La fine del lungo regno di Angela Merkel ha fatto interpretare le elezioni tedesche come la fine di un’epoca. Ma l’esito delle elezioni dovrebbe spingerci a spostare lo sguardo dalla conclusione di una lunga fase storica all’inizio di un nuovo periodo, di cui possiamo tentare di decifrare i primi segni. La vittoria chiara, anche se di misura, della Spd, il collasso della Cdu, il risultato importante dei Verdi, anche se al di sotto delle loro aspettative, il buon dato dei liberali, la sconfitta della estrema destra e della sinistra radicale, disegnano un volto della Germania insieme in continuità con il passato e inatteso. Forse possiamo guardare al risultato di Berlino come all’instaurarsi di un nuovo clima di opinione come cornice interpretativa di una fase politica che oggi muove i primi passi. Ma se a compiere la prima mossa è la Germania, il baricentro dell’Europa, la sua influenza potrebbe estendersi alle altre società nazionali. In modo particolare potrebbe influenzare l’Italia, che l’esperienza del governo Draghi ripropone come un laboratorio che anticipa tendenze più generali. Berlino, dunque, inaugura un nuovo clima di opinione europeo?
Prima di tentare una risposta, occorre chiarire cosa dobbiamo intendere per clima di opinione. Si tratta di un concetto introdotto dalla studiosa tedesca Noelle Neuman nel suo libro La spirale del silenzio: si può parlare di clima di opinione quando un evento-chiave, o una sequenza di eventi collegati, si trasforma in un frame interpretativo, uno schema di riferimento, che attiva modelli mentali latenti e pre-definisce la situazione in cui agiscono gli attori sociali. Quando si instaura un clima di opinione gli avvenimenti e i temi connessi vengono giudicati dal pubblico (forse sarebbe più esatto dire che avviene una pre-comprensione) secondo una certa interpretazione. È come se i cittadini, ha scritto il professore Carlo Marletti, avessero indossato un paio di occhiali che «lasciano scorgere certi aspetti della realtà e non consentono di vederne altri». Se un clima di opinione persiste dà origine a un ciclo politico. Siamo a questo punto? A Berlino regna un nuovo ciclo politico? Si tratta di capire se l’incertezza è giustificata.
Prima del voto la Germania non sembrava contagiata dal virus della frammentazione sociale che ha colpito le democrazie. Invece, le elezioni ci hanno rivelato che uno dei meriti di Angela Merkel è stato avere saputo tenere unita l’Europa colpita da molte crisi diverse (crisi economica, migratoria, Brexit, terrorismo, diverse guerre, Covid), ma di avere raggiunto lo stesso obiettivo anche all’interno della sua nazione. Nonostante le fibrillazioni, l’adesione alla politica pragmatica della Cancelliera ha come velato la progressiva frammentazione della società. Il collante del mosaico tedesco era lei: la mutter dei tedeschi. Quando la Merkel ha deciso di ritirarsi, nell’urna è subito emersa la differenziazione sociale all’opera nelle società occidentali. Per avere un quadro completo di questo processo, che ha nell’individualismo il suo protagonista, occorre leggere il libro del professore Andreas Reckwitz, The society of singularities in cui spiega che dovremmo interpretare la modernità come crisi delle generalizzazioni, innescata da una pluralizzazione delle visioni del mondo, dalla individualizzazione degli stili di vita, dalla differenziazione di valori e interessi. Questa trasformazione ha provocato il declino della rappresentanza e delle organizzazioni politiche. Oggi sappiamo che ha scavato in profondità anche nel sistema politico in Germania. Se a Berlino dal dopoguerra a oggi hanno sempre governato due partiti, dopo la Merkel potrebbero nascere coalizioni con tre partiti o persino quattro.
La frammentazione del Bundestag si tradurrà necessariamente in una maggiore difficoltà a trovare un accordo? Sarà più complicato decidere? Berlino somiglierà a Roma prima di Draghi? Detta in altri termini: la frammentazione si tradurrà in polarizzazione e ingovernabilità? Il rischio c’è. Ma esiste anche la possibilità di un movimento in direzione contraria.
Anche nell’ultimo voto, la Germania ha privilegiato la stabilità come chiave per conservare la competitività e il benessere.
Il fattore che più di ogni altro definirà la capacità del prossimo governo di decidere e gestire le grandi sfide che incombono sarà il contratto politico che verrà stipulato e la cultura sottostante. Per quanto possa apparire paradossale, concentrare l’agenda politica su grandi sfide come la transizione ecologica, l’equilibrio tra temi sociali e difesa del sistema economico, la digitalizzazione della società, potrebbe favorire l’accordo invece che impedirlo. Del resto, Berlino può guardare a Roma per capire se questo modello è in grado di funzionare: il governo Draghi non si regge per la riconosciuta autorevolezza del premier. L’architrave della nostra attuale governabilità è la necessità vitale dell’Italia di ottenere una forte crescita, investendo bene le ingenti risorse europee del PNNR e varando riforme che modernizzino il paese.
Le grandi sfide sorreggono il governo Draghi: se l’Italia le perdesse dovrebbe sopportare pesanti conseguenze per il benessere di cittadini e imprese. Le esperienze di altri paesi confermano che maggioranze più ampie, e talvolta contraddittorie, finiscono per essere più efficienti di governi con una base parlamentare meno ampia ma più coesa. Le grandi sfide spingono i partiti a guardare in prospettiva. E nel lungo termine su questioni complesse si possono trovare dei punti di incontro. È quando prevale il breve termine che sale lo scontro tra i partiti, che si litiga anche su dettagli più o meno importanti. La Germania, quindi, nelle prossime settimane di trattative si troverà a scegliere tra la desiderabilità politica, quale governo piacerebbe agli elettori, e l’efficienza politica, una maggioranza di forze diverse che hanno obiettivi politici convergenti in grado di definire soluzioni e rispondere alle aspettative dei cittadini. Il confronto tra le diverse visioni del mondo potrebbe rafforzare questa tendenza, perché le visioni politiche sono a lungo termine, si basano più su principi astratti, su progetti complessivi, che possono favorire un dialogo, se lo si vuole, e la ricerca di una intesa.
La competitività delle imprese tedesche è davvero in contrasto con una nuova politica ambientale? Forse in un grande scenario in cui si immagina un nuovo modello di sviluppo, una soluzione concordata è possibile. A Berlino, quindi, potremmo vedere applicata una nuova logica nel rapporto tra frammentazione e consenso: vale a dire la frammentazione sociale non deve necessariamente tradursi in una dispersione del consenso. Al contrario, in maniera contro-intuitiva, la frammentazione potrebbe coagulare il consenso, perché i cittadini avvertono i rischi che minacciano la società. E sostengono lo sforzo del sistema politico. Le grandi sfide cioè svolgono un ruolo positivo nell’allargare il fronte per sopravvivere al loro impatto. É quello che accade in Italia. Se questa logica s’nstaura a Berlino, potrebbero esserci riflessi su tutta Europa.
Il problema è che la frammentazione sociale produce frammentazione parlamentare. Ma non è detto che la frammentazione parlamentare produca ingovernabilità. Potrebbe scattare l’effetto opposto. Senza andare lontano, è sufficiente guardare al Parlamento europeo. Dopo le elezioni del 2019, è finito il tempo della «grande coalizione» tra il Ppe e i partiti socialdemocratici nelle istituzioni dell’UE. Questi partiti, infatti, hanno perso la maggioranza assoluta. Allora si diffuse il timore che non sarebbe stato facile eleggere una nuova Commissione e che l’Europa sarebbe andata incontro a una fase di stallo. È successo il contrario. Nonostante la frammentazione del Parlamento europeo, Ursula von der Leyen è stata eletta nuova presidente con un ampio consenso. E ha affrontato subito i grandi temi, ha aperto la strada a un consenso parlamentare più largo, che non a caso è stata ribattezzata «maggioranza Ursula». E nel parlamento europeo non si esclude di spostare ancora più avanti i confini. Anche la presidente della Commissione ha imperniato la propria agenda sulle grandi sfide: la pandemia, la trasformazione verde e digitale del continente. Proprio i temi e l’area politica in cui, nonostante le difficoltà, sono possibili delle sinergie. I grandi temi connessi a grandi sfide e a grandi incertezze sul futuro possono costruire il consenso necessario per fronteggiarle. Le divisioni restano in Germania. Ma la diversità sociale e politica potrebbe imboccare una via non conflittuale. Una via in cui il conflitto non sparisce, ma è compreso e superato.
Il dilemma del dopo Merkel è scegliere tra il conflitto per le diversità e la mediazione tra le diversità in conflitto, che comporta cooperazione. È vero che la democrazia è il dispositivo che dovrebbe servire a regolamentare il conflitto, incanalando la soluzione attraverso leggi e riforme. Ma negli anni dell’antipolitica, in cui hanno prevalso radicalizzazione e movimentismo e con essi la sfiducia, è apparso più chiaro che le istituzioni democratiche faticano a regolare il conflitto alimentato dal populismo. E il conflitto ha debordato nella società. Non dimentichiamo la lezione di Lewis A. Coser ne Le funzioni del conflitto sociale del 1967: più il conflitto avviene tra soggetti la cui distanza sociale è ridotta, come all’interno di una comunità nazionale, più il conflitto può avere effetti distruttivi.
L’esempio americano può fornirci un’utile traccia. Trump vinse le elezioni ricevendo meno voti della Clinton: vinse perché utilizzò con maggiore perizia il sistema elettorale americano, ma non perché ottenne più consenso. Ne ebbe meno, ma meglio distribuito tra gli stati. Trump così è stato vissuto come il presidente di una «maggioranza fragile» che è riuscita a imporsi a una «minoranza forte». Metà del Paese non lo riconobbe e molti considerarono la sua elezione un trucco legale. Trump poi ha cercato di utilizzare una giustificazione simile per delegittimare la vittoria, questa volta netta, di Biden. Nelle società frammentate di oggi le maggioranze hanno spesso margini ristretti. Quindi appaiono fragili. E le minoranze sono spesso forti. Il conflitto rischia di esacerbare le tensioni, in qualche caso, come nella Francia dei gilet gialli o negli Usa dell’assalto al Campidoglio, può emergere la violenza dei perdenti. Se la Noelle-Neumann aveva diagnosticato maggioranze rumorose e minoranze silenziose, oggi la situazione potrebbe rovesciarsi. Le maggioranze con margini ristretti faticano a ottenere dagli esclusi la legittimazione a gestire il potere. Così si rafforza la polarizzazione. Gli sconfitti-esclusi di misura si percepiscono espropriati del risultato, che era a portata di mano, e spesso negano il riconoscimento. Le parti in lotta non condividono più i valori fondamentali su cui si regge il sistema sociale, che minaccia di collassare. A Berlino la Spd ha vinto, ma dai democratici li separa l’1,6 per cento. Una vittoria chiara, ma di misura. Proseguire la competizione rischierebbe di aumentare l’instabilità e di produrre ingovernabilità. Per questo la Spd sembra puntare alla costruzione di una maggioranza larga, che raccolga un ampio consenso sociale e favorisca la cooperazione di forze e aree elettorali differenti. Una maggioranza per la prima volta con tre partiti: Spd, Verdi, Liberali. Una maggioranza che imita quello che è avvenuto in Italia e nel parlamento Europeo. E costruisca fiducia.
In un recente articolo pubblicato su il Mulino, il professore emerito Alfio Mastropaolo, ha posto in evidenza come ci sia un compromesso alla base del governo Draghi. Mi permetto di proporre di preferire a compromesso il termine mediazione. Il compromesso enfatizza la rinuncia bilaterale di due avversari che si trasformano in contraenti: una rinuncia reciproca può comportare un prezzo politico e persino morale. Con il concetto di mediazione, invece, viene evocata la ricerca di un punto di convergenza tra valori e interessi diversi in cui le identità politiche riconoscono un obiettivo superiore, il bene comune. Ma l’elemento interessante è che la mediazione può rappresentare, se condotta bene, un atto trasformativo della società. La mediazione, cioè, può produrre riforme, può far avanzare una società, senza far sparire i diversi punti di vista, anzi tenendone conto. Nel compromesso l’altro viene tollerato in osservanza del principio del pluralismo e della comune convenienza; nella mediazione l’altro viene rispettato, in qualche modo viene apprezzato. Il compromesso raramente offre gratificazione, mentre la mediazione può farlo (soddisfazione per l’accordo raggiunto). È il sociologo Collins che ci ha insegnato in un testo del 1990 Stratification, emotional energy and the transient emotions, che gli individui nelle interazioni tendono a massimizzare il benessere emotivo. E i politici non fanno eccezione. La mediazione può contribuire a prevenire un aspro conflitto, può sostenere il lavoro delle istituzioni democratiche, può anche essere rinnovatrice, dato che permette di rimettere in discussione i modelli e migliorare non solo la società, ma pure il legame tra gruppi sociali e persone. La mediazione chiama in causa due principi: quello di partecipazione di soggetti diversi al governo del paese e quello di responsabilizzazione di ciascuno nella risoluzione delle divergenze e nelle scelte. La forza della mediazione consiste nel coinvolgimento dei protagonisti del conflitto. Se c’è un messaggio all’Europa che esce dalle urne tedesche riguarda proprio la democrazia: investita da una sequenza di crisi, essa sembra riconfigurarsi secondo una nuova logica e un differente assetto. E la Germania ha scelto il cambiamento e insieme la normalizzazione.
Il vero tema del dopo Merkel sembra: assicurare la realizzabilità dello sviluppo equilibrato del contesto nazionale. Non a caso le frange più radicali a destra e a sinistra sono state punite dagli elettori. L’uscita di scena della Cancelliera è vissuta con rammarico, ma la Germania ha mostrato la sua nuova identità: un paese più frammentato, pragmatico, moderato, ma consapevole che così com’è oggi non potrà essere domani. Occorre stabilità per difendere il benessere, ma troppi dossier cruciali sono aperti: la transizione ecologica, la digitalizzazione del sistema pubblico e privato, l’eguaglianza sociale incompiuta, il ruolo geopolitico tedesco ed europeo rispetto alla competizione Usa-Cina, il futuro dell’Europa. La risposta della Germania però non è stata la competizione. Non ha privilegiato l’idea ispirata da un mercato interpretato (seguendo il neoliberismo) come luogo di scontro con vincitori e perdenti in cui l’individuo massimizza egoisticamente la propria utilità. Al contrario, la Germania ha indicato la preferenza per una concorrenza-cooperativa, che non può esistere se non c’è un mutuo riconoscimento sociale e morale, che genera solidarietà. Quindi il mercato come istituzione sociale e non individuale. Si potrebbe dire che la Germania aveva in mente l’Hegel della Filosofia del diritto quando è andata a votare. Il dopo Merkel non deve essere una scommessa, ma l’inizio di una nuova storia, che impari dalla mutter. Noi oggi sappiamo che la narrazione, il modo in cui parliamo di noi stessi e delle nostre storie, modella l’esperienza al punto da costruire una realtà simile al processo discorsivo.
Diventa più chiaro il riferimento al frame interpretativo del clima politico che a sua volta potrebbe instaurare un diverso ciclo politicoin Germania e forse in Europa. In questo clima non è decisiva la distinzione dagli altri partiti, che richiama l’identità simbolica, ma la rivendicazione del buon lavoro compiuto al governo. Olaf Scholz si è presentato come l’erede della Merkel con lo slogan: «Lui può essere la cancelliera». La Germania è più frammentata, sente nostalgia per la Merkel, ma desidera normalità e cambiamento. O forse: il cambiamento nella normalità. Una via da inventare. Come fa l’Italia.