Il difficile interregno di Giorgia Meloni

Pochi mesi dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, la premier Giorgia Meloni non riesce a svincolarsi dal suo passato di opposizione. E non sembra ancora in grado di aprire una fase nuova: la nascita di una destra di governo. Il vecchio non muore anche se declina, il nuovo non nasce. Antonio Gramsci lo aveva definito l’interregno. In questo interregno la premier sembra invischiata. Il rischio per lei è che ne rimanga intrappolata. Del resto, la polemica sul 41-bis, in cui la premier ha difeso i sottosegretari Donzelli e Dalmastro attaccando il Pd, è l’ultimo segnale della sua difficoltà a dismettere la politica dell’identità. La Meloni ogni volta si rivolge al suo elettorato per cercarne il consenso anche a spese dei due alleati, senza ponderare la qualità dell’azione governativa. Lo schema si sta ripetendo. Ma fino a quando può funzionare con il Paese?

Gramsci elaborò la nozione di egemonia con cui ha identificato il processo mediante il quale una classe dominante, in questo caso la classe politica di destra e il blocco sociale che la sostiene, rende naturale il suo dominio, facendo passare nella società i presupposti della propria visione del mondo come se fosse un senso comune. Il punto è che alla destra l’operazione di diventare senso comune è riuscita prima e durante la campagna elettorale, ma non sembra in grado di ripeterla al governo. Gramsci osservò che ogni blocco egemonico rappresenta poi una serie di presupposti su ciò che è giusto e ciò che non lo è.

È presto per una valutazione definitiva, ma l’elenco delle questioni in cui la Meloni ha cambiato idea si è allungato: dal Pos, al limite del contante, al Pnnr, alla politica europea e all’euro fino alla questione della giustizia e del 41-bis. In tutti i casi la premier ha evitato, scansato o scaricato su altri, ma alla fine non ha potuto mettere in pratica fino in fondo l’ideologia sovranista. Né ha dato l’impressione di saper compiere la mossa strategica di indirizzare la sua coalizione verso una moderna destra di governo. Una destra cioè di cui si possono non condividere le posizioni politiche, ma che è sorretta da una razionalità e da un progetto capaci di guidare la modernizzazione del Paese. Questa contraddizione descrive il dilemma di fondo che investe la Meloni e la sua coalizione: la premier non è riuscita a imporre alla società due temi centrali per definire cosa è giusto, il tema della distribuzione e quello del riconoscimento. La distribuzione trasmette la visione di come la società dovrebbe allocare le risorse e il reddito. Il riconoscimento esprime l’idea di come la società dovrebbe distribuire il rispetto, la stima sociale, i segni morali della appartenenza. Il nesso tra beni materiali e immateriali, che il campo progressista sembra avere smarrito privilegiando o l’uno o l’altro, focalizza le gerarchie di status e di valori che contribuiscono all’egemonia. Si tratta di due partite aperte.

Per superare il problema la Meloni ha mobilitato la retorica dell’unità nazionale, ha utilizzato la narrazione sui social nel tentativo di influire sull’immaginario collettivo. Fino a oggi senza il successo a cui aspira. La premier condiziona l’agenda mediatica e politica, ma la rottura del blocco egemonico precedente, più progressista e moderato, non ha condotto alla costruzione di una nuova egemonia. Anzi, ha fatto emergere molte contraddizioni. Uno dei presupposti del sovranismo e del populismo consiste nell’ unificazione del popolo, che viene considerato come omogeneo, riunito dall’etnia, dalla cultura, dalla religione, del quale il leader è il portavoce e l’unico interprete. Il sovranismo poi tende a trasformare la propria maggioranza elettorale (una parte dei cittadini) nell’intera nazione. Trasformare una parte nel tutto delinea una sorta di tirannia della maggioranza che tollera a stento le posizioni divergenti degli altri. Lo si è visto sempre sul caso giustizia: FdI ha tentato di processare il Pd sulla base di informazioni sull’anarchico Cospato che dovevano rimanere riservate, dimenticando che il primo attentato degli anarchici è stato compiuto contro la sorella diplomatica ad Atene di una candidata alla segreteria Pd.

Ricercare il consenso a destra sul tradizionale binomio di legge e ordine ha avuto la precedenza sul suo ruolo di presidente del consiglio, che rappresenta le istituzioni e anche chi non l’ha votata. Su questa idea della maggioranza che rappresenta tutto, la destra tenta di costruire un nuovo ordine costituzionale che potrebbe raffigurare una democrazia plebiscitaria. Tuttavia, il primo problema per i sovranisti al governo è che potrebbero fallire proprio nell’unificazione del popolo, accentuando le divisioni sociali e politiche, e non dimostrandosi in grado di governare la frammentazione del Paese.

La questione di fondo, a mio avviso, sembra porsi in questi termini: in questi anni il sovranismo ha saputo con abilità riflettere le istanze, le domande sociali provocate dalla crisi, ma una volta conquistato il governo rischia di sbagliare la risposta. E la ragione sembra doversi ricercare nel fatto che la Meloni e il suo governo mettono in campo strumenti e dispositivi che appartengono a una cultura politica che si sta rivelando desueta, poco adeguata, non sempre funzionale ad affrontare le sfide complesse del mondo contemporaneo: la pandemia, la guerra, la crisi energetica e quella ambientale, l’inflazione e la ristrutturazione della globalizzazione. Per cultura politica intenderei la definizione che ne diedero per primi gli studiosi Almond e Verba come l’insieme degli orientamenti e degli atteggiamenti verso il sistema politico e verso il proprio ruolo all’interno del sistema.  Il Paese avrebbe bisogno di innovazione, lei sembra tentata dalla nostalgia della restaurazione. Il Paese vive una differenziazione sociale e territoriale profonda, la destra vorrebbe gerarchizzare e disciplinare.

Per decifrare l’interregno della Meloni forse è utile ricordare le ragioni del successo della destra.  Esso scaturisce dalla capacità di collegarsi al disagio di ampi settori sociali e utilizzare la crisi di rappresentatività delle istituzioni. Come ha scritto il professore Carlo Galli nel libro Sovranità non si deve ricercare l’adesione di questi ceti a populismo e sovranismo come una opzione antipolitica, ma al contrario come una istanza diversa: «Il sovranismo è la richiesta di una politica che non sia solo il calcolo del Pil», ma sia capacità di autodeterminazione, di poter riprendere il controllo sugli eventi, di ricostituire un patto sociale lacerato. È tornata rilevante la funzione protettiva della sovranità. Nel corso dei secoli sono cambiati i contenuti della funzione protettiva e con le democrazie del dopoguerra la realizzazione dei diritti politici, civili e sociali è diventato un impegno dello Stato che ne ha consacrato la legittimazione.

La forza del discorso sovranista consiste nell’essersi presentato come il difensore di questa istanza di sicurezza dimenticata sia sul piano politico e statuale, sia su quello sociale, e soprattutto su quello individuale. La promessa sovranista, ha spiegato Ida Dominijanni nel saggio La trappola sovranista (Parole- Chiave Sovranismo) è quella di «riattivare la triangolazione virtuosa tra Stato sovrano, popolo e individuo sovrano».

Ma in questa triangolazione gioca un ruolo decisivo l’individuo, il suo desiderio di sovranità su forze produttive, politiche, su immigrazioni, contaminazioni culturali, che ne minacciano l’identità e la padronanza sui processi di soggettivazione e sulle trasformazioni sociali. Non si tratta solo dei perdenti della globalizzazione, per quanto la dimensione economica pesi. È la ricaduta sull’individuo che sente indebolirsi la propria compattezza interiore, la propria capacità di controllo su cambiamenti veloci e profondi, che possono spiegarne la presa. La sovranità rappresenta un argine contro la perdita di autonomia della politica votata rispetto al capitalismo globale, all’indebolimento della nazione nel contesto mondiale, contiene le angosce personali per la perdita di un sistema di valori familiare, per la precarietà del lavoro, per il disorientamento culturale. È questo intreccio di interessi, emozioni, valori e cultura, che la destra ha colto per tempo e ha saputo rappresentare. Sinistra e progressisti hanno sottovalutato l’effetto della paura dell’incertezza.

I progressisti hanno tenuto poco conto del fatto che durante i decenni del neoliberismo, gli individui si sono identificati con l’etica del mercato, ma che la sequenza delle crisi dal 2008 a oggi ha favorito un rovesciamento delle credenze e dei valori: se ieri l’individuo aveva creduto nel mercato, nella competizione, nella prestazione, votando di conseguenza, oggi quello stesso individuo vive uno stato emotivo di rancore e timore, un senso di colpa per non essersi saputo adattare, che guarda al debito pubblico come autodifesa. Una paura che fa scattare la ricerca di un capro espiatorio sociale cui addebitare la responsabilità della situazione. La difesa dei confini si è rivelata funzionale alla riduzione dell’incertezza identitaria, provocata non solo dall’economia o dall’immigrazione, ma anche dall’identità di genere e sessuale: il nuovo protagonismo delle donne, la visibilità dei non eterosessuali, la richiesta di riconoscimento (e diritti) di diverse minoranze.  In sintesi, il disorientamento è originato non solo dalla la messa in discussione del contratto sociale ma pure del contratto patriarcale, che assegna ruoli e gerarchie prestabilite ai generi. Come ha spiegato Sartre nel suo capolavoro, L’essere e il nulla, è la vischiosità del mutamento che carica di ansia gli individui: nel vischioso il soggetto rischia di diluirsi, di perdersi, di contaminarsi, mentre nel liquido la propria sostanza resta. Questa paura per una vischiosità invadente, perturbante, contagiosa, ha attirato verso sovranismo e populismo il consenso anche di chi non è un perdente della globalizzazione.

Tuttavia, riflettere il problema della società non significa necessariamente possedere la soluzione. E l’ideologia del sovranismo di governo sembra in affanno di fronte alle grandi sfide esterne e interne. Appare incongruente di fronte alla trasformazione che servirebbe all’Italia. L’esempio è stato il Pnnr di Draghi: prima osteggiato dalla Meloni, poi recepito quando ha capito che aveva sbagliato giudizio, perché fornirebbe una infrastruttura indispensabile al sistema produttivo e al Paese. La cultura politica della destra sovranista e populista, messa alla prova, rivela l’attrito del suo paradigma concettuale con la realtà socio-economica. La quale non si fa semplificare, ma al contrario si complica. Una debolezza aggravata da una classe dirigente non sempre all’altezza. È la contraddizione tra cultura politica e complessità della realtà al centro dell’interregno della Meloni. La sua cautela, il suo pragmatismo suonano a conferma indiretta che questo è il difficile passaggio del suo governo.

Una sfida difficile riguarda lo shock dell’inflazione e delle politiche parzialmente recessive messe in atto dalle banche centrali. L’inflazione pone questioni politiche rilevanti: l’aumento dei prezzi può essere interpretato come l’avvio di un classico conflitto redistributivo tra produttori, consumatori, contribuenti. Lo ha subito notato Olivier Blanchard, docente al Mit, ed ex direttore del Fondo monetario internazionale. L’inflazione innesca una competizione sociale nella quale prevale chi ha il potere di mercato di scaricare su altri attori i costi derivati dall’energia. I produttori scaricano sui consumatori. Se il governo interviene con sostegni il costo si allarga ai contribuenti. Lo scenario però è più complesso, spiegano gli economisti: non tutti gli imprenditori si trovano nella medesima posizione nella catena del valore e non tutti i consumatori hanno gli stessi interessi. C’è un braccio di ferro tra produttori che chiedono aumenti e le catene distributive, i supermercati, che frenano, perché calcolano di perdere clienti e temono la concorrenza dei discount. Una posizione variegata si registra anche tra i consumatori: i lavoratori autonomi possono riversare i maggiori costi su chi usufruisce del loro lavoro, i salariati e i pensionati non possono farlo. L’inflazione viene pagata da ceti sociali ben identificati. E rafforza la frammentazione sociale.

Un secondo, importante nodo politico emerge se guardiamo al sistema economico: l’aumento dei prezzi energetici implica un trasferimento di reddito reale dai paesi che subiscono l’aumento, come l’Italia, a quelli che invece esportano gas e petrolio. Per i paesi importatori aumentano i costi. Questi rincari possono essere in parte assorbiti se il sistema economico importatore riesce a mettere in campo una maggiore efficienza produttiva interna (ristrutturazione organizzativa, tecnologica, formazione), riducendo il costo degli altri beni intermedi importati e aumentando il valore dei propri beni da immettere sul mercato. Anche in questo caso, il gioco è di trasferire all’esterno l’onere dell’inflazione come effetto di una maggiore competitività. Ma è proprio questo il terreno sul quale la nostra economia è più fragile e avrebbe bisogno di innovazione: guadagnare competitività. Occorre immaginare una ristrutturazione produttiva del Paese che si ponga il problema della produttività: se l’economia si adatta poco al nuovo scenario, l’onere del trasferimento di reddito all’estero resta in gran parte sulle spalle del sistema nazionale. E il tema chiave diventa anche in questo caso la distribuzione dei costi tra i diversi soggetti. La spinta alla frammentazione sociale aumenta: ci saranno imprese, ceti, individui che si proteggeranno meglio; imprese, ceti, individui che ne subiranno il costo.

In questo quadro diventa centrale il tema dell’eguaglianza. La Meloni nella sua prima legge di bilancio ha esordito con una limitata politica distributiva. Limitata perché gran parte delle risorse sono servite a rinnovare le misure di Draghi. Ma come ha allocato le altre risorse disponibili? Agendo come ha agito nella polemica sul 41-bis: ha privilegiato i settori sociali vicini al centro destra. Ha cercato il consenso di autonomi, commerciati, tassisti, titolari di concessioni balneari, alcune limitate fasce di pensionati. E anche nell’intervento sul fisco annunciato per quest’anno, basato sul concordato preventivo, sarebbe pronta a favorire gli stessi ceti. Il risultato è che la Meloni ha effettuato una politica distributiva che, se fosse confermata e ampliata, corre il rischio di innescare un conflitto redistributivo, perché favorisce alcuni ceti e ne esclude altri. Introdurrebbe squilibri, diseguaglianze, divisioni.

Involontariamente, la premier ha rimesso al centro proprio salari e pensioni, che pagano di più la tassa dell’inflazione perché dipendenti e pensionati non possono scaricare i maggiori costi. In questo scenario si potrebbe aprire una rincorsa all’adeguamento delle buste paga tramite i contratti, che accentuerebbe la conflittualità e forse non raffredderebbe l’inflazione. Questo quadro potrebbe appesantirsi se per domare l’inflazione la Bce decidesse una politica restrittiva più incisiva. In questo caso l’economia tornerebbe in equilibrio attraverso una recessione più o meno profonda, che non sarebbe affatto neutrale, ma come per l’inflazione distribuirebbe costi sociali ed economici in modo iniquo. In conclusione: l’uscita dall’inflazione rischia di essere decisa sulla base dei rapporti di forza di una società divisa sia sul mercato dei beni e servizi, sia sul mercato politico. E il governo Meloni sembra avere già dimostrato quali sono le sue priorità sociali. Invece l’inflazione potrebbe essere affrontata anche con una politica industriale, attraverso una sinergia tra scelte pubbliche e private, con una visione del Paese di lungo periodo che punti sulla crescita e distribuisca equamente eventuali costi. Ma la premier sovranista fino ad ora non ha messo in campo questa strategia. C’è da dubitare che lo faccia in futuro.

La difficoltà sovranista emerge anche sul piano internazionale. È visibile l’indebolimento dell’Italia sul teatro europeo nonostante la trionfante narrazione della premier. L’esclusione della Meloni dalla cena di Zelensky con Macron e Scholtz a Parigi in cui «sono state prese decisioni importanti», è una immagine che non fa piacere. Ma il punto è che la Meloni al recente vertice di Bruxelles è sembrata assente nei negoziati che contano sia riguardo la guerra in Ucraina sia sull’economia e l’energia. A trattare con gli Usa e il loro piano energetico, che potrebbe danneggiare le imprese europee, sono Francia e Germania. Alla Meloni non è rimasto altro che accettare un allentamento delle regole degli aiuti di stato che favorisce Germania e Francia, unici paesi ad avere le risorse per intervenire (soprattutto la prima), senza un fondo sovrano che agisca in tutti i Paesi. Con il risultato che gli squilibri di competitività tra i diversi paesi europei potrebbero accentuarsi. La Meloni presenta come una vittoria avere ottenuto margini di flessibilità sul Pnnr, l’unica carta che le rimaneva da giocare e che sarebbe stato difficile negarle.

L’Europa delle nazioni così mostra i limiti della ideologia sovranista: tra i paesi europei vige una intensa competizione e una solidarietà limitata. Le questioni più rilevanti vengono influenzate dall’asse Parigi-Berlino, che era stato allargato a Draghi, leader ascoltato, ma non alla Meloni. Del resto, la premier non sembra avere neppure una strategia diplomatica adeguata: attaccare Macron non sembra il modo migliore per evitare la convergenza tra Francia e Germania. Si tratterebbe invece di costruire relazioni politiche, diplomatiche, persino personali di fiducia e cooperazione. E forse sarebbe opportuno avanzare proposte in grado di spingere l’Europa verso una strategia diversa, come fece Draghi con il tetto al prezzo del gas. Ma ancora una volta la Meloni fa ciò che sa fare: mette avanti una politica dell’identità che non le procura legittimazione internazionale. Anche perché l’identità degli altri non è meno assertiva. Manca alla premier la cultura politica per lavorare per una integrazione e riarticolazione dei sovranismi sul piano europeo. Né riesce a proporre idee come un mercato energetico sinergico tra Europa e Stati Uniti in modo da evitare uno scontro sui sussidi.

Anche il posto dell’Italia nella riconfigurazione della globalizzazione al momento sembra vacante. Il disaccoppiamento tra Usa e Cina ha messo in risalto una nuova divisione internazionale del lavoro imperniato sui due poli di Washington e Pechino, mentre la globalizzazione rallenta per cambiare verso.  Il nuovo modello che si delinea è stato battezzato dal ministro del Tesoro americano, Janet Jellen, friend shore, la globalizzazione tra amici e alleati.

Come si posizionerà l’Italia in questa trasformazione appena iniziata?
C’è una strategia per il nostro sistema produttivo?

Il Pnnr è stata la prima risposta, ma la premier ha già problemi nella sua gestione e non sembra avere una visione di lungo periodo. Anche in questo caso l’ideologia sovranista sembra agire secondo una cultura di retroguardia. Il capitalismo vive una nuova fase che il professore Branko Milanovic ha spiegato nel libro Capitalismo contro capitalismo: la competizione tra il sistema economico liberale e il capitalismo politico o illiberale che ha nella Cina il suo campione. In questo scenario i protagonisti non sono solo gli Stati, ma anche nuovi soggetti privati: le multinazionali, le organizzazioni internazionali. Di fronte a questa trasformazione che parte dalla rimodulazione delle catene del valore e della dislocazione delle produzioni, gli stati territoriali appaiono più deboli. Occorre accrescere la potenza sovrana attraverso strumenti che non possono più essere solo nazionali per essere in grado di affrontare uno scontro globale con i nuovi competitori. L’Europa ha dimostrato di poterlo fare quando ha deciso una integrazione normativa e politica che ha posto regole, per esempio, sulle nuove tecnologie o a favore dei consumatori. Norme che hanno influenzato il mercato mondiale.

L’Europa ha un potere dissuadente, un singolo Paese no. Ma il sovranismo non sembra ancora pronto per riarticolare la propria ideologia in un mondo interrelato. E non sembra comprendere che il problema non nasce per un eccesso di integrazione tra gli Stati, ma per uno squilibrio di potenza tra gli Stati. La dimensione globale sembra ormai ineludibile e in uno scenario di interdipendenza tra i Paesi, con la nascita di nuove coalizioni economiche, gioca un ruolo strategico il potenziale di crescita futura di un Paese. Ma l’attenzione della premier sembra concentrata sulla piccola Italia degli autonomi, dei commercianti, delle piccole imprese, che meritano senza dubbio tutela, ma che non possono guidare il Paese verso una crescita sostenuta. Inoltre, si tratterebbe di lavorare per costruire una Europa che sia pienamente un agente di rappresentanza dei suoi cittadini attraverso i diritti e l’ordine normativo. Ma il governo della Meloni non sembra imboccare questa via.

Il tema politico dell’interregno è che i punti di forza di quando la destra era all’opposizione sembrano rovesciarsi in debolezza una volta al governo. La premier per ora appare incerta tra la fedeltà al suo passato di opposizione e il futuro possibile, ma non agevole, di una destra conservatrice di governo. È da dimostrare che la politica dell’identità, che la Meloni mostra di non voler abbandonare, possa essere utile nel lungo periodo. Forse per questo la premier è passata dalla posizione aggressiva del passato alla posizione difensiva di oggi. Anche quando contrattacca, in realtà lei si difende. L’interregno in cui è invischiata ha già prodotto una conseguenza: per anni la Meloni ha vestito i panni della sfidante, oggi lei è la sfidata. Le ragioni che furono alla base del suo successo non sono destinate a declinare rapidamente, ma potrebbero diventare nel prossimo futuro la causa dell’insuccesso.

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