Ci ha lasciato Luca Nicolini, libraio e inventore del Festival della Letteratura di Mantova. È un lutto per la cultura nazionale. Il suo festival ha avuto un enorme successo (all’ultima edizione hanno partecipato oltre 122 mila persone), il format è stato replicato in tutta Italia e persino all’estero. Si può dire che non ci sia città o paese storico che non abbia imitato la manifestazione di Mantova.
Luca Nicolini non era solo un sofisticato libraio. Era un intellettuale che ha saputo anticipare lo spirito del nuovo secolo che stiamo vivendo. Come direttore della Gazzetta di Mantova sono stato testimone nel 1997 della nascita del festival e vi ho avuto indirettamente una piccola (molto piccola) parte. Ero stato in Gran Bretagna per perfezionare l’inglese e al ritorno il sindaco, Gianfranco Burchiellaro, mi chiese un’opinione su un progetto che aveva elaborato Nicolini: il Festival della Letteratura. In Gran Bretagna avevo visto una bella manifestazione di libri (soprattutto usati) nel paese medievale di Hay-on-Way, nel Galles, che mi era piaciuta. Così raccontai al sindaco quello che avevo visto e lui mi rispose sorpreso: «Ma è quello di cui mi ha parlato Nicolini». Sostenni che Nicolini aveva ragione, incoraggiai il sindaco a contribuire alla realizzazione del festival, del resto il sindaco era già convinto di procedere. Nicolini aveva messo insieme un comitato di cui era il presidente, la moglie Carla Bernini lo affiancava e si deve considerare coautrice del festival. L’iniziativa partì. Il primo anno attirò oltre 12 mila partecipanti. Ma si capì subito che quella formula innovativa funzionava.
Nicolini era un cattolico di sinistra, gentile, riservato, intelligente. Girava per la splendida città rinascimentale di Mantova in bicicletta. Lo si poteva trovare nella sua libreria Nautilus sempre pronto a segnalare, consigliare. Laurea in storia (la moglie è laureata in filosofia), Nicolini ben presto è diventato una figura culturale di riferimento in città. Luca ebbe un’altra intuizione felice: l’autonomia del Festival doveva essere tutelata sia dalle istituzioni, con le quali però collaborava, sia dalle case editrici. Le offerte per fare politica non gli sono mancate, ma è sempre stato coerente con la sua missione: l’impegno per la cultura, soprattutto la letteratura.
In 23 anni il Festival di Mantova è stato il palcoscenico di premi Nobel, grandi scrittori, giovani promesse che poi si sono affermate, diventando un appuntamento obbligato della cultura internazionale. L’idea vincente del Festival della Letteratura non fu solo quella di mettere faccia a faccia scrittori e pubblico, ma crearvi attorno un contesto straordinario. Vennero arruolati decine di giovani volontari che, con le loro magliette azzurre, sarebbero stati la struttura organizzativa della manifestazione. Gli autori venivano ospitati nelle case del suggestivo centro storico di Mantova. Lo scenario degli incontri erano le piazze, i teatri della città. Per tutta la giornata migliaia di persone si spostavano a piedi o in bicicletta da un luogo all’altro per partecipare agli eventi. La sera le discussioni continuavano nelle trattorie, nelle osterie di una città dove anche la gastronomia ha una tradizione di eccellenza.
Non si deve trascurare nel successo della formula questa dimensione di festa diffusa per le strade storiche di Mantova, il mescolarsi dei cittadini e dei festivalieri in un clima eccitato e riflessivo. È come se sotto i portici, all’ombra delle chiese antiche, sotto le mura del castello dei Gonzaga sul lago, circolasse un flusso culturale che coinvolgeva tutti. Mantova si scoprì immersa per alcuni giorni in un’atmosfera magica di gente, pensieri e emozioni, che la trasformò in una capitale internazionale della cultura. La Gazzetta di Mantova, a sua volta, è diventata il quotidiano del festival.
Tuttavia la novità introdotta dal festival va ricercata nel cambiamento del rapporto tra autore e lettore, tra libro e esperienza, tra cultura e società. È la scelta di mettere in scena lo scrittore e la sua opera davanti a un pubblico che segna una cesura rispetto ai tradizionali incontri tra autori e lettori. Nicolini disegna uno scenario che oggi, dopo l’esplosione di internet e dei social, si potrebbe definire mediatico. Innanzi tutto, il centro della scena è occupato dallo scrittore ma anche dal pubblico. Viene recuperato un modello che apparteneva alla tragedia greca, dove l’attore sta sul palcoscenico, però recita un ruolo importante anche il coro, che ascolta, risponde, e rappresenta il pubblico. Non a caso le piazze e i teatri disegnano un ideale anfiteatro. La dinamica della recitazione prevede che non sia fondamentale solo il discorso dello scrittore, ma che occorre interrogarsi anche sul discorso del coro (migliaia di persone). Dobbiamo chiederci come il pubblico lo comprende. E lo traduce.
Qui interviene un secondo mutamento. Umberto Eco ha pensato la nozione di decodifica aberrante, vale a dire un’interpretazione divergente rispetto a quella desiderata dall’autore per diverse cause possibili. Nella presentazione normale di un libro, lo scrittore parla a pochi destinatari che sono spesso appassionati di letteratura. I loro codici espressivi e quelli dell’autore coincidono. A Mantova invece la scena si allarga a dismisura. Di fronte a una platea differenziata di migliaia di spettatori, la decodifica aberrante non è un’eccezione bensì la regola. Non s’instaura un processo comunicativo visto in modo tradizionale, cioè il passaggio di un messaggio da una fonte a un destinatario il cui margine di libertà nella decodifica sarebbe limitato. Al festival ci troviamo di fronte a un complesso sistema di segni con una potenzialità interpretativa che si espande quanto più è ampio e diversificato il pubblico: i livelli di significato si moltiplicano, sono numerosi i portatori di codici e sottocodici diversi che interagiscono con il codice espressivo dello scrittore, e in quella scena è difficile che autore e lettori possano condividere tutto.
La conseguenza è che l’interpretazione del messaggio dello scrittore si frantuma. Assistiamo cioè a quella pluralizzazione dei punti di vista, all’esplosione delle visioni del mondo che è tipica della società di oggi. Si potrebbe dire che l’interpretazione si democraticizza. Che la stessa versione dell’autore fino a un certo punto è una lettura privilegiata. Un pubblico così ampio e differenziato mette in atto una ricezione frantumata e plurale. Il pubblico avverte non solo di essere pubblico ma anche di stare in pubblico. La visibilità diventa un requisito non solo dello scrittore sul palco, ma di ciascuno che vi partecipa. Perché il coro è l’altro attore della tragedia. All’uscita dall’incontro gli individui fraternizzano, iniziano uno scambio comunicativo nel quale il discorso dello scrittore viene rielaborato, interiorizzato, personalizzato. Il miracolo del festival è che la differenziazione non suscita dissonanza, come accade nella società smarrita di oggi, ma origina la felicità di vivere un’esperienza estetica comune e, insieme, diversa per ciascuno. Eco forse direbbe che ogni evento del festival è una opera aperta in cui lo spettatore entra in gioco con la sua cultura.
Nel laboratorio di Mantova, quindi, Nicolini smonta la comunicazione ideologica e verticale che talvolta s’instaura tra autore e lettore; de-struttura la codifica dei messaggi; sperimenta la produzione di nuove forme espressive plurali, orizzontali. La dinamica di appropriazione del discorso da parte del pubblico si rivela un passaggio altrettanto fondamentale. Nicolini ha attuato un riposizionamento degli attori il cui effetto è l’inclusione degli spettatori su un piano di parità con gli attori. Il Festival allora può essere immaginato come un testo, nel quale gli attori della comunicazione – scrittori e spettatori – accedono insieme (e allo stesso titolo) a un mondo, lo rappresentano, lo costruiscono attraverso tanti filtri culturali diversi. La vera invenzione di Nicolini, dunque, è il pubblico. Per questa via, ha intercettato in anticipo la domanda di soggettività, di autorealizzazione, di protagonismo degli individui, che dopo qualche anno sarebbe diventata dirompente.
In questa prospettiva, il libro non è più solo un oggetto culturale. Diventa il medium tra scrittore e spettatori. Nicolini sembra quasi voler rileggere McLuhan: il vero medium è la cultura. Cambia l’esperienza del libro: non più quella della lettura solitaria, ma di una lettura corale, multisensoriale per cui la comprensione non è affidata solo alla verbalizzazione ma ai gesti, alla voce, al volto dell’attore. Il libro viene ri-scritto, ri-creato. L’autore offre una narrazione della narrazione, che ci trasporta in una dimensione diversa. La stessa relazione tra cultura e società viene in qualche modo riformulata: se la prima è essenzialmente espressiva e la seconda relazionale, al Festival della Letteratura debutta un mix espressivo-relazionale allora inedito. Quando lo scrittore sale sul palco non afferma solo la verità dell’enunciato, vale a dire del contenuto. In quel processo si afferma soprattutto la verità dell’enunciazione, cioè del discorso che il festival avvia con gli spettatori. L’esperienza che accomuna i partecipanti forse si può valutare come una esperienza estetica, nel senso della prevalenza di una funzione comunicativa che dà forma al mondo, che dagli anni duemila comincerà a dominare la società.
Il Festival di Mantova, quindi, si propone come un piccolo universo della nuova cultura di massa in cui la conoscenza è conoscenza di molti testi. La partita si gioca sulla intertestualità, sulle competenze dei partecipanti, allargate a misura dei tanti libri e autori che si presentano. Del resto gli individui vivono, operano, parlano, interpretano all’interno di sistemi culturali. Il Festival avvia un discorso il cui centro è la letteratura, ma che in realtà si rivela essere un processo sociale e linguistico che accade all’interno degli spazi intersoggettivi della città.
Il pubblico è sempre stato presente negli studi sulla comunicazione. Ma al di là delle apparenze, la sua presenza è rimasta in secondo piano, un lettore-spettatore immaginario al quale spesso si prescrive come dovrebbe reagire o decodificare lo spettacolo. Ci si è occupati meno del lettore-spettatore reale che interpreta attivamente. Nicolini ha lavorato sullo scarto tra messa in scena e spettatore empirico. E ha costruito un meccanismo nel quale i significati non si trovano o si riconoscono solo nella messa in scena dello scrittore, ma piuttosto vengono costruiti dal pubblico insieme all’attore, in un rapporto cooperativo. Questa relazione teatrale tra scrittore e lettore incorpora aspetti cognitivi e emozionali. Un intreccio di fattori che nasce dal fatto che l’esperienza emozionale, secondo la psicologia, si basa sul monitoraggio dell’ambiente mediante sistemi sensoriali e razionali. Il Festival della letteratura, così, mette in scena una interazione simbolica tra i partecipanti, che coinvolge dinamiche interpretative e passionali, come le definiscono i linguisti. Una interazione che legittima il patto di fiducia che, attorno al palco, si stabilisce tra scrittore e spettatore. Tra attore e coro.
Che intellettuale è stato allora Luca Nicolini se ha anticipato le trasformazioni degli anni successivi? Dietro la sua figura pacata e riservata, compare il profilo dell’uomo che sussurrava ai libri. Come nel libro L’uomo che sussurrava ai cavalli anche lui sembra avere avvertito la malattia di un’epoca e tenta di curarla con la letteratura. Sussurrando ai libri. Emerge la figura di un intellettuale già postmoderno, il quale senza spostarsi da Mantova intanto compie il percorso inverso della globalizzazione: utilizzando la scenografia di Mantova, egli pensa un’esperienza culturale nuova, viva, capace di mobilitare le coscienze soprattutto dei giovani. Il suo percorso è inverso a quello dominante: dal locale al globale. Si sa come Luca insistesse spesso nelle discussioni del comitato sulla capacità non solo di scovare nuovi talenti, ma anche di anticipare nuove tendenze, nuove domande.
Perché l’uomo che girava in bicicletta può essere considerato un intellettuale postmoderno? Per tentare di rispondere occorre prima chiarire il riferimento alle differenti comprensioni del mondo della società moderna e di quella postmoderna. La visione del mondo moderna, dice Bauman, è quella di «totalità essenzialmente ordinata», nella quale la spiegazione degli eventi è nello stesso tempo uno strumento di previsione e di controllo. Per ottenere il controllo è necessaria una conoscenza che fornisce una classificazione della realtà oggettiva, gerarchizzata. Salire lungo la gerarchia significa avvicinarsi all’universalità. La visione del mondo postmoderna, invece, prevede un numero illimitato di modelli di ordine, ciascuno generato da pratiche autonome. Ogni modello di ordine ha senso all’interno di una tradizione, vale dire una comunità di significati e di pratiche. Le conoscenze, quindi, devono essere valutate all’interno delle rispettive tradizioni locali.
È vero che affiora il rischio di un relativismo culturale. Per la società moderna è un problema, nella visione postmoderna però è una caratteristica permanente. L’intellettuale moderno di conseguenza è un legislatore, che fa affermazioni autorevoli che arbitrano controversie, seleziona le opinioni, le quali una volta scelte diventano vere. L’intellettuale moderno ha il diritto di convalidare o no le credenze. La strategia dell’intellettuale postmoderno non potrebbe essere più lontana: egli è un interprete. Il suo compito consiste nel tradurre affermazioni fatte all’interno di una tradizione fondata su una comunità, in modo tale che possano essere comprese. L’intellettuale postmoderno non sceglie la visione migliore, ma facilita la comunicazione, il confronto, l’interpretazione. Egli cerca di conoscere ogni sistema culturale straniero per tradurlo e per stabilire un corretto equilibrio. Nicolini, a mio avviso, è stato questo: l’interprete lucido che, con le armi della letteratura, ha cercato di capire e curare un mondo diventato troppo complesso. E per questo più opaco.
Qual è il segreto dell’uomo che girava in bicicletta per Mantova? Per saperlo forse dovremmo chiederci qual è il fine del Festival della Letteratura. Se abbiamo sostenuto che la manifestazione aveva l’obiettivo di mettere a discorso la letteratura come narrazione del mondo, questo processo avviene in virtù dell’incontro tra soggetti parlanti. Che non è solo lo scrittore, si è sostenuto, è anche il lettore. Il festival permette il costituirsi di soggettività che, parlandosi, entrano in relazione tra loro. Come ci ha spiegato Roland Barthes, dis-cursus indica in origine il correre qua e là, le mosse, i passi. Il discorso, dunque, non è solo il parlare, è pure l’agire. Da una parte il discorso è un sistema aperto che commercia significati, dall’altra è azione. Cioè: fare con il linguaggio. Così il Festival della Letteratura ci svela la sua vera natura: esso rappresenta il momento in cui decine di migliaia di persone negoziano interagendo con i più grandi scrittori del tempo, e con se stessi, il senso della nostra esistenza.
Il Festival della Letteratura è una fabbrica di senso. È un rito collettivo del senso del nostro posto nella realtà. E come quello di Mantova lo sono tutti i festival, piccoli e grandi, che sono proliferati in Italia. Ovunque, con gli strumenti della cultura e con l’aiuto degli scrittori, noi produciamo il senso del mondo. La ragnatela di significati che abbiamo tessuto noi stessi, come l’ha definita l’antropologo Geertz, è la cultura.
Grazie Luca per averci invitato alla tua mirabile impresa.