Dopo avere investito non poche risorse politiche nella strategia del campo largo, il Pd si ritrova senza strategia e con l’ex alleato nel ruolo di avversario. Almeno per ora la via del campo largo sembra impraticabile. Per il Pd il problema più complesso è la risposta al nuovo scenario che si sta delineando. E decidere come muoversi. Il partito della Schlein ha commesso due errori di fondo, ma ha ragione sulla strategia elettorale che ha indicato: l’unità delle forze del centro-sinistra contro la destra. Per questo occorre innanzitutto decifrare la fase che è cominciata ed evitare di parlare di una sorpresa del M5S che non si poteva prevedere.
Gli effetti di un terremoto: la de-istituzionalizzazione
Il Pd non sembra avere considerato adeguatamente il quadro di profonda instabilità che ha investito il sistema politico italiano. Non ha assimilato la convinzione che l’instabilità fosse cronica e potesse danneggiare più l’area progressista che quella conservatrice, che pure è pervasa da divisioni. A destra, infatti, sembra essere stata in parte riassorbita la destrutturazione attuata dagli elettori con un successivo riallineamento. Le prossime elezioni europee dovrebbero incaricarsi di confermare i nuovi rapporti di forze. In questo quadro, il punto di riferimento della destra è ormai Giorgia Meloni, il perno dell’alleanza è diventato FdI. Nel centro-sinistra, invece, le scosse proseguono, mentre sembra lontano l’assestamento con un partito egemone e una leadership riconosciuta, come sta avvenendo a destra sia pure tra molte tensioni. Gli effetti si vedono.
Gli studiosi di scienza politica definiscono questa condizione di cambiamento continuo del sistema dei partiti con il termine di de-istituzionalizzazione. In particolare, ne hanno esaminato la questione i professori Chiaramonte e De Sio nel loro ultimo, importante libro, Un Polo solo, edito da Il Mulino, dedicato alle elezioni del 2022.
La de-istituzionalizzazione si caratterizza per i frequenti cambiamenti nei rapporti di forza tra i partiti, per l’imprevedibilità degli accadimenti in cui emergono nuove organizzazioni, nuovi leader, si configurano coalizioni diverse. Questo stato perdura nel tempo e richiede di essere analizzato in un’ottica di lungo periodo. Quello che occorre sottolineare è che nella de-istituzionalizzazione si fuoriesce da un sistema di partiti, che ha una forma e delle proprietà, ma non viene sostituito da un sistema differente. Si entra in una sorta di non-sistema fino a quando il processo di de-istituzionalizzazione non cambia direzione e si arresta. In Italia nel 1994, con l’ascesa di Berlusconi, e soprattutto tra il 2013 e il 2022, c’è stata la più forte tempesta elettorale d’Europa. Gli studiosi hanno elaborato degli indici con cui misurare questa crisi: la volatilità del sistema dei partiti, la sua alterazione, la sua innovazione accumulata. Tutti i dati, spiegano i professori Chiaramonte e De Sio, ci avvertono che nel 2013, poi nel seguito del 2018 con una sostanziale continuità dell’offerta politica, fino al 2022, l’Italia ha vissuto un terremoto politico che non ha eguali in Europa, neppure in Paesi come la Francia che pure hanno conosciuto profondi cambiamenti.
A destra assegnata l’eredità di Berlusconi, a sinistra conflitto tra eredi
È in questa prospettiva longitudinale, come la definiscono gli studiosi, cioè, misurata sull’arco di più elezioni, che occorre inquadrare la sorpresa di Bari da parte di Conte.
A destra il tema politico decisivo è l’assegnazione della eredità politica di Berlusconi. I recenti cambiamenti con l’ascesa della Meloni sembrano essersi stratificati. Le elezioni europee potrebbero convalidare l’idea che l’eredità politica del Cavaliere per ora è stata assegnata.
A sinistra invece la terra trema, perché ci sono due partiti che hanno dimensioni simili, due leader Schlein e Conte che hanno ambizioni simili, due elettorati differenti ma contigui, che hanno interessi simili. L’arena elettorale e quella parlamentare ci avvertono che a sinistra è in atto un aspro conflitto tra gli eredi. L’instabilità cronica scuote l’intera area di centro-sinistra alla ricerca di un assestamento, dopo anni in cui la guida del Pd non è mai stata contestata. Un sintomo di questa instabilità è la frantumazione dell’ex Terzo Polo e la sua possibile ri-aggregazione su basi diverse. È questo sfondo che ha lentamente trasformato la competizione interna al centro-sinistra in un conflitto (che ho trattato nell’articolo La debolezza strutturale del centrosinistra), che assume i tratti dello scontro distruttivo. Il primo errore del Pd, il partito più grande, è stato quello di non avere compreso fino in fondo le implicazioni di questo scenario in cui la sua centralità è contesa e i suoi rischi. Ne indico uno: per via indiretta il Pd è l’unico erede dei partiti fondatori della democrazia repubblicana, la Dc e il Pci. Nel Pd è confluito il retaggio delle forze politiche del dopoguerra in un sistema nel quale tutti gli attuali partiti non esistevano nel 1948. Un cambiamento che non ha eguali in Europa, dove operano molti partiti di lunga tradizione. Il partito che più di ogni altro, in questi anni, è stato caratterizzato da un ruolo decisivo nella de-istituzionalizzazione del sistema, è stato proprio l’alleato M5S. La diversa natura dei due partiti e la inedita competizione per la leadership non potevano non avere conseguenze sui rapporti politici: il Pd erede delle culture politiche che hanno fondato il sistema, il M5S nato come partito anti-sistema. È quello che è accaduto.
La trasformazione del M5S da alleato ad avversario-competitore
Il partito di Conte, infatti, ha avuto un effetto dirompente sul sistema politico italiano. Nel 2013 di fatto ha messo in crisi il bipolarismo, che con l’avvento di Berlusconi nel 1994 aveva segnato l’inizio della Seconda Repubblica. Il successo elettorale del M5S ha imposto un sistema tripolare. Gli effetti si sono visti nel 2018, quando è nato il governo Conte I con il M5S e la Lega di Salvini, il primo governo populista. Come è riuscito Grillo a causare il declino dell’ordine berlusconiano del bipolarismo? Con un partito che si è fatto imprenditore della protesta, della domanda di cambiamento.
Un partito populista, post ideologico, trasversale al punto da attrarre elettori di sinistra e di destra, oltre che astenuti. Se si guardano gli indici sulla de-istituzionalizzazione formulati dagli studiosi, il M5S ha fatto oscillare paurosamente il sismografo della politica italiana ed europea. Tuttavia, l’esperienza di governo con la Lega e poi con il Pd (il Conte II), ha favorito una trasformazione del M5S da partito post-ideologico, trasversale, in un partito che il sistema politico in parte ha riassorbito. Inoltre, Conte ha favorito una sua collocazione nel campo progressista. Si sono così realizzate le condizioni per un ritorno a casa di buona parte degli elettori di destra, che prima hanno transitato nella Lega, poi si sono spostati sulla Meloni e su FdI. Ma è la diaspora del M5S che ha disegnato il sistema, restituendo innanzi tutto centralità alla tendenza bipolarizzante.
In sostanza ha ripreso vigore la divisione sull’asse destra-sinistra.
Il M5S si è più che dimezzato elettoralmente, ma si è ritrovato con una identità meno controversa, sia perché ha restituito alla destra (in particolare a FdI) buona parte degli elettori conservatori, sia perché nel 2022 ha svolto una campagna elettorale centrata sulla dimensione economica dei problemi, in consonanza con le domande di molti cittadini. Il M5S ha imperniato la sua strategia sulla redistribuzione e sull’interventismo pubblico in economia, tradizionali temi di sinistra. Ha dato ampia rilevanza a un tema sentito dall’opinione pubblica come la lotta alla povertà senza dimenticare l’ambientalismo. Questa accorta scelta delle issues, mentre il Pd valorizzava i temi culturali, potrebbe aver frenato la fuga degli elettori soprattutto al sud. In ogni caso la politicizzazione del progressismo economico, ha reso il M5S meno ambiguo rispetto al suo posizionamento precedente. Oggi Conte sembra pronto a riesumare (con toni diversi) i temi anti-establishment del M5S populista, usati senza risparmio nel 2013 e nel 2018. Ma stavolta li rivolge contro il suo ex alleato: il Pd.
È ormai chiaro che il M5S si sente in grado di insidiare il primato del Pd da cui lo separano nei sondaggi pochi punti. Conte non ha mai dimenticato Palazzo Chigi. Vuole tornarci come leader dell’area progressista. Lungo il percorso di questo disegno ha un ostacolo e una opportunità: il partito della Schlein in difficoltà. A Conte il Pd serve e insieme deve ridimensionarlo. La tattica del tira e molla deriva da questo apparente doppio registro. Il M5S vuole cambiare i rapporti di forza dentro l’area progressista per ottenerne la leadership. Per riuscirci ha bisogno del Pd come alleato subordinato, ma deve anche sottrargli consensi. Nelle elezioni amministrative prima ha dichiarato la sua ambizione: i candidati dovevano essere scelti con il M5S se non dal M5S (Sardegna), l’alleanza deve riconoscere la parità tra i due partiti, gli altri seguono. Adesso in Puglia assistiamo a una evoluzione: il ritorno della vocazione populista dei grillini, con il tema del «noi contro loro» in primo piano. Il rilancio della questione morale, infatti, si inserisce in questo tentativo di addomesticare l’interlocutore riluttante (il Pd). Conte diserta le primarie di Bari, candida una figura non del Pd a sindaco, detta le condizioni sulla legalità, descrive il partito della Schlein come un partito inquinato, salvando la segretaria e presentandola come la vittima di un’organizzazione compromessa. Una strategia funzionale al ridimensionamento dell’alleato e a un passaggio del testimone per la leadership. Conte spera che le europee siano il teatro in cui mettere in scena questo sorpasso. Per indebolire ulteriormente la Schlein, ha deciso di colpirla proprio là dove forse la segretaria si credeva più coperta: la coalition-building. La trasformazione del M5S da alleato ad avversario-competitore è completata.
Colpire la coalition-building del Pd per colpirne la reputazione
A Bari la destra ha mosso il ministro dell’Interno Piantedosi per sciogliere il Comune per infiltrazioni mafiose, suscitando non poche polemiche. Conte non si accoda, ma chiede alla Schlein garanzie sulla legalità, assumendo il ruolo di nemico dei padroni delle tessere e quasi protettore della segretaria. In entrambi i casi l’obiettivo della narrazione è la credibilità politica e morale del partito da battere: il Pd, che pure ha cambiato in meglio Bari e la Puglia.
L’operazione di Conte è meno oltraggiosa di quella della destra, ma non meno insidiosa. Uno dei problemi che il Pd ha sofferto durante le elezioni del 2022 è stata la difficoltà a costruire l’alleanza con il M5S e il Terzo Polo, che potesse costituire una alternativa competitiva al centrodestra. I professori Chiaramonte e De Sio hanno calcolato che su 147 seggi uninominali previsti dalla legge Rosato alla Camera, il centrodestra se ne è aggiudicati l’82%. Di fatto ha vinto così le elezioni. Si potrebbe dire con i professori Chiaramonte e De Sio che al voto si è presentato solo il polo della destra unita.
Questa mancanza di competitività ha fatto emergere un deficit di credibilità del partito della Schlein (allora guidato da Enrico Letta), che si è trasformato in un danno reputazionale: non essendo in grado di vincere, il Pd non può mantenere le promesse. L’incapacità di costruirsi una efficace coalizione ha messo il Pd in condizioni di essere attaccato dal M5S già durante la campagna elettorale del 2022. Ora la scena si ripete: le primarie di Bari senza i grillini diventano la consultazione di un partito solo. Il contraccolpo è di risultare meno credibile nella corsa per il sindaco. Colpendo la coalition-building si colpisce la reputazione e l’agibilità politica dei democratici. Nello stesso tempo si getta un sospetto sulla moralità del partito. L’operazione di delegittimazione sembra completa e finalizzata a focalizzare l’attenzione pubblica sul M5S e sul candidato che sostiene. Conte sa bene che la Schlein ha ragione quando indica l’unità delle forze progressiste come il requisito per competere con la destra, in particolare nei collegi uninominali che hanno dato alla Meloni la maggioranza di destra più forte della sua storia con uno dei risultati elettorali meno brillanti. Ma la sua priorità in questa fase è l’indebolimento del Pd e la riconfigurazione del centro-sinistra con il M5S al centro.
Il Pd sfidato dalla doppia competizione interna-esterna
Il risultato di questo accerchiamento dell’alleato-avversario è che il Pd si trova ora a dovere fronteggiare due competizioni: una interna al centro-sinistra ed una esterna con la destra. Se la Schlein ha ragione nell’indicare l’unità delle forze progressiste come requisito per essere competitivi, ha gestito la strategia del campo largo senza considerare la natura del partito di Conte e i rischi insiti in un contesto di de-istituzionalizzazione con la sua grande instabilità. La segretaria non ha immaginato una strategia sia per contenere lo scomodo alleato-avversario, sia per affrontare un centrodestra molto diviso ma unito elettoralmente. Ancora una volta la coalition-building e l’assenza di competitività hanno penalizzato il suo partito. Non è stato considerato che la contesa tra i due partiti rappresenta la continuazione del confronto tra gli eredi dei partiti fondatori della democrazia (Dc e Pci) e il partito anti-sistema che ha causato una frattura elettorale nel Paese. Non ha valutato che la contendibilità della leadership del centro-sinistra rappresenta una sfida al Pd. L’accordo doveva essere gestito con più accortezza strategica. Ma tutti i partiti dell’area progressista, riformisti compresi, dovrebbero prendere coscienza che occorre stipulare un accordo in cui si riconoscono le differenze e si programma una divisione del lavoro tra le diverse forze. Occorrerebbe instaurare nell’area progressista una leale collaborazione-competizione con delle regole. La de-istituzionalizzazione può sfociare in una crisi di legittimità della stessa democrazia. Forse il Pd e gli altri attori non hanno perso abbastanza.