invece oggi si stanno dimostrando vincenti ovunque vengono applicate con convinzione. In questo caso è stata l’emergenza a far cambiare idea alla politica che si è trovata di fronte a una situazione dove le ricette tradizionali non funzionavano più. Ma a pesare è stata anche la constatazione che le persone oggi chiedevano questo tipo di soluzioni, e che erano pronte a cambiare abitudini se diventava possibile scegliere come muoversi e di farlo in modo sicuro e semplice. Basta aprire televisioni, siti internet e social netrwork per trovarsi di fronte a immagini che da Parigi a Milano, dalla Nuova Zelanda a New York dimostrano che sia possibile riappropriarci come cittadini degli spazi delle città e che il XXI secolo potrebbe anche non essere, come quello precedente, dominato dalle auto.

Sarà una sfida da seguire con attenzione, perché può innescare a catena un cambiamento nel modo in cui guardiamo a tanti aspetti della organizzazione e vita dentro le città. Sarà importante soprattutto non dimenticare questi mesi e accontentarci di tornare a come stavamo male prima della tempesta Covid.

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