Il re-framing di Draghi: cambiamento come difesa

Mario Draghi ha avuto successo nello spostare lo sguardo del Paese dall’epidemia raccontata come guerra all’immagine del rischio ragionato, dalla metafora del disastro alla narrazione della ricostruzione. Uno spostamento di attenzione e di significato, che può determinare un differente regime di senso in cui i cittadini potrebbero riconoscersi, instaurando un diverso rapporto con la pandemia: dalla paura alla speranza di una nuova normalità. Il premier sembra consapevole di esercitare un potere di definizione legato alla sua autorevolezza e alla sua credibilità internazionale. E intende usarlo.

Per meglio comprendere l’operazione di Draghi, occorre collocarla all’interno delle interazioni comunicative della società. Il discorso pubblico, nel quale convergono narrazioni, discorsi, conversazioni, incorpora un ordine simbolico e culturale attraverso il quale si rinegozia costantemente l’ordine sociale, che appunto viene messo in discussione e modificato all’interno di una ridefinizione continua. Questo processo è diventato centrale nella società dell’informazione, nella quale le interazioni comunicative sono un flusso che attraversa e pervade lo spazio sociale. Le interazioni comunicative distribuiscono valori nelle diverse sfere della vita politica, economica, sociale.

Per primo lo studioso Murray Easton ha sostenuto che «lo spostamento di valori» costituisce l’essenza della politica moderna, vale a dire l’assegnazione o riassegnazione imperativa di beni materiali o immateriali. Oggi il discorso pubblico produce una redistribuzione di valori che influisce sulla vita di un Paese, perché la posta in gioco è diventata la capacità di assegnare beni simbolici come l’identità, il riconoscimento, la legittimazione, la libertà di scelta, l’appartenenza, lo status degli attori. Sono valori distribuiti attraverso la produzione di immagini e di rappresentazioni sociali. Draghi, nel discorso con cui ha presentato al Parlamento il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), non ha solo assegnato risorse materiali a progetti, ma ha distribuito beni simbolici. Ha proposto una diversa narrazione del contagio, un’altra interpretazione dell’identità nazionale, ha offerto la possibilità di identificazione collettiva alternativa. E ha centrato la sua prospettiva sull’esperienza quotidiana dei cittadini. L’elemento centrale di questa strategia è stato il significato dell’epidemia, vale a dire il significato di ciò che si fa in funzione di ciò che si vuole essere. Un significato che necessita di un linguaggio condiviso e di codici simbolici.

Draghi non ha nascosto il suo obiettivo: «Sbaglieremmo tutti a pensare che sia solo un insieme di progetti tanto necessari quanto ambiziosi, di numeri, obiettivi, scadenze. Vi proporrei di leggerlo anche in un altro modo». Il premier ha invitato a leggere, cioè a interpretare il piano secondo una diversa prospettiva, che non sia solo quella dell’emergenza economica. E come cambiare il modo di leggere il progetto? La risposta: «Metteteci dentro le vite degli italiani». Dopo avere ricordato le sofferenze e le ansie dei cittadini, Draghi ha aggiunto: «Non è dunque solo una questione di reddito, lavoro, benessere, ma anche di valori civili, di sentimenti della nostra comunità nazionale che nessun numero, nessuna tabella potranno mai rappresentare». È imperativo che l’azione, il fare, rappresenti il Paese.

Al centro della rappresentazione Draghi ha collocato valori e sentimenti, non soltanto calcoli economici come sarebbe stato lecito attendersi da un economista. In questo modo il premier è intervenuto nella competizione tra le rappresentazioni sociali del contagio, sorta tra centro-destra e centro-sinistra nel governo (e all’interno dei poli). Nel suo discorso ha proposto uno schema interpretativo, un frame, dell’epidemia diverso da quello formulato da partiti e leader. Il frame è la cornice che assegna significati, interpreta eventi e situazioni, stabilisce nessi, suggerisce strategie possibili. Orienta cioè il nostro modo di pensare una questione.

Per la verità il discorso del premier ha impresso un mutamento di significato dell’epidemia, ha compiuto un reframing, secondo la lezione di Bateson. Si tratta di una ri-definizione della cornice interpretativa prima prevalente: l’epidemia come minaccia e guerra contro un nemico invisibile. Draghi ha spostato il frame sul «rischio ragionato», vale a dire un rischio non più imprevedibile ma calcolabile, circoscritto, prevedibile. E che apre spazi di libertà d’azione. In questo modo, il premier sembra consapevole che la partita decisiva contro il Covid non si gioca solo con le misure sanitarie e economiche, ma anche nella costruzione sociale del contagio. L’attenzione viene spostata sul modo in cui la società comprende, interpreta, racconta a se stessa l’epidemia. I modi in cui il Paese vede e parla del virus influiranno sui modi in cui lo vivrà e lo affronterà. I discorsi, le immagini, servono per capire come i diversi punti di vista emergono, mutano, viaggiano nella società. Come ha scritto lo studioso David Altheide: «I frame concentrano l’attenzione su cosa verrà discusso, in che modo verrà discusso e, soprattutto, in che modo non verrà discusso». I fatti, spiega la professoressa Confalonieri, assumono significato solo all’interno di quadri interpretativi in grado di rivelarne l’organizzazione e la coerenza.

Perché la costruzione sociale della realtà è cruciale quanto le vaccinazioni? Perché la messa in forma della realtà può produrre conseguenze reali dato che essa alimenta il sistema di credenze degli individui. Il sociologo Bourdieu ha scritto che le rappresentazioni sociali producono effetti di realtà. La messa in forma è la narrazione. La quale non si limita a descrivere, a presentare la realtà, ma contribuisce a definirla, suggerendo sia una chiave di lettura sia la percezione che se ne ha. Lo scontro, quindi, avviene attorno alla definizione della realtà.

In Parlamento Draghi ha costruito una narrazione dell’epidemia distante dallo spettacolo quotidiano messo in scena dalla politica, assegnando un senso nuovo alla sfida. Questo passaggio potrebbe avere importanti ricadute politiche. Innanzi tutto, il virus ha mutato la percezione del rischio. È probabile che siamo oltre l’analisi di Beck, che ha spiegato come il rischio da esterno, prodotto dalla natura, sia diventato interno, causato dalla società e dagli uomini. Se nella prima modernità il rischio era fondato su un calcolo probabilistico dei costi e benefici, connesso a una sensazione di controllo del mondo, oggi emerge una diversa visione. Il rischio sembra l’espressione di un’incertezza pervasiva, di una perdita di riferimenti sicuri. È la conseguenza dell’aumento della complessità che abitiamo. Il rischio rivela la percezione di una perdita di controllo.

L’epidemia, infatti, è anche prodotta dall’uomo, che ha alterato l’ambiente in cui un virus è evoluto, passando da un animale all’essere umano. Abbiamo visto l’incapacità di prevenire le conseguenze delle nostre scelte. Il contagio ridefinisce profilo e ruolo della minaccia, che diventa più sfuggente, più vaga, perché connessa a una interdipendenza globale, rispetto alla quale l’intervento dei singoli appare ininfluente. Compare una globalizzazione del virus: le varianti brasiliana, sudafricana, indiana, più pericolose, sono i volti di una minaccia poco decifrabile. Nella normalizzazione dell’insicurezza, la società si percepisce meno difesa.

 L’epidemia appare come il sintomo di un problema sistemico, legato al modello di sviluppo, che mette in discussione le certezze degli ultimi decenni. Attraverso il flusso comunicativo, si è creata un’interazione tra le risposte degli esperti (che non sempre coincidono), le decisioni dei governanti, il senso comune dei cittadini, per tentare di mettere insieme una definizione condivisa della situazione. Il problema, è riuscire a gestire l’incertezza non solo il contagio.

La comunicazione si rivela cruciale: attraverso la comunicazione avviene la rielaborazione collettiva dell’esperienza e l’opinione pubblica costruisce la conoscenza comune, la quale sostiene sia la percezione del rischio sia i comportamenti. A maggior ragione la comunicazione è importante perché non affrontiamo un rischio identificato con precisione, ma una minaccia che pone la società in una condizione di vulnerabilità generalizzata. Il contagio rafforza la sensazione di perdita di controllo del proprio destino.

Per il governo, quindi, la comunicazione del rischio non è solo un fatto tecnico, in cui si devono ottimizzare le risorse informative sulle decisioni. Essa deve essere radicata nelle dinamiche sociali e culturali intessute in diverse arene: i media, la rete, i social, i luoghi di lavoro, i luoghi pubblici, la famiglia e gli amici. La comunicazione del rischio deve offrire una costruzione di senso che esprima le relazioni sociali. Del resto, una comunità si unisce contro la minaccia se condivide le modalità di gestione dell’incertezza. La premessa è la costruzione di immagini sociali comuni del rischio. Nel 1928 il sociologo americano William Thomas sostenne che «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse saranno reali nelle loro conseguenze». Merton la riformulò con la profezia che si auto avvera.

Uno dei meccanismi attraverso cui questo fenomeno avviene è quello che utilizza i contenuti latenti del senso comune. I contenuti impliciti si danno per scontati, appaiono come se fossero naturali, quindi veri, non suscitano controversie come quelli espliciti e si sedimentano nel senso comune. I discorsi possono far vedere e far credere ciò che di volta in volta la selezione sceglie di mostrare. C’è il rischio di una distorsione: se nell’informazione sul contagio si omettesse il dato delle vaccinazioni quotidiane, la scelta dei numeri pubblicati mostrerebbe solo il volto negativo dell’epidemia. Del resto, anche il senso comune seleziona ciò che vediamo e crediamo. E quindi ciò che sentiamo. Nelle rappresentazioni sociali le emozioni hanno un ruolo fondamentale anche per un’altra ragione: i pubblici che intervengono nelle arene comunicative sono diventati pubblici affettivi. Si tratta dei pubblici che si connettono, si mobilitano, come ha spiegato la docente americana Papacharissi, «attraverso l’espressione di un sentimento». L’opinione pubblica è sempre più sensibile alla dimensione emotiva ed estetica.

Le emozioni sono il vettore di un coinvolgimento debole (i gruppi emergono e spariscono rapidamente) sulle piattaforme attorno a un tema. La polemica sul coprifuoco è l’ultimo esempio del bisogno diffuso di espressione di sé. Il governo di conseguenza è chiamato all’impegno su due fronti: deve mettere in atto una strategia operativa contro il virus, e deve governare le emozioni. La comunicazione gioca un ruolo decisivo in questo campo. La correlazione tra comprensione della realtà e dinamiche affettive, che accompagnano e sostengono le elaborazioni cognitive e le decisioni delle persone, pone in primo piano proprio il circuito emozioni-cognizioni. Esso funziona soprattutto quando le informazioni attendibili non sono abbondanti, come avviene per il virus. Le decisioni in condizioni di incertezza sono influenzate da distorsioni e emozioni come la paura e l’ansia.

Il governo deve affrontare il problema della gestione dell’incertezza e delle emozioni che provoca. La paura, per esempio, ha un ruolo ambivalente: se da una parte fa scattare l’allarme ed è una reazione difensiva al rischio, oltre una certa soglia di attivazione non produce più coinvolgimento e prudenza, ma innesca distacco, rifiuto e possibili reazioni di rabbia e sconforto.

Forse Draghi aveva in mente proprio la condizione di apprensione generalizzata del Paese, quando ha lanciato la formula del «rischio ragionato», cioè le aperture graduali da verificare con i numeri dei contagi e delle vaccinazioni. Le manifestazioni di protesta degli autonomi probabilmente gli hanno fatto capire che la soglia critica della paura stava per essere superata, che la condivisione – così necessaria – delle misure contro il rischio poteva essere incrinata. Più che le pressioni della Lega, Draghi potrebbe avere ascoltato le voci del clima sociale. Ha anticipato la crisi per riuscire a gestirla con efficacia. Ha governato le emozioni.

Se consideriamo che lo scenario dell’epidemia è lo spazio pubblico, composto da arene mediali e extra mediali, nel quale avviene la costruzione collettiva del tema del contagio, si può capire meglio lo sfondo del reframing di Draghi. La definizione di un quadro di riferimento comune avviene in virtù di una partecipazione alla discussione di diversi protagonisti tra i quali è centrale la politica con le sue logiche. Si può dire che politica, giornalismo, società, i pubblici finiscono per comporre una variegata comunità interpretativa costantemente all’opera. Il risultato dell’interscambio di influenze è cangiante, perché avviene all’interno di un sistema sociale a sua volta in continuo cambiamento. Le trasformazioni hanno riguardato la politica, la società, gli stessi pubblici, i media, e il patto comunicativo tra i diversi attori è continuamente riscritto. I pubblici, per esempio, hanno una postura diversa rispetto al passato e sostengono una domanda dal basso di riorientamento delle priorità, come è avvenuto per la chiusura.

A complicare lo scenario ci sono gli eventi straordinari, fatti eccezionali che irrompono e sono l’equivalente di un input che preme per rimodellare di continuo il problema del contagio.  Proprio la pandemia può essere considerata una sequenza di eventi straordinari: il virus, le misure di lockdown, le notizie contrastanti sui vaccini, i morti e i ricoverati nel mondo, il piano di vaccinazione, la crisi economica globale. A volte gli eventi straordinari spostano l’attenzione su una porzione di realtà, che prima potrebbe essere stata sottovalutata. Con il virus è tornato centrale il sistema sanitario, che ha assunto la precedenza su tutto.

In questo quadro, il frame, la chiave di lettura che ci permette di etichettare l’esperienza, non si deve tanto considerare un punto d’inizio, quanto un esito in costante evoluzione. Esso diventa, secondo il professor Marini, il nostro sguardo sul mondo. Il frame mette in prospettiva il problema che si ha davanti, ne struttura l’interpretazione. La cornice della minaccia assume un carattere più ideologico, quello della «gestione critica del contagio» è più politico-pragmatico.

In questo scenario emerge il conflitto politico-simbolico che produce un costante re-inquadramento del tema. La sfera pubblica è il campo in cui si scontrano le strategie di partiti e dei leader per costruire la rappresentazione del contagio. C’è una serrata concorrenza per conquistare l’attenzione del pubblico e per far prevalere il proprio tema su altri. Dice Luhmann che i temi catturano l’attenzione. Prima il tema deve essere diventare una priorità riconosciuta. Poi si lotta per l’iscrizione del problema nell’agenda del governo. Il momento culminante, tuttavia, è riuscire a dettare la definizione della situazione, vale a dire il suo significato, perché in qualche modo esso prefigura la soluzione. Non basta che il tema entri nell’agenda per vincere. Occorre che sia accolto il quadro interpretativo che implicitamente suggerisce il rimedio.

È quello che è successo nella contesa tra il frame dell’apertura e quello della chiusura. Il leader della Lega Salvini ha intuito che il tema delle riaperture era molto sentito dai settori sociali degli autonomi, cui tradizionalmente guarda il suo partito, danneggiati economicamente dal lockdown. L’ha cavalcato per imporlo nell’agenda del governo, ha tentato di imporre anche la definizione del problema, in modo che la soluzione fosse quella da lui auspicata: la caduta delle regole a favore dell’attività economica.

Secondo il sociologo Luhmann la politica ha il compito di ridurre la complessità. Ma per questa via sempre più spesso la politica da competizione tra contenuti è diventata una concorrenza comunicativa e identitaria. È la campagna elettorale permanente. Del resto, l’attività di framing ha anche altri obiettivi: mira a mobilitare i sostenitori, a cercare il sostegno di potenziali aderenti, a de-mobilitare gli avversari. In Usa Trump continua ad usare il frame della frode elettorale e mobilita parte del partito repubblicano contro Biden. Una determinata narrazione può suscitare una tensione drammatizzata per mettere in evidenza l’urgenza di un’azione diversa da quella che il governo intende adottare. Questa sembra la strategia della Meloni e di Salvini.

Lo studioso Gamson ritiene che il framing definisca l’identità di un noi che può cambiare le cose in opposizione ad un alter, che ha valori e interessi diversi. Il punto è che l’alter nel caso di Salvini sembra il governo di cui fa parte. Il leader della Lega ha utilizzato tutte le armi a disposizione nella costruzione sociale dell’epidemia. Non ultimo la risonanza sociale della questione dell’apertura, vale a dire la sua capacità di evocare simboli, interessi, miti e storie che hanno l’approvazione dei potenziali sostenitori. Non a caso, Salvini ha trasformato il coprifuoco in una battaglia per il diritto alla libertà. La vittoria della destra per il comune di Madrid ha questo segno. Il leader della Lega ha così mostrato la sua fedeltà narrativa all’eredità della destra di opposizione. Hanno pesato la concorrenza elettorale della Meloni e il lento ma costante declino leghista nei sondaggi. Tuttavia la controversia sul coprifuoco, rivela una lotta per l’egemonia ideologica sul governo e rivendica un consenso nel Paese. Non è automatico che la scelta di Salvini venga premiata dai cittadini: il leghista, come ha osservato Letta, rischia di apparire una forza di governo inaffidabile proprio nel momento in cui gli elettori domandano rassicurazione. È un’osservazione che indebolisce Salvini. Se si prende a riferimento l’idea che la destra guarda all’individuo e ai suoi bisogni e la sinistra alla collettività e ai suoi beni comuni, si comprende come centro-sinistra e centro-destra ispirino frame differenti sulla pandemia e legittimino beni simbolici diversi. La destra sembra dare la priorità all’economia, la sinistra alla salute, anche se in realtà salute e economia non si escludono a vicenda. Sono le loro narrazioni che le pongono in contrasto.

 Un’altra gara si intreccia a quella politica-simbolica: la competizione tra gli attori. Occorre osservare chi prende la parola per dire cosa. L’ideologia dell’interesse individuale, dell’economia da tutelare, ha spinto la destra verso la scelta aperturista. Nel centro-sinistra ha prevalso l’attenzione alla collettività e alla sua tutela, favorendo l’idea di un interventismo pubblico. Salvini in una prima fase ha cercato di imporre il frame della minaccia, poi ha cambiato tattica e ora utilizza quello della gestione critica dell’epidemia che comprime la libertà economica. Il segretario del Pd Letta, seguito dall’ex premier Conte, lo ha subito contrastato, opponendo due diversi schemi interpretativi. Il primo è quello della slealtà di colui che lavora contro il governo di cui fa parte. Il secondo potrebbe essere definito quello della prudenza di fronte a un virus molto pericoloso, che implica solidarietà, primato del benessere sociale.

La destra sostiene uno schema interpretativo che presuppone una relazione con il rischio che, secondo la lezione del linguista Landowski, somiglia a un lasciar fare. I governanti lasciano i governati soli ad agire, a decidere come proteggersi, sono considerati autonomi e separati. Questa posizione implica una sottovalutazione del rischio. È un rischiare per proteggersi dal rischio. Prevale una libertà de-responsabilizzata verso gli altri. In questa interazione con la pandemia, l’alea diventa più elevata. Letta invece, delinea una relazione con il rischio strategica o della manipolazione. Alla sua base c’è un lavoro di persuasione che mira ad un accordo tra le volontà di governanti e governati, che rivela un intenso lavoro politico che non esclude la responsabilità civile. Interagire in questo regime con l’epidemia comporta influire sulle motivazioni e le ragioni dell’altro. È convincere a volere una cosa invece che un’altra. I leader dei due diversi schieramenti, quindi, presuppongono due diversi regimi di senso.

Dietro lo scontro tra Salvini e Letta, però, non c’è solo la competizione per far prevalere un’organizzazione narrativa che rispecchia una visione del mondo. C’è una competizione tra gli attori la cui posta in gioco è la visibilità e la centralità connessa. Salvini vuole conquistare il ruolo di attore principale, tentando di ridimensionare la figura di Draghi. L’attore principale è l’attore al centro dell’evento e della scena, colui che diventa protagonista in quanto la sua dichiarazione e la sua azione sono decisive nella costruzione del tema e della notizia. La centralità della immagine del politico non ha a che fare solo con la tendenza alla personalizzazione. L’attenzione alla figura del leader, al suo corpo, si potrebbe quasi dire alla sua identità visiva, richiama antiche forme di sacralizzazione del potere.

Salvini sembra istintivamente convinto che l’identità è un lavoro di costruzione del personaggio che somiglia all’assemblaggio del consumo. Non ha esitato a mettere in discussione la sua lealtà verso il governo per ottenere questa parte nel copione. Rielabora per l’audience la sua immagine. Tende a imporre la sua concezione della politica come scontro tra amico e nemico, secondo la formulazione di Schmitt. E il governo Draghi è apparso nello stesso tempo amico e nemico di Salvini. La conquista della visibilità è strettamente connessa con il posizionamento al centro del sistema politico, che Salvini spera possa tradursi in futuro nella vittoria elettorale. Del resto, il governo giallo-rosso è nato contro di lui.

Non tutto però è andato come pensava. C’è stata la reazione di Letta, che si è mosso con il medesimo obiettivo: diventare lui l’attore principale nella veste di colui che pone argine alla destra, ne circoscrive azione e influenza. Già alle sue prime dichiarazioni su voto ai giovani, sulle donne, sullo ius soli, anche Letta ha mostrato come l’attore sia una figura che si porta dietro e sintetizza passioni, aspirazioni, conflitti riconoscibili. E così raggiungere la centralità per il Pd. Il duello però è funzionale a entrambi: polarizza la scena sui due avversari, oscurando gli altri. Salvini è intervenuto non solo per dettare l’agenda, ma anche per rompere il monopolio dell’attenzione detenuto da Draghi. Letta agisce per contrapporre al leader della Lega un altro leader, lui stesso, come garante e custode del governo. E per consolidare Draghi. Ma questa rappresentazione dello spazio politico quasi secondo un modello spettacolare, è utile a entrambi. Che il gioco abbia in parte funzionato, lo si nota dal ruolo secondario assunto da Conte, che ha cercato di ritagliarsi una parte, ma i media lo hanno spinto negli spazi arretrati dello scenario.

Per comprendere il peso di un leader nella sfera pubblica occorre misurare la distanza dalla scena principale. Salvini e Letta hanno offerto la percezione di essere i due baricentri della struttura di relazioni del governo. Salvini ha avuto un ruolo rilevante nell’inserire in agenda il tema dell’apertura, ma non ha controllato come sperava la soluzione e ha perso l’occasione di apparire l’azionista di riferimento del governo. I due attori-leader, Salvini e Letta, si muovono immaginando e proiettando l’audience a cui si riferiscono. Costruiscono il loro pubblico. Salvini è favorito dal fatto che il tema della pandemia si presta a narrazioni semplificate, emozionali, spettacolarizzate nelle quali attribuire colpe ad altri è facile. Letta e il campo progressista hanno maggiori difficoltà a impostare una narrazione più complessa, capace di toccare il sentire di una opinione pubblica emozionale. E forse hanno lasciato troppo in mano alla destra il tema della libertà, mentre i cittadini sono stanchi del lockdown e preoccupati per le conseguenze economiche.

Salvini e Letta hanno dimostrato quanto conti l’autolegittimazione degli attori politici. Come suggeriva Barthes, entrambi i leader (Salvini più di Letta) agiscono per proporre ai cittadini un modo di essere, uno stile più che argomentare una questione. Lo si è visto nel duello sul coprifuoco, che all’inizio poteva apparire una questione non prioritaria. Non è stato così. Del resto, sostengono Edelman e i sociologi Spector e Kitsuse, i problemi sociali sorgono sganciandosi dalle condizioni reali per fondarsi sulle attività di imprenditori politici che, attraverso il problema, affermano la loro identità, i loro interessi, la loro visioni del mondo. L’obiettivo è legittimare se stessi per il consenso. Anche il lavoro di costruzione dei problemi, quindi, nasconde una rivendicazione di rappresentanza. La battaglia per il coprifuoco sembra confermare l’importanza dei processi interpretativi dell’epidemia.

Anche Draghi ha dovuto (credo suo malgrado) seguire la strategia dell’attore: ha esibito una immagine di sé nella relazione con i cittadini, ha prodotto un effetto di senso che ne ha sagomato l’identità. Questa identità si è offerta al Paese come specchio nel quale identificarsi e a cui affidare la delega politica. Ma a differenza di Salvini, e in parte di Letta, Draghi ha messo in scena un modello cognitivo, argomentativo, che razionalizza la complessità. Intanto, il suo discorso ruota attorno al reframing del contagio. Nel problem solving il reframing indica una diversa percezione del problema: la capacità di proporre un’interpretazione alternativa, di aprire una prospettiva prima non considerata. Bateson vedeva nel reframing una ristrutturazione che consente di trasformare un problema in una possibilità, una soluzione lontana in una più vicina, per indurre uno stato emotivo differente, per percepire qualcosa di ostile in qualcosa di meno avverso. Il pacchetto interpretativo di Draghi, seguendo l’analisi di Gamson sui frame, più che ricorrere a «espedienti di inquadramento» ricorre a «espedienti di ragionamento». Se i primi suggeriscono cosa pensare di una questione, i secondi servono a giustificare una soluzione.

Il premier descrive un Paese in bilico tra declino e riscatto. Dopo avere centrato l’obiettivo di far parte dell’Euro, l’Italia ha visto ridursi la sua capacità di crescere nel mondo connesso, competitivo, del capitalismo globale-digitale. La conseguenza, ammonisce Draghi, è stata l’allargarsi delle diseguaglianze sociali e territoriali (nord-sud). Per questo l’Italia è apparsa fragile di fronte alla recessione del 2008, e l’epidemia ha ulteriormente indebolito la sua struttura socioeconomica. Quella che trent’anni fa era la quinta potenza industriale del mondo, oggi è stata superata dalla Corea del Sud ed è considerata la malata d’Europa.

In questo scenario, la mossa di Draghi è stata raccogliere il tema foucaultiano di «difendere la società». La sequenza delle crisi (economica, migratoria, epidemica) ha innescato un bisogno di protezione al quale ha tentato di rispondere solo il populismo. Il neoliberismo ha subordinato lo stato Sociale alla logica dell’economia e lo ha impoverito. Ha preso vigore tra i cittadini una spinta alla protezione dalle incertezze del mercato, dalla riduzione del welfare, dai rischi delle immigrazioni, infine dal disastro della pandemia. La rinascita di nazionalismi e di sovranismi, che vogliono difendere la società alzando barriere e confini, sembra avere questa origine: una società in rivolta perché non si sente né rappresentata né protetta. Mettendo al centro il malessere sociale, il premier ha raccolto questa domanda di riconoscimento. La soluzione prioritaria è fornire propellente alla crescita: una crescita sostenuta da ingenti investimenti pubblici e dalle riforme può ridurre le iniquità e consente di ricostruire il Paese.

Il premier ha accreditato un percorso opposto a quello dei partiti populisti. La Lega ha innalzato la bandiera identitaria del sovranismo e del nazionalismo, il M5S ha interpretato il bisogno di dignità dei perdenti della globalizzazione assumendo una postura antiglobalista. Entrambi, sia pure in modo diverso, hanno sostenuto una ri-nazionalizzazione della politica, immedesimandosi in una società nazionale che si smarca dal contesto globale. Draghi ha scartato la tendenza all’isolamento, ha ricollocato il Paese all’interno della rete di relazioni europee e internazionali, senza le quali l’economia del Paese subirebbe pesanti conseguenze. Il piano per i fondi del Recovery, quindi, è un progetto di adattamento alla globalizzazione, come risposta alle sfide globali dell’epidemia, dell’economia, del clima. Non si può dare una risposta locale, sembra sostenere il premier, a sfide globali. Draghi, punta a denazionalizzare la strategia italiana, ma non nella direzione di una restaurazione dell’ideologia neoliberista oggi in difficoltà. La novità consiste nel fatto che il premier prefigura un’integrazione ancora maggiore nella rete delle interdipendenze europea e internazionale, senza l’accettazione della logica dell’austerità.

L’adesione all’euro, infatti, aveva presupposto l’adesione alla politica del rigore di bilancio allora dominante. Draghi non perde occasione per suggerire che una crescita sostenuta, unita alla capacità di fare riforme, legittimerebbero il Paese a partecipare alla revisione della dinamica europea e globale di segno neoliberista. Le sue prese di posizione sulla Turchia, sulle politiche europee, sui contratti per e, all’ultimo vertice europeo, sulla sospensione dei brevetti per i vaccini (in sintonia con Biden) sembrano segnare la ripresa di un’assertività italiana, finalizzata a ridiscutere la fisionomia dell’Europa. Forse il premier non esclude una riscrittura delle regole di Maastricht. La leva per rilanciare un ruolo attivo del Paese potrebbe essere la sua credibilità internazionale. Draghi sembra proporre una sorta di «denazionalizzazione nazionalista», che ascolta i timori dei cittadini e sottrae al populismo e alla destra, ridefinendolo, uno dei suoi temi.

Il premier, dunque, si è impegnato in un lavoro di riconfigurazione dell’epidemia. Vuole persuadere i cittadini ad appropriarsi di un progetto di modernizzazione, che punta sulla crescita e su una serie di riforme strutturali (giustizia, fisco, ambiente, pubblica amministrazione) per ridurre le diseguaglianze e recuperare un ritardo decennale. È un progetto che interpreta il cambiamento come difesa del Paese. Nel suo discorso, il premier ha sottolineato i gravi problemi sociali che affliggono l’Italia: giovani che sembrano condannati a una vita precaria e a non potere ambire a migliorare la loro condizione sociale, gli anziani che si sono trovati in condizioni sempre più modeste e spesso in solitudine, i dati preoccupanti sulla povertà relativa (9 milioni e mezzo di persone) e assoluta (5 milioni), i lavoratori che si sentono esposti al rischio della disoccupazione, dei licenziamenti e delle delocalizzazioni, i ceti medi che hanno visto ridursi le loro risorse e il loro status, le donne troppo discriminate. Sono i risultati di un Paese che nel decennio 1999-2019 ha visto crescere il Pil del 7,9 per cento mentre la Germania è cresciuta del 30,2, la Francia del 32,4, la Spagna del 43,6 per cento.

È questa incapacità «del Paese di tenere il passo delle nazioni avanzate» che ha avviato la decadenza. Non solo non riusciamo a investire i fondi a disposizione, soprattutto europei, ma non li investiamo con la rapidità e l’efficienza necessarie. È avvenuta una imprevista convergenza tra il ritorno dei valori materialisti (occupazione, salario, sicurezza), dopo anni in cui secondo l’analisi di Inglehart erano oscurati dal post-materialismo, e l’economia dematerializzata del capitalismo digitale e della rete. In questo cortocircuito, la società italiana è andata alla ricerca di una nuova sovranità.

Il disorientamento è la patologia sociale che ha portato all’autodifesa nel momento in cui la politica non riusciva ad esercitare il proprio ruolo di tutela dalle distorsioni e dalle iniquità. Draghi avverte che non c’è in campo solo la ricetta populista, che non è vero che salute ed economia sono in conflitto, che esiste un’altra via per evitare ancora anni di stagnazione e declino: occorre cambiare per difendersi. Del resto, solo un Paese che accetta la sfida europea e globale potrà avere voce in capitolo per ridiscutere l’equilibrio neoliberista, che produce destabilizzazione. Per raggiungere questo obiettivo il premier stabilisce un nesso inedito tra epidemia e modernizzazione. La crisi ha infragilito il Paese, ma può essere rovesciata nella possibilità di un riscatto.

Il premier aggiunge un altro elemento: solo il consenso può dare all’Italia una chance di successo. Infatti Draghi instaura una relazione di aggiustamento, secondo il modello di Landowski, che promuove una cittadinanza dotata di sensibilità condivisa, che vive l’esperienza dello stare insieme e del farsi carico reciproco, che riconosce una relazione alla pari tra stato e cittadino e responsabilizza la collettività. Una relazione molto diversa rispetto all’apertura pensata da Salvini in cui l’individuo si libera solo da obblighi e vincoli.  In questa relazione civile Draghi incardina il progetto che può spingere il Paese ad apprendere il valore (e i benefici) di una trasformazione.

Dopo il lungo predominio della tattica di corto respiro, della ricerca del consenso a qualsiasi costo, delle promesse che inseguono le emozioni dell’istante, Draghi pone la questione della dignità della politica. Al cuore c’è la dignità delle persone, che è il presupposto dei diritti, che accoppiata alla formazione, scrive la professoressa Brollo, «potrebbe diventare una sorta di incubatore di sicurezza per il lavoratore e di produttività per il datore di lavoro». Emerge poi la responsabilità che consiste nell’essere «razionale, collettiva e capace di risolvere problemi concreti» ha scritto il professore Raimondi.

Il progetto Pnrr, dunque, rappresenta la promessa di futuro che tutti dovrebbero assumere come propria, la moralità della politica. Se questa è la sfida, vedremo la risposta di un Paese ancora smarrito.


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