Il talento come antidoto al Dies Irae

La ghigliottina (porta) che occupa tutta la pagina di copertina della versione italiana dell’ultimo libro di Felipe Polleri, Grande studio su Baudelaire (un romanzo storico), è sempre sul punto di decapitare qualcosa o qualcuno lungo le cento pagine del componimento. Resterà saldamente ancorata ai suoi montanti dall’inizio alla fine come monito più che presagio. Ogni testa resterà sul proprio corpo, così come la letteratura continuerà il suo percorso di cambiamento continuo, senza strappi o fughe, sconsiderate, in avanti. Cambierà cambiando.

Su tutto la pazzia con la quale Polleri induce a confrontarsi, forse, estrema conseguenza del vivere dissoluto o del convivere con il talento. Non sfugge a questa regola nemmeno lo scrittore che, in questo componimento, come Virgilio con Dante, conduce in un attraversamento che decostruisce il sentire comune, oltre che i luoghi comuni. Attraversamento necessario per poter comprendere e raggiungere il Dies Irae, l’annuncio della fine di tutto. Contestualmente è una delle strade che la letteratura del ventunesimo secolo intraprende per distaccarsi, solo apparentemente e in parte anche formalmente, dalla letteratura che l’ha preceduta. Un bagno nel mare calmo e senza onde della contemporaneità, in attesa dello tsunami che determinerà nuovi modi di descrivere, raccontare, autorappresentarsi.

«Volevamo andarcene una volta per tutte, ma era impossibile, come in tutti gli incubi moderni […] Sono salito su un taxi e sono tornato a casa. Da anni vivo in un palazzo verde di tre piani, un palazzo pieno di crepe, con streghe e gargouilles piuttosto consunte e piuttosto infuriate. Non ho trovato il palazzo. Non ho trovato neppure la strada. Era assurdo, inaudito, che non riuscissi a trovare la strada di casa mia! Forse, ho pensato, sono io a essere morto? L’idea mi sembrava naturale e, perfino, gradevole; da tempo ero stanco di scrivere. Baudelaire mi aveva ucciso […] Ma che forma ha, di che colore è la facciata della casa di un morto?».

Tutto è grande, molto grande o piccolo, molto piccolo, si entra e si esce, continuamente, senza sosta.

Baudelaire riassume in sé l’Ottocento letterario che volge al nuovo; il frammento, cifra stilistica dell’impossibilità di ripetere e reiterare il già detto, il Novecento. Due poli entro cui si sviluppa la letteratura di Polleri: non più racconto, non già poesia.

Rendere palese la pazzia, cercare approdi più tranquilli in cui l’amore sbanda e fa sbandare, sollecita e deraglia, s’impossessa e appaga. Non rende pazzi e, non porta con sé buio, incubi, tremolii di follia.

Chiudere e aprire. Chiudere per aprire. Metamorfosi per capire. Immaginare un altro da sé con il quale dialogare sapendo che l’altro da sé non vuole dialogare e proprio per questo racconta di cambiare forma. Di assumere sembianze altre, di un animale, di più animali, per sfuggire al dialogo con sé stesso o con sé stessa.

«A seconda dei biografi, Baudelaire tenne tre, cinque oppure otto conferenze in Belgio. Il Diavolo e il suo cervello, roso dalla sifilide, riempivano all’improvviso la sala di attenti ascoltatori e all’improvviso la svuotavano per riempirla un’altra volta, ogni venti o trenta secondi, ha detto […] All’inizio dell’ottava conferenza, perché era l’ottava, gli spettatori riapparvero ai loro rispettivi posti, ha detto. Quelli della prima fila in prima fila. Quelli della seconda fila nella seconda, ha detto, eccetera […] Il suo punto di riferimento era una vecchia con un cappellino rosso con una piuma azzurra […] Dopodiché la sala vuota. Quindi, la sala piena e il cappellino sulla testa del bidello che, ha detto, senza alcuna ragione, apriva e chiudeva la porta della stanza ogni tre o quattro minuti».

Un passaggio di testimone che attraversa l’Ottocento prima e il Novecento da un certo punto e fino alla fine, per sbarcare sotto forma di frammento nel ventunesimo secolo. La parola, anello di congiunzione che racconta e cambia la storia; che nulla può dopo il suo periodo aureo, che si fa muta e cangia; che si esprime sincopata; che descrive il descrivibile per piccole porzioni sempre più scollegate tra loro; che attende di essere liberata.

Nell’attesa, reitera. Reiterare è un artificio relativamente nuovo che diventa totalmente nuovo se inserito in un frammentario.

Tutto è così fino al primo epilogo.

«Non c’è dubbio che Baudelaire e la prostituta riconoscente vissero felici e contenti perché i gendarmi conoscevano bene l’amore e non li arrestarono (la Francia è la patria dell’amore), a giudicare dalle grida di giubilo della giovane e bella prostituta, fin quando la giovane e bella prostituta non fu sgozzata, non ghigliottinata, ma sgozzata da alcuni ladri mentre andava in Rue de Nerval a comprare una bottiglia di vino rosso per Baudelaire».

Da adesso in avanti le parole sopra lo spartito cambiano, ha detto più di una volta. Ha detto. Anche tre volte nello stesso rigo. Baudelaire si ricongiunge a Baudelaire e diventa coprotagonista (il romanzo storico). La biografia si sovrappone all’idiosincrasia del presente e ha la meglio. Il ritmo non è più sincopato, la storia si lascia raccontare, non oppone più resistenza.

«Ha detto» è come «Sostiene Pereira», serve a Polleri, così come è servito ad Antonio Tabucchi, per trasferire al lettore l’assunzione di responsabilità che il protagonista si sta assumendo. Sostiene Pereira, per questo motivo devi credere a ciò che sta dicendo, se ci credi la storia non solo è credibile ma può anche andare avanti. Un artificio retorico per stabilire un rapporto credibile e profondo tra autore e lettore. Una confidenzialità che precede e previene anche eventuali critiche. Esprime l’ambizione di farsi ascoltare senza alzare la voce o scrivere un effluvio di parole. E comunque per farvi un’idea leggete pagina 74, qui Polleri supera sé stesso.

Tra i tanti riferimenti che troverete in questo componimento originale ne faccio mio uno che coincide anche con l’unico riferimento certo che l’autore indica: il Dies Irae attribuito a Tommaso da Celano.

Dies Irae, dies illa
solvet saeclum in favilla:
teste David cum Sybilla.

Quantus tremor est futurus,
Quando judex est venturus,
Cuncta stricte discussurus.

Tuba, mirum spargens sonum
per sepulcra regionum
coget omnes ante thronum…

In attesa che si compia ciò che si deve compiere mi associo al tributo dell’autore al talento, un tributo lungo cento pagine. A volte celato dalle ossessioni che, a volte, prendono il sopravvento, ma capace di emergere ogni volta che la lama d’acciaio della ghigliottina si avvicina, pericolosamente, al collo del condannato o della condannata.

Tutto o quasi tutto si può prevedere, tranne il talento. Chi ha talento è imprevedibile per questo Baudelaire fu Baudelaire.

Ho detto.


Felipe Polleri presenterà il suo ultimo libro, Grande studio su Baudelaire (un romanzo storico),  in antemprima nazionale al John Fante Festival, Il dio di  mio padre, domenica 25 agosto alle 17:00

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