Dal 20 febbraio le cose anche in Italia non sono più come prima. Il tanto temuto covid-19 è arrivato e, nel giro di poche settimane, ha stravolto le nostre vite. Ce lo aspettavamo, forse, ma non con questa portata ed intensità. Nessuno era pronto per un confinamento prolungato come questo, nessuno, nemmeno noi, professori universitari.
Abbiamo cercato di adattarci subito e ci siamo riusciti, pur fra le difficoltà iniziali, ma di certo ci manca il contatto fisico coi nostri studenti. Stiamo ora sperimentando un mondo nuovo, totalmente e forzatamente virtuale, e ne stiamo valutando tutti i pro e i contro.
Certo è comodo non doversi alzare dalla sedia per andare ad insegnare, farlo da casa, non dovendo andare fisicamente al lavoro, ci fa risparmiare tempo, possiamo essere più efficienti, passare da un task all’altro rapidamente, fare tre o quattro cose in un giorno spostandoci virtualmente da un capo all’altro del mondo, ma questa quantità va a scapito della qualità?
A mio avviso, e a detta di tanti, è ormai chiaro che questa efficienza pesa sull’efficacia. Una cosa che, da economista regionale, ci siamo sempre detti nella nostra comunità internazionale è come i cosiddetti face-to-face contacts (i contatti faccia a faccia) siano una parte imprescindibile del successo, anche economico.
Lo scambio di informazioni che avviene quando si è vicini, nel mondo reale, non equivale a quello del mondo virtuale. I due mondi convivono bene, ma non sono perfetti sostituti, sono complementari. Quante volte, nel nostro mondo di prima, nel nostro mondo che ormai chiameremo pre-covid, ci si mandava una e-mail per organizzare un incontro di persona? Questa consapevolezza tacita che un incontro di persona fosse meglio è ora diventata più chiara e tutti aspettiamo con ansia il momento in cui ci sarà detto che possiamo tornare a vivere come prima, a parlarci di persona senza avere paura di questo nemico silente.
Ma, sarà davvero tutto come prima? Noi professori universitari torneremo ad insegnare come prima? Che cosa avremo imparato da questa esperienza?
Come in tutti i disastri, sia naturali che sanitari come questo, possiamo sforzarci di imparare. Da questo forzato isolamento abbiamo imparato tante cose. Prima di tutto abbiamo imparato a non fermarci. Ci siamo inventati vie alternative per continuare ad insegnare e ad imparare. Non solo merito dei professori, ma anche degli studenti che, a volte chiusi nelle loro stanze soli, hanno avuto la forza di andare avanti e non farsi abbattere, cosa non facile quando si è giovani e abituati ad una vita sociale a volte addirittura frenetica. Abbiamo imparato la straordinaria capacità degli esseri umani di adattarsi anche a situazioni estreme e l’abbiamo fatto perché tutti siamo diventati parte di questo grande progetto per il bene comune. Abbiamo capito (forse non tutti, ma in tanti si) di essere artefici non solo del nostro destino, ma anche del destino altrui.
Abbiamo capito che, come dicono alcuni, siamo tutti nella stessa tempesta, ma in barche diverse e che dobbiamo curarci dei più deboli perché la loro barca non affondi. Io continuo ad insegnare online, mi tengo in contatto con studenti e colleghi, con la consapevolezza che la storia, non io, sta insegnando a questa generazione di giovani la più grande lezione della loro vita.