Il realismo che serve, l’ottimismo che aiuta

Si è conclusa una bella, bellissima, edizione del nostro festival Lector in fabula. Tante idee, tanto pubblico, tante riflessioni sul momento assai complicato che il mondo sta vivendo.

Ne abbiamo discusso non con la testa rivolta all’indietro, ma con uno sguardo verso l’avvenire, cercando di capire come venirne a capo, cercando di vincere quella sensazione di fatalismo, se non inerzia, che sembra invadere una parte dell’opinione pubblica delle democrazie che chiamiamo occidentali; anche ridefinendo nel suo significato il linguaggio che comunemente utilizziamo, per declinarlo al tempo che viviamo: democrazia, libertà, Occidente, diritti, lavoro, partecipazione, relazioni. Forse mai come questa volta il titolo e tema del festival, La scoperta del futuro, è stato indovinato, opportuno.

Come Piacere di lavorare e con questa ispirazione, abbiamo provato a dare un contributo. Con la concretezza del realismo; con un’attenzione verso le diseguaglianze e le fragilità che il mondo del lavoro contemporaneo determina; ma anche con una dose di ottimismo e di speranza, senza i quali i problemi non possono essere risolti, o almeno mitigati, ma solo denunciati. Perché che siamo pieni di problemi le persone che hanno assistito ai dibattiti al festival lo sapevano già e non avrebbe avuto molto senso limitarsi a ripeterglielo.

Abbiamo discusso, in definitiva, con riferimento al lavoro, se dobbiamo guardare al mondo solo come una irreversibile condanna, oppure ad un luogo mai come oggi ricco di opportunità. Perché non ha alcun senso dire e diffondere l’idea che andrà sempre peggio; perché non ha alcun senso sostenere che siamo schiavi di un algoritmo e che lo resteremo; e che l’algoritmo, addirittura, sta diventando selettore delle risorse umane. Magari scopriremo che potrà diventare un ottimo strumento per agevolare il processo di recruting. Forse, non lo so. Si tratta dunque di utilizzare le tecnologie nel modo più umano e migliore possibile, perfezionandone l’utilizzo.

Che, poi, se ci mettiamo gli occhiali del realismo, che ogni tanto non guasta, ci accorgiamo che queste dinamiche che possono generare ansia, se non paura, sono sempre esistite.

Essere realisti non significa arrendersi e non potrà mai significare derogare, oggi più che mai, ai valori della libertà e della giustizia sociale, alla sintesi dei princìpi del liberalismo con quelli del socialismo, che per quel che mi riguarda non sono scambiabili.

Significa, invece, osservare come sono più di due secoli che i cambiamenti tecnologici sono motivo di incertezza. Molte professioni nel tempo sono andate soppresse, ma sono nati nuovi lavori mediamente più sicuri e meno pericolosi, meno faticosi, a più alto contenuto intellettuale, meglio retribuiti. Non c’è mai stata l’ondata di impoverimento temuta, anzi. Siamo riusciti, invece, a contenerne i risvolti negativi e la classe lavoratrice ha gradualmente conquistato la dignità e i diritti che le spettavano. Abbiamo creato il Welfare State, abbiamo concepito, nel nostro Paese, lo Statuto dei Lavoratori, per esempio. Perché abbiamo scelto di vivere in una società aperta e il fondamento delle società aperte è la capacità di autocorrezione.

Certamente, non si può trascurare che l’evoluzione tecnologica ed il cambiamento profondo nei processi produttivi hanno avuto, negli ultimi trent’anni, un’accelerazione impressionante, forse non del tutto imprevedibile ma senz’altro spiazzante. Non solo scompariranno delle professioni, ma anche i modelli organizzativi non sono e non saranno più gli stessi, per quei lavori che, pur continuando ad esistere, verranno svolti con modalità molto diverse.

A volte siamo portati a temere il domani e a guardare il bicchiere mezzo vuoto. Ma non è sempre l’approccio più corretto.

Per esempio, se guardiamo alle normative più recenti, con l’entrata in vigore della riforma del Diritto del Lavoro del 2015 (Jobs act), molti pensavano – vigorosamente protestando – che il cambiamento, parziale, delle regole che riguardano i licenziamenti individuali avrebbe prodotto un’impennata dei licenziamenti stessi. Orbene, non abbiamo assistito a nulla di tutto ciò e, inoltre, la forma di assunzione a tempo indeterminato è, mai come oggi, prevalente. Non sempre le percezioni che abbiamo si rivelano esatte.

E allora la questione vera non è avere paura, ma come e con quali strumenti governare una società che corre. È necessario uno sforzo collettivo. È urgente recuperare un senso di comunità, rafforzare una umanità ed una coesione che sembrano, apparentemente, compromessi. E anche un senso di orgoglio.

Dobbiamo necessariamente affrontare il dualismo tra chi ce la farà e chi rischia seriamente di rimanere indietro. Nel mondo che verrà ed anzi che già fra noi, le competenze digitali, l’intelligenza artificiale, determinano una scissione, da ricomporre, fra lavoratori e lavoratrici qualificati, più ricercati e meglio pagati e lavoratori e lavoratrici meno qualificati, peggio pagati, costretti ai margini.

Siamo e saremo chiamati, dunque, a proteggere la sicurezza economica, oltre che professionale, di chi avrà difficoltà, garantendo il sostegno necessario nella transizione dal vecchio lavoro al nuovo, sia dal punto di vista dell’adeguamento delle competenze richieste dal tessuto produttivo, sia da quello relativo al sostegno economico nei periodi di transizione.

Sarebbe nulla più che un’illusione pensare di poter governare un mercato del lavoro irriconoscibile rispetto a soltanto trent’anni fa con la vecchia cassetta degli attrezzi.

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