Il fantasma del pentapartito nell’Italia della Meloni

Il fantasma del pentapartito si aggira nell’Italia della Meloni. A rammentarcelo è la scomparsa ravvicinata di Arnaldo Forlani e di Silvio Berlusconi che offre l’occasione per riflettere sulla fase politica degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta e la sua influenza sul presente.

I due lutti ravvicinati ci aiutano a rendere visibile la linea di continuità sottostante la rottura della Prima Repubblica che coinvolge destra e sinistra.

Forlani è stato presidente del consiglio, segretario della Dc, ministro e candidato anche al Quirinale. Era l’ultima figura in vita del Caf, il patto stipulato tra Craxi Andreotti Forlani, che esercitò l’egemonia dal 1979 fino a quasi il 1992. Si trattò di un periodo cruciale della transizione italiana. La cui eredità ha condizionato la Seconda Repubblica, in particolare Forza Italia e l’avventura di Berlusconi. Anche se Forlani ha vissuto gli ultimi anni lontano dalla scena pubblica, la politica che ha inaugurato gli è sopravvissuta, sia pure in forme diverse. Gli elementi centrali di quella strategia si ripresentano quasi a confermare la loro attualità: il recupero della conventio ad escludendum verso la sinistra; lo scambio tra consenso e deficit pubblico, responsabile dell’esplosione del debito che pesa ancora sul Paese; la sfida a sinistra tra il Psi e il Pci-Pds che produsse la divisione e frammentazione dell’area progressista; la competizione sulla capacità o incapacità dei partiti di cogliere e interpretare le tendenze di fondo della società. La vicenda del pentapartito sfociò in una crisi di sistema amplificata dalla stagione di Tangentopoli, che attraverso scandali, inchieste giudiziarie, arresti e processi, fece emergere una rete di corruzione che delegittimò l’intera classe politica italiana. Si tratta di contrapposizioni e di fratture di lungo periodo, che riaffiorano nel dibattito politico odierno. Fantasmi mai esorcizzati.

La storia del dopoguerra è segnata dal conflitto tra diverse tradizioni partitiche quella della Democrazia Cristiana e dell’opposizione comunista. Una frattura che ha attraversato la storia della Repubblica. Il politologo Giorgio Galli descrisse la democrazia bloccata italiana con l’immagine del bipolarismo imperfetto. Solo uno dei due contendenti, la Dc, era legittimato a governare in un contesto internazionale dominato dalla guerra fredda e dal confronto tra Usa e Urss. L’Italia per decenni non conobbe la possibilità di un fisiologico ricambio al governo, l’alternanza che avveniva negli altri paesi europei. Questa spaccatura bipolare aveva un significato più profondo in Italia per la posizione geografica del nostro Paese che, in quegli anni, era il confine tra Est e Ovest nel Mediterraneo. Pesava la presenza del più forte partito comunista europeo.

L’Italia era pienamente inserita nella divisione internazionale comunisti/anticomunisti. Questa contrapposizione conobbe una fase diversa negli anni Settanta, quando Aldo Moro ed Enrico Berlinguer sembrarono trovare la possibilità di un incontro: il compromesso storico. La fase della solidarietà nazionale che ne seguì fu chiusa di fatto con l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse. Il Pci dopo il 1979 entrò in una crisi di consensi e di prospettiva politica fino a quando nel 1983 lanciò la strategia della alternativa democratica, in cui si immaginò un possibile «governo degli onesti». Il giudizio di Berlinguer sul degrado morale sociale della società era molto duro: la questione morale fu posta, come ha scritto lo studioso Giuseppe Vacca nel libro Il riformismo italiano, come una barriera che proclamava la diversità del Pci «ma non ne indicava né i contenuti possibili, né gli alleati». Un’idea che urtava contro l’asse Dc-Psi la cui logica politica, ha scritto Massimo Salvadori in Storia d’Italia e crisi di regime, si sarebbe espressa «negli anni ’80 nel rinnovato obiettivo dell’isolamento del Pci e del suo progressivo svuotamento politico ed elettorale».

Il nuovo Psi di Craxi voleva conquistare un nuovo spazio politico. Craxi decise di porre fine alla subalternità socialista verso il Pci, ma nello stesso tempo intendeva contendere la premiership all’alleato Dc. Craxi riportò alcune importanti vittorie politiche come l’installazione dei missili Cruise e la vittoria al referendum per l’abolizione della scala mobile. Il segretario del Psi dimostrò allora che si poteva governare senza e contro il Pci.

L’opinione pubblica a maggioranza mostrava di favorire questa scelta. La divaricazione tra i due partiti storici della sinistra si drammatizzò. L’accordo tra Craxi, Andreotti e Forlani, quindi, non solo archiviò le aperture di Moro e della sinistra Dc, ma aprì una prospettiva politica opposta. L’elemento che qui vale la pena sottolineare è che la strutturazione pentapartitica della politica si trasferì nella società italiana, che da sempre aveva visto una maggioranza relativa avversa ai comunisti. I difficili equilibri politici del pentapartito, che inaugurò l’alternanza a Palazzo Chigi prima con Spadolini poi con Craxi, e all’interno della Dc tra le diverse correnti, non consentirono la stabilizzazione del sistema politico né il suo rinnovamento con le riforme istituzionali. Al pentapartito riuscì però un’operazione: seppe rappresentare il bacino elettorale che si contrapponeva alla sinistra, la divisione che per quasi cinquant’anni aveva dominato il conflitto politico del Paese.

Caduta la prima Repubblica, nel 1994 Berlusconi comprese che si era creato un vuoto nel sistema politico. Intuì che avrebbe potuto ricollegarsi a quegli elettori rimasti orfani di un riferimento sicuro. Le previsioni erano che il Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto avrebbe potuto vincere le elezioni. La nascita di Forza Italia esprimeva, quindi, un’offerta politica dal doppio volto: discontinuità con il regime politico precedente, perché cavalcava la protesta antisistema, nello stesso tempo offrì una rassicurante continuità contro il pericolo rosso. Con una differenza rispetto alla Dc: nella sua lunga storia la Democrazia Cristiana ha avuto la funzione di rappresentare questa stessa area politica, ma la aveva mitigata, temperata, in certi momenti aveva cercato di indirizzarla verso orientamenti più avanzati. Berlusconi invece ha portato in superficie il fiume carsico anticomunista, che i partiti di governo della Prima Repubblica avevano contenuto. Nobilitò a suo modo il sentimento anti-sinistra: ne fece un elemento identitario nonostante il Pci non ci fosse più. Ne diede una definizione rassicurante, il campo moderato (anche se moderato non sempre era), rivelò che quel sentimento anticomunista era più radicato di quanto molti percepissero.

Forza Italia alternò continuità e discontinuità rispetto al pentapartito, ma nei fatti diede rappresentanza a quegli stessi ceti sociali e riuscì a trasformarli in un blocco sociale. Si trattava di un’area in cui convivevano opinioni e stati d’animo diversi, ma che aveva nell’anticomunismo uno dei suoi più forti collanti. Quel blocco sociale fu decisivo nell’assegnare la vittoria elettorale al Cavaliere. Ancora oggi esso si intravede dietro la destra al governo. Del resto, con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi è sempre più chiaro che l’obiettivo dei post-missini è quello di fare della sinistra il nuovo polo escluso, come accadde per decenni al Movimento Sociale Italiano. Il governo Meloni tenta di tracciare un nuovo arco costituzionale nel quale la sinistra venga sospinta alla periferia del sistema politico. Compare una strategia d’attacco nelle regioni del centro Italia (per esempio non nominando Bonaccini commissario per l’alluvione), dove è più radicata la subcultura progressista, per ridurre il consenso della sinistra. L’immagine di questa strategia la offre la Rai meloniana, nella quale i progressisti sono ridimensionati (o se ne vanno), mentre la destra monopolizza tutti i posti disponibili. Lo slogan dell’arrembaggio della destra, infatti, potrebbe essere: «Adesso è il nostro turno». L’obiettivo non è solo costruire una nuova narrazione culturale che instauri un’egemonia sovranista. L’obiettivo è occupare le istituzioni e imporre la propria idea di Paese. Una strategia che rammenta (in peggio) il pentapartito.

Gli anni Ottanta con Craxi a Palazzo Chigi hanno conosciuto uno sviluppo economico che ha fatto dimenticare la crisi degli anni Settanta. Ma fu uno sviluppo nel contesto di pesanti squilibri economici: l’inflazione era alta e il debito cominciò a crescere oltre ogni previsione. Il taglio della scala mobile, che portò al referendum, doveva in qualche modo porre un freno all’aumento dei costi. Ma non fu sufficiente. Tra il 1983 e il 1986 con la guida socialista al governo, il Pil ha segnato un aumento consistente (il 43%), ma anche il deficit pubblico continuò a salire e sembrò fuori controllo. Nel 1986 aveva superato la soglia dell’80% del Pil (oggi è oltre il 140% ma c’è stato il Covid). È uno scenario diventato familiare agli italiani. Per evitare la riduzione della spesa, i governi del pentapartito ricorsero all’emissione di generosi Titoli di Stato, confidando che l’aumento del Pil avrebbe conservato l’equilibrio. Furono anni in cui il benessere di molte famiglie e risparmiatori crebbe, ma pochi si accorsero che si trattava di un’arma che poteva riservare amare sorprese. Come ha scritto il professore Aurelio Lepre in Storia della Prima Repubblica, molti si chiedevano come mai «il calabrone Italia continuava a volare contro tutte le leggi di gravità. La risposta in realtà era sotto gli occhi di tutti. Il benessere degli anni Ottanta era dovuto in gran parte a risorse tolte al futuro». Se negli anni Sessanta l’espansione della spesa pubblica era dovuta all’estensione della istruzione obbligatoria, della sanità, della previdenza sociale a fasce più ampie della popolazione, negli anni Ottanta il processo fu molto diverso: la spesa pubblica crebbe a dismisura per garantire ad alcuni settori sociali condizioni e servizi vantaggiosi.

Costosi meccanismi di prepensionamento, facilitazioni fiscali ad alcuni settori produttivi, l’intervento pubblico nell’economia senza evitare sprechi, clientelismi e inefficienze, sono questioni di cui paghiamo il prezzo ancora oggi e che sono tornate d’attualità. In quegli anni si instaurò il metodo dello scambio politico tra risorse pubbliche e consenso, facendo leva su una complicità diffusa nella maggioranza. Le famiglie vedevano un boom economico, premiarono il pentapartito e fecero scendere il Pci. Ma in quegli anni si è accumulato buona parte del deficit pubblico che oggi pesa sullo sviluppo del Paese. Lo scambio tra deficit e consenso si trasformò in una distorsione del sistema politico italiano, che oggi la destra è tentata di conservare. Le forze politiche del pentapartito sembravano concentrate più su sé stesse, più sui propri obiettivi politici, sulla propria forza elettorale da giocare al tavolo del potere, che sui problemi strutturali del Paese. Il sistema politico cominciò ad essere sempre più autoreferenziale. Le classi dirigenti erano più impegnate nel gioco tattico, attente a guadagnare posizioni rispetto agli alleati-rivali della maggioranza o all’interno del proprio partito, ma erano confortati dalle indicazioni elettorali. I socialisti facevano sponda con Forlani, Andreotti e i dorotei, la sinistra Dc con il Pci all’opposizione, e in questo quadro nulla sembrava che potesse cambiare. I partiti della maggioranza venivano premiati nonostante fossero divisi e poco compatti all’interno (tra Craxi e De Mita era scontro continuo). Nel dibattito politico nazionale non si avvertiva l’imminenza di trasformazioni strutturali internazionali e interne che, entro breve periodo, avrebbero cambiato il mondo: la fine della Guerra fredda, la dissoluzione del blocco sovietico, l’accelerazione del processo di integrazione dell’Europa e in Italia Tangentopoli.

Dopo la fase della solidarietà nazionale, Berlinguer aveva schierato il Pci sulla strategia dell’alternativa democratica. Il segretario aveva posto la questione morale al centro della sua analisi. Da una parte Berlinguer coglieva in anticipo la dimensione strutturale della crisi italiana (corruzione, partitocrazia, diseguaglianze), dall’altra diede l’impressione di compiere una mossa difensiva, innescata dalla fine dell’intesa con la Dc. La scelta di rafforzare il partito nel suo tradizionale insediamento sociale, la classe lavoratrice, conteneva elementi positivi: a quel tempo gli operai erano una quota più ampia della società rispetto ad oggi. Tuttavia, il Pci diede l’impressione di non considerare adeguatamente le grandi trasformazioni della società che stavano cominciando a produrre effetti: lo slancio della globalizzazione, l’avvento delle nuove tecnologie, le conseguenze della società postindustriale sul mondo del lavoro. Proclamando la diversità del Pci, Berlinguer denunciava le degenerazioni del sistema dei partiti al governo, ma ridefiniva l’identità comunista chiudendo il dialogo con le forze riformiste. Comunisti e socialisti davano interpretazioni della società divergenti, che impedirono un confronto. A separarli era anche l’immagine che ciascun partito aveva di sé e del proprio ruolo. Berlinguer considerava il Pci la forza più influente della sinistra, aveva avviato una trasformazione della identità nel segno della continuità, e rimarcava la sua diversità ma pure la sua distanza. Craxi invece voleva costruire una nuova identità politica, basata sulla discontinuità con il passato e sulla continuità con il presente (il raccordo con la Dc). Pensava il Psi come la forza di governo destinata a guidare e modernizzare il Paese. E guardava con interesse alla società che stava cambiando (erano gli anni della «Milano da bere»).

Il Pci seguì Berlinguer, ma la discussione all’interno fu ampia e a tratti aspra. Miriam Mafai, prestigiosa giornalista di Paese Sera e poi Repubblica, intellettuale comunista stimata, scrisse un libro Dimenticare Berlinguer che riassunse i dubbi condivisi da altri sulla scelta del segretario. Berlinguer, sostenne, aveva simbolizzato «l’idea nobilissima di una politica intesa come sacrificio, sofferenza, abnegazione, servizio», ma per la Mafai l’idea del compromesso storico rivelava il ritardo del Pci nell’evoluzione verso il modello delle socialdemocrazie europee. La strategia dell’alternativa democratica per la Mafai significava schierare il Pci su «un ruolo di pura opposizione e testimonianza» e quindi poco influente.

La discussione vide altri protagonisti da Giorgio Napolitano a Emanuele Macaluso, a Claudia Mancina, ma è utile richiamarla per rammentare che la discussione odierna su un Partito Democratico diviso tra riformisti e massimalisti (dentro e fuori il partito) ha radici storiche lontane. E non è nata neppure con Matteo Renzi, ma sorse proprio dentro il Pci berlingueriano in quegli anni. Per chiarire la cornice che dovrebbe inquadrare le scelte del segretario, Silvio Pons, allora direttore dell’Istituto Gramsci, spiegò nel libro Berlinguer e la fine del comunismo, che la strategia del compromesso storico andrebbe letta all’interno dello stretto nesso tra dimensione internazionale e nazionale nel quale la parola chiave è eurocomunismo. Per il segretario del Pci, che aveva già fatto cadere la pregiudiziale anti-Nato nella famosa intervista a Giampaolo Pansa, occorreva muoversi verso il superamento dei blocchi. Berlinguer immaginava la costruzione di un’Europa né anti-sovietica né anti-americana, in cui far valere l’idea di un comunismo diverso da quello realizzato nei paesi dell’Est. Il segretario sembrava credere che la missione del Pci fosse quella di rinnovare il socialismo occidentale e spingere criticamente l’URSS a riformare il comunismo sovietico (come poi tentò Gorbaciov). Questa visione ideale, utopica, non poteva incontrare Craxi, che aveva già collocato il Psi nello scenario riformista europeo e privilegiava l’accordo con i democristiani. Del resto, il Pci non poteva partecipare a una maggioranza che riteneva moralmente inadeguata. Entrambi i partiti volevano instaurare la propria egemonia e temevano il sorpasso elettorale dell’altro.

In realtà la competizione interna alla sinistra aveva la sua origine nei diversi modelli ideologici e organizzativi che leader e partiti di Pci e Psi già allora avevano davanti. Nella formulazione di Drucker: un partito etico caratterizzato dall’egualitarismo, un partito socialdemocratico-sindacale e un partito democratico-riformista. Modelli soprattutto europei e difficilmente conciliabili. Anche per questo forse lo scontro tra Pci e Psi non si placò ed esplose all’inizio degli anni Novanta, quando Tangentopoli e l’avanzare della protesta fecero emergere la crisi del sistema. Toccò al Pds di Occhetto, uno dei quarantenni cresciuti con Berlinguer, rifiutare l’alleanza con Craxi in difficoltà, che aveva aperto ad una collaborazione a sinistra. Il risultato di questa competizione fu che entrambi i partiti persero l’occasione di immaginare un’alternativa di governo quando la Prima Repubblica si arenò.

Il conflitto tra riformisti e massimalisti, nella sinistra e nel PCI, fece perdere entrambi i contendenti. Lo spazio lasciato libero dai duellanti vide emergere nuove forze che annunciavano l’antipolitica degli anni successivi. Nel frattempo, il conflitto aveva scavato un solco di rancore tra gli stessi elettorati, un’inimicizia che si è trasferita nella Seconda Repubblica: alla morte del Psi gran parte dei socialisti hanno aderito o votato Forza Italia. La mancanza di fiducia ha come creato una polarizzazione affettiva a sinistra: gli elettori si rifiutavano di considerare le prospettive, i valori dell’altro, l’aggregazione avveniva sulla base dell’appartenenza a fazioni opposte. I leader dei due partiti non sembrarono rendersi conto delle conseguenze nefaste di lungo termine che avrebbe avuto quello scontro sull’evoluzione dello scenario politico.

Forse solo con l’Ulivo di Prodi una parte dell’elettorato progressista è riuscito a ritrovare a fatica le ragioni di una collaborazione. Ma ancora oggi lo scontro attorno al Pd tra riformisti e massimalisti, tra vocazione identitaria e vocazione maggioritaria come la definiscono i professori Natale e Fasano nel nuovo libro L’ultimo partito, è ripreso. La polarizzazione affettiva divide come nel passato. La sfida sui modelli ideologici e organizzativi permane. Come negli anni del pentapartito rischia di alzarsi un altro muro di incomunicabilità tra i contendenti. Il risultato è che il campo progressista è diviso e frammentato, favorendo ancora una volta la destra.

Nel 1994 ci fu l’azzeramento delle più importanti forze di governo e la trasformazione di partiti storici. La Dc divenne il Partito popolare, ma perse la centralità. Il Pds di Achille Occhetto, che aveva tentato di assumere la guida del Paese facendosi interprete del biennio rivoluzionario 92-94, fu sconfitto. Buona parte dell’eredità del pentapartito passò a Berlusconi e a Forza Italia. E attraverso di esso alla destra. Per comprendere meglio questo passaggio forse occorre concentrarsi sulla funzione storica che ha giocato il partito di Berlusconi. Forza Italia rivendicò una rottura con il regime politico precedente, presentandosi come l’avversario della partitocrazia. Berlusconi anticipò il discorso populista con una narrazione in cui l’antipolitica rispondeva all’indignazione dei cittadini per gli scandali e gli arresti. Nello stesso tempo Forza Italia rivelava non pochi elementi di continuità. Il primo è stato quello di offrire una casa agli elettori orfani della contrapposizione con la sinistra. Tuttavia, Forza Italia non esaurì la sua offerta con questo tema: tentò di inserire un programma di riforme liberali, che poi non realizzò, reclamava un ridimensionamento del ruolo dello Stato, che poi non attuò.

In realtà la continuità di Forza Italia con il passato emerse con maggiore chiarezza tempo dopo. Quando Berlusconi fu sconfitto riorganizzò e ridisegnò il suo partito in attesa delle elezioni del 2001, che vinse con il 29,43% dei voti, 9 punti in più della sua discesa in campo. Berlusconi si era avvicinato alla filosofia del pentapartito non solo per la presenza, a livello nazionale e locale di politici provenienti dalla Dc, dal Psi, dal Pri o dal Pli. In quella occasione egli non apparve più solo come il rappresentante del blocco anticomunista, che pure restava il nucleo della sua identità. Il partito del Cavaliere sembrava maggiormente in grado di esercitare un’azione nella società ed era riuscito a diventare l’interlocutore di settori strategici dell’economia. La sinistra indulgeva nel descrivere il partito di Berlusconi come un «partito di plastica», sostenuto televisioni del suo leader, ma Berlusconi aveva intuito quale poteva essere la nuova frattura nella rappresentanza politica.

Cosa era accaduto? Che il centro-destra berlusconiano si era accreditato come riferimento delle istanze di attori sociali e territoriali poco considerati dai progressisti. Erano i commercianti, gli autonomi, i piccoli imprenditori. Agli occhi dell’opinione pubblica di allora il centrosinistra aveva un progetto che guardava ad un accordo, attraverso la concertazione, tra gli interessi della grande industria e dei sindacati. Il centro-destra si fece interprete dei piccoli soggetti del tessuto economico e sociale, delle periferie amministrative, mentre il centro-sinistra sembrava rappresentare soprattutto gli interessi dei grandi e dei centri amministrativi. Al di là delle differenze ideologiche, quindi, la diversità strutturale tra destra e sinistra sembrò la capacità di cogliere e interpretare le tendenze di fondo della società diffusa. E di rispondere alle aspirazioni, agli orientamenti, ai timori dell’italiano medio.

Berlusconi riuscì a convincere il ceto medio produttivo, che era stato l’architrave del consenso democristiano. Il Cavaliere aveva ripreso dal pentapartito la capacità di costruire una relazione sintonica con questo elettorato. Il cuore della competizione politica riguardava, quindi, l’interpretazione delle tendenze di fondo della nascente Seconda Repubblica. Ma i progressisti non lo compresero. Non coglievano i vecchi e nuovi cleavages che attraversavano la società. Si pensi alla Lega che da partito del mercato stava mutando in partito della protezione. A differenza del vecchio Pci, i progressisti avevano dimenticato come aprire un dialogo con il ceto medio, come avanzare un’offerta che potesse interessare almeno parte dei soggetti che si stavano rivolgendo al Cavaliere. Nella crisi di sistema che afflisse il Paese, Berlusconi sembrò definire il suo blocco sociale di riferimento e rivendicarne la rappresentanza. E offrì all’Italia incerta e arrabbiata del dopo Tangentopoli la sua immagine rassicurante di uomo di successo come garanzia. Così un partito di destra a vocazione maggioritaria raccolse l’eredità del pentapartito e ne continuò alcune politiche. Mentre la sinistra non colse l’occasione per intestarsi la guida del Paese. La competizione politica oggi sembra tornata a quello stesso punto. Ma la destra, anche se percorsa da divisioni interne, sembra più avanti nella costruzione di un soggetto politico. La sinistra sembra rimasta ancorata alla frammentazione del passato.

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