Tra i molti temi sensibili che saranno sul tavolo delle istituzioni europee in quest’anno appena iniziato, quello della riforma del Patto di Stabilità e Crescita, ovvero delle regole europee in materia di finanze pubbliche, spicca per più di una ragione. Anzitutto, per la rilevanza cruciale che assume per l’Italia, che deve fare i conti con un debito pubblico ormai al di sopra del 150% del PIL. In secondo luogo, perché il problema del debito elevato riguarda ormai diversi paesi europei (il rapporto debito/Pil dell’eurozona supera il 90%). In terzo luogo, perché le prospettive economiche a breve termine appaiono tutt’altro che rassicuranti, ed è cruciale raggiungere un’intesa su come fronteggiarle con strumenti di politica fiscale. In tale contesto, non è esagerato dire che la riforma del Patto sarà un banco di prova della capacità di coesione dell’Unione europea e del suo saper essere all’altezza delle sfide che ha davanti.
Il 9 novembre scorso la Commissione europea ha presentato la sua proposta, che è già stata oggetto di molti dibattiti, valutazioni e critiche, ma che ancor più lo sarà man mano che si andrà avanti nel percorso negoziale tra i governi europei. È utile ricordare brevemente qual è il quadro di partenza e quali sono i nodi da affrontare.
Il Patto di Stabilità e Crescita è il sistema di regole che, fin dalla nascita della moneta unica, ha definito gli obiettivi e i vincoli di finanza pubblica che i paesi dell’euro sono tenuti a rispettare, al fine di assicurarne la stabilità e la sostenibilità. Nella percezione collettiva, queste regole sono per lo più associate al rispetto dei limiti del 3% del rapporto deficit/Pil e del 60% del rapporto debito/Pil. In verità la normativa europea è molto più articolata e complessa, eccessivamente complessa, dicono in molti, e per alcuni aspetti inapplicabile.
Il Patto di Stabilità e Crescita ha avuto un’esistenza tormentata, contrassegnata da contestazioni, difficoltà di applicazione, dispute interpretative. Nel corso di un quarto di secolo è stato più volte rivisto e reinterpretato, al fine di renderlo, volta per volta, più intelligente, più attuabile, più rigoroso e più efficace. L’ultima grande revisione risale agli anni della crisi del debito sovrano nell’eurozona, tra il 2010 e il 2013, quando il Patto di Stabilità e Crescita è stato al centro di una vasta riforma della governance dell’Unione economica e monetaria, contenuta in vari strumenti legislativi che portano i nomi di Six Pack, Two Pack, Fiscal Compact. È importante richiamare gli aspetti più salienti di queste norme, dal momento che sono ancora in vigore.
Cominciamo dal nucleo centrale delle regole del Patto, quello che è rimasto immutato nel tempo.
I paesi dell’euro hanno l’obbligo di assicurare un bilancio pubblico in pareggio o in leggero surplus nel medio periodo, a non oltrepassare in ogni caso un deficit del 3% del PIL e a mantenere il debito pubblico al di sotto del 60% del PIL, o comunque a ridurlo significativamente per avvicinarsi a quella soglia. I paesi inadempienti sono sottoposti alla cosiddetta «procedura per deficit eccessivo», che inizia con richiami e raccomandazioni e può spingersi fino a sanzioni pecuniarie importanti. L’ultima riforma ha inteso potenziare queste regole introducendo, tra l’altro, vincoli stringenti per il percorso di aggiustamento, meccanismi automatici di correzione in caso di deviazioni da quel percorso, verifica preventiva delle leggi nazionali di bilancio a livello europeo, trasposizione delle regole europee in norme nazionali con valore costituzionale.
Tra le molte regole aggiunte al nucleo iniziale, è importante segnalare la cosiddetta regola del debito, che impone ai paesi con debito superiore al 60% di attuare riduzioni annuali del debito tali da ricondurlo al livello prescritto entro un periodo massimo di venti anni. Per comprendere le implicazioni di questa regola basti dire che, per rispettarla, attualmente l’Italia dovrebbe ridurre il debito di quasi cinque punti percentuali del PIL ogni anno e per il prossimo ventennio!
Va detto peraltro che già negli anni immediatamente successivi alla grande riforma erano emerse evidenti difficoltà di attuazione. La stessa Commissione europea, all’epoca guidata da Jean-Claude Juncker, si era preoccupata dell’impatto delle nuove regole sulla crescita economica, e nel 2015 si era adoperata per far valere un’interpretazione flessibile delle regole, aprendo alcuni spazi per finanziare riforme e investimenti. Nel 2020, in concomitanza con la crisi del COVID-19, la Commissione europea ha subito proposto di far valere la «clausola generale di salvaguardia» del Patto di Stabilità, ovvero la sua sospensione di fatto fino a tutto il 2022, e il Consiglio ha validato la proposta. Questo limite temporale è poi stato esteso alla fine del 2023 a seguito della crisi energetica.
Mentre si avvicina la scadenza della clausola di salvaguardia, si moltiplicano le inquietudini sul dopo. Infatti, il grave deterioramento dei parametri di finanza pubblica a seguito della crisi pandemica, unitamente alla consapevolezza che nei prossimi anni saranno necessari massicci investimenti pubblici, oltre che privati, per finanziare la doppia transizione, climatica e digitale, rendono impensabile un ritorno a regole che già prima apparivano un corsetto troppo stretto, quantomeno per i paesi ad alto debito. Con la sua proposta di riforma, la Commissione si sforza di predisporre un quadro normativo più adeguato alle sfide da affrontare.
Pur tenendo fermi i valori di riferimento del 3% per il rapporto deficit/PIL e del 60% per il rapporto debito/Pil, definiti dai Trattati Europei (e difficilmente modificabili date le complesse procedure e requisiti istituzionali), la proposta intende caratterizzarsi per un maggior realismo e una maggiore compatibilità con l’esigenza di salvaguardare investimenti e crescita. Inoltre, cerca di lasciare una più grande autonomia agli Stati membri nella definizione dei percorsi di rientro degli squilibri delle finanze pubbliche, pur tenendo conto delle diverse posizioni di partenza. Infine, a fronte di una maggiore semplificazione e flessibilità nell’applicazione delle regole, la proposta prevede sanzioni più articolate e più automatiche in caso di mancato rispetto degli impegni assunti.
Vediamo più concretamente i contenuti del progetto di riforma-. La proposta prevede che, in prima istanza, la Commissione definisca un sentiero di rientro nei parametri coerente con la situazione fiscale del paese, basato su un’analisi di sostenibilità del debito. Si avrebbero così percorsi di rientro diversi per paesi a rischio elevato e a rischio moderato . Sulla base del percorso così delineato, gli Stati membri prepareranno un piano di rientro quadriennale, che includerà anche le riforme e gli investimenti che il paese intende attuare anche in vista del raggiungimento degli obiettivi dell’UE (il “Fiscal-Structural Plan”). Il periodo di aggiustamento potrà essere esteso fino ad un massimo disette anni se le riforme e gli investimenti previsti favoriscono il riequilibrio fiscale.
Il percorso di aggiustamento fiscale avrà come principale riferimento la spesa netta primaria, ovvero la spesa pubblica annuale al netto di entrate discrezionali, degli interessi sul debito e degli effetti del ciclo economico. Scomparirebbe la regola sul debito introdotta dal Six-pack (riduzione di 1/20 all’anno del debito eccedente la soglia del 60%), ma resterebbe la procedura per i disavanzi eccessivi basata sul debito, la cui attivazione scatterebbe nel momento in cui uno Stato membro con un debito superiore al 60% del PIL dovesse oltrepassare il limite di spesa (netta primaria) concordato. Scostamenti dagli impegni assunti verrebbero sanzionati in modo più articolato e sistematico. Il ricorso alle sanzioni finanziarie sarebbe reso più praticabile grazie a un loro ridimensionamento. A queste si aggiungerebbero sanzioni di tipo «reputazionale», come per esempio l’obbligo per le autorità dei paesi inadempienti di rispondere di fronte al Parlamento europeo. Inoltre, verrebbe applicata la condizionalità macroeconomica per i Fondi strutturali e per il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza, con la sospensione dei finanziamenti in caso di inadempienze. Questo, molto in sintesi, sarebbe il nuovo Patto di Stabilità e Crescita.
La proposta della Commissione presenta indubbiamente aspetti positivi, e tra questi vanno segnalati in primo luogo la maggiore enfasi su crescita e investimenti e una più grande considerazione degli obiettivi comuni europei. La stabilità delle finanze pubbliche viene vista infatti all’interno di un percorso complessivo di aggiustamento macroeconomico, in cui investimenti e riforme sono variabili cruciali. La politica economica di un paese diventa davvero «questione di interesse comune», con l’interazione tra paese e istituzioni europee intesa ad assicurare che le politiche nazionali lavorino verso gli obiettivi europei (primo fra tutti quello della doppia transizione climatica e digitale). Il percorso di aggiustamento potrà essere più realistico, perché collocato in un orizzonte di medio e lungo periodo (quattro anni estensibili a sette). Viene abbandonata la regola del debito che, nella sua versione attuale, sarebbe più che mai inapplicabile.
Ma non mancano aspetti critici, che riguardano, tra l’altro, la semplificazione, i meccanismi sanzionatori, e l’impatto macroeconomico delle nuove regole. Tra le obiezioni mosse alla proposta della Commissione, alcune osservano che le nuove regole, basate su analisi di sostenibilità del debito e regola della spesa, comportano comunque notevoli complessità analitiche e rischi di scarsa trasparenza. Autorevoli analisti hanno anche obiettato che il mantenimento del parametro del debito al 60%, in una situazione in cui il debito medio dell’eurozona supera ormai il 90% comporterà inevitabilmente un eccesso di restrizione fiscale.
È prevedibile che il negoziato tra i paesi non sarà facile, date le tradizionali divisioni che vedono contrapposti i paesi rigoristi, con in testa la Germania, ai paesi maggiormente indebitati, con l’Italia in prima linea. Tra gli aspetti probabilmente più controversi: la maggiore flessibilità e discrezionalità introdotta, che probabilmente non sarà apprezzata dai primi, e il mantenimento dei valori di riferimento (soprattutto per il debito) e l’introduzione di sanzioni più articolate e automatiche, che i secondi troveranno difficile da accettare. A questo proposito, andrebbe osservato che il mercato già sanziona di fatto comportamenti non virtuosi, attraverso l’allargamento degli spread, con costi potenzialmente superiori a quelle delle sanzioni finanziarie. C’è da aggiungere che la condizionalità sui fondi europei rischierebbe di accrescere le difficoltà dei paesi a rispettare i percorsi di aggiustamento.
Vi è anche un aspetto di equilibrio istituzionale che potrebbe non piacere ai governi nazionali, e cioè il ruolo più decisivo e pervasivo, e per certi versi anche più discrezionale, che la Commissione avrebbe nel processo. Anche su questo punto si sono appuntate le critiche di alcuni commentatori, che hanno espresso il timore che l’accresciuto potere della Commissione possa dar luogo a una dinamica conflittuale tra l’esecutivo europeo e i governi nazionali, col rischio di dare spazio a demagogie antieuropee.
In verità, se c’è una lezione che si può trarre dall’esperienza degli ultimi due decenni è che la Commissione ha avuto un ruolo cruciale nel promuovere e tessere i compromessi e introdurre le flessibilità che hanno consentito alla moneta unica di sopravvivere a crisi di portata imprevedibile. Guidata dalla missione primaria di garante e motore dell’integrazione europea, la Commissione ha più volte esercitato il suo potere propositivo e messo in campo la sua capacità di mediazione per evitare strappi con conseguenze irrimediabili. Di questa capacità politica avremo molto bisogno in un futuro che si annuncia più che mai incerto e carico di nubi. È questo, forse, il valore più importante di questa proposta, che indubbiamente non è una panacea per la soluzione dei problemi di sostenibilità dell’euro e che sicuramente è migliorabile, ma rappresenta un ancora per evitare un ritorno a regole inadeguate e obsolete e per affrontare i rischi di una navigazione in acque tempestose.