Pino Pascali, originario di Polignano a Mare, dove dal 2010 esiste la Fondazione a lui dedicata locata nell’ex mattatoio comunale del paese, cresciuto a Bari e dal 1965 nella capitale, dove frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma, lascia in eredità al mondo dell’arte opere che ne hanno modificata l’attuale percezione, fino a divenirne icone inalienabili nel tempo della storia, opere che oggi compongono lo spaccato a lui dedicato dalla Fondazione Prada di Milano. Opere realizzate all’apice della carriera e in un tempo brevissimo, dal 1965 al 1968 quando, nel vivo delle rivolte studentesche e dei lavoratori in tutta Europa, e del mondo dell’arte, muore a Roma, in un fatale schianto in moto, a soli trentatré anni.
L’artista è conosciutissimo agli specialisti, sia in Italia sia all’estero, e senza dubbio anche a un pubblico più generico, grazie soprattutto al lavoro che, in questi quasi quindici anni di attività, la Fondazione ha profuso nella sua divulgazione, eppure mai abbastanza a considerarne l’opera definitivamente conclusa.
Si potrebbe partire proprio da questo presupposto per raccontare i tanti perché della retrospettiva che Fondazione Prada dedica all’artista pugliese. Non sono di certo mancate le mostre dedicate a Pascali in questi anni. Anzi, probabilmente è fra gli artisti più esposti nell’ultimo decennio. Si pensi, per fare un esempio, all’esposizione promossa proprio dalla Fondazione di Polignano nel 2019, evento collaterale alla 58° Biennale di Venezia e realizzata a Palazzo Cavanis, dove a seguito dell’acquisizione di un fondo fotografico e di video pubblicitario, fu messa in luce la relazione dell’artista con il mezzo fotografico, tutt’altro che banalmente ausiliare alla sua opera.
Perché allora un nuovo focus sull’artista?
Mark Godfrey, storico e critico dell’arte britannico, curatore della mostra in corso a Milano, indirizza l’attenzione, non solo sul carattere ironico dell’opera di Pascali, ma soprattutto sul rapporto inedito che l’artista intrattenne fra scultura ed elementi di scena. Temi, quelli del sarcastico e del beffardo, spesso evidenziati nelle numerose mostre a lui dedicate, come già detto, ma probabilmente mai così approfonditamente in relazione allo spazio, così come nella proposta di Fondazione Prada, dove emerge altrettanto bene il singolare rapporto con i materiali più disparati usati da Pascali. Sicuramente non Italia dove, all’incirca dall’inizio degli anni duemila, manca effettivamente una mostra di questa portata e così dettagliata sull’opera scultoria dell’artista. Per l’appunto, e qui è necessario evidenziarlo, quella milanese è una mostra esclusivamente dedicata al lavoro in volume, alle installazioni di Pascali che trascura volutamente tutta la sua attività di disegnatore, illustratore e animatore.
Su questo, in effetti, si potrebbe anche fare polemica. Una retrospettiva che si definisce tale può escludere così nettamente una parte fondamentale della vita creativa di un artista?
La cosa è almeno curiosa sotto il profilo della ricostruzione storica e se non fossimo male intenzionati, si potrebbe immaginare che il curatore non apprezzi un certo tipo di espressione. Va anche detto però, che l’artista, fintanto che visse, aveva cercato in una certa misura di lasciare in evidenza quasi esclusivamente quella forma di arte che egli stesso forse considerava con la a maiuscola.
Veniamo alla mostra. Il progetto, diviso in quattro sezioni, che si sviluppa fra il Podium, la galleria Nord e in quella Sud, in altre parole in tre edifici della sede di Milano, si compone di ben quarantanove opere provenienti da musei italiani e stranieri e da importanti collezioni private. A queste si affiancano altri nove lavori di artisti attivi nel secondo novecento e una scelta di scatti che documentano l’attività dell’artista anche nel suo fare.
Nel suo fare è proprio costruita la mostra, intendendo con ciò la dominante dettata dal percorso allestitivo che, nella prima sezione, propone la ricostruzione di taluni spazi originali e opere delle mostre realizzate dall’artista fra il 1965 e il 1968.
La prima è quella della Galleria la Tartaruga di Roma aperta a gennaio 1965, dove spiccano i dipinti in rilievo ispirati alla Pop. Poi c’è quella di Torino da Gian Enzo Sperone del 1966, famosissima per la serie delle armi giocattolo ingigantite che occupavano quasi l’intero spazio della galleria, infine all’Attico, parte I a fine 1966 e parte II a primavera 1968, dove Pascali mette in forma curiosi animali nella prima, i noti Bachi da setola nella seconda. Dello stesso 1968 è, infine, la partecipazione alla XXXIV Biennale di Venezia che lo consacra fra gli artisti più geniali del momento.
Dicevamo della relazione intessuta da Pascali fra la scultura e lo spazio, quello della galleria come nei casi sopra, che non è sbagliato immaginare alla stregua di un vero e proprio spazio scenico. Non dimentichiamo, infatti, che durante il soggiorno romano l’artista lavorava anche come aiuto scenografo in diverse produzioni televisive Rai e collaborava come designer e scenografo per il cinema e per alcune agenzie pubblicitarie. Aspetto non marginale che anzi, anche alla luce degli studi più attuali sull’arte degli anni della contestazione, farebbe emergere come il tema dello spazio, la sua interpretazione innovativa oltre il canonico del museo e poi della galleria, sarebbe da rivedere sovrapposto a quello del teatro e alle ricerche, sempre di quegli anni, a esso connesse. Troppo spesso disgiunte, arte contemporanea e teatro, forse proprio la mostra di Pascali può aiutare nuove generazioni di critici e studiosi a rivedere questa relazione, a partire dalle modalità di allestimento non convenzionali messe in scena dall’artista. Modalità confermate dalle numerose fotografie esposte, che mostrano l’artista in posa con le proprie opere. Scatti realizzati, anche e soprattutto, con fini di studio, per valutare la relazione degli oggetti creati con il proprio corpo, da intendersi anche più genericamente come corpo del pubblico.
Ancora, sempre in riferimento all’aspetto scenico generale del lavoro di Pascali, troverebbe significato l’aver replicato le opere 32 mq di mare circa (1967), della Galleria Nazionale di Roma e 9 mq di pozzanghere (1967) dalla Pinacoteca metropolitana di Bari, rispettivamente esposte la prima nella galleria sud, la seconda nella nord. Non si tratta, infatti, degli originali, le opere in questione non sono state prestate ma letteralmente replicate. Esse mostrano così tutta la forza e il valore della copia. Se i più radicali gridano inorriditi di fronte a un non originale, ci sarebbe invece da riflettere sul valore di creazione dell’opera, laddove anche una copia, una replica per l’appunto può essere originale come lo è uno spettacolo a teatro?
La domanda è aperta e molto interessante per le ricerche sull’arte contemporanea perché si dipana una possibilità di trasversalità dei linguaggi, finora poco esplorata.
Continuando. Una seconda sezione di mostra indaga alcuni fra i più significativi interventi in collettive alle quali l’artista prese parte in quegli anni, mentre la terza è quella che più di tutte mette in luce l’interazione di Pascali con le sue sculture, sia per la presenza di immagini fotografiche dal valore più che documentativo e alcune opere divenute icone del Novecento, come Vedova blu del 1968. Infine, la quarta scandaglia l’approccio di Pascali con i materiali naturali e industriali.
Una mostra, secondo Mark Godfrey di grande attualità come lo era Pascali perché – come scrive il curatore nella presentazione che accompagna la mostra, egli – «era un’esibizionista’. […] Pascali comprendeva che gli artisti del dopoguerra dovevano dedicare altrettante energie all’attività espositiva quante quelle dedicate a rifinire le opere in studio».
Godfrey stesso sembra fare propria la lezione di Pascali.
Cosa stiamo guardando davvero? Se l’attività espositiva è tanto importante, non staremo forse, più che osservando, vivendo l’opera di Pascali?
L’immagine di copertina è della mostra “Pino Pascali”, Fondazione Prada, Milano
Foto: Roberto Marossi, Courtesy: Fondazione Prada
In primo piano: Pino Pascali, Vedova blu, 1968_mumok – Museum moderner Kunst Stiftung Ludwig Wien, Leihgabe der
Österreichischen Ludwig-Stiftung. In prestito dall’Austrian Ludwig Foundation dal 1981
In secondo piano: Claudio Abate, Pino Pascali con Vedova blu (1968). “Sesta biennale romana. Rassegna delle Arti Figurative di Roma e del Lazio”, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1968
Photo Claudio Abate © Archivio Claudio Abate