Ingegneri netturbini

di Maurizio Del Conte, Francesco Errico.

Abraham Maslow sosteneva che «il poeta deve scrivere, il musicista deve fare musica, il pittore deve dipingere, se vogliono essere davvero in pace con sé stessi». Abbiamo, fin dalla sua nascita, utilizzato questa riflessione dello studioso statunitense per definire la filosofia del nostro Centro Studi.

Qui in Puglia, invece, capita che l’ingegnere faccia il netturbino (e difficilmente sarà in pace con se stesso). Nel Nord-Barese, infatti, è stato recentemente indetto un Concorso appunto per netturbini, vinto in prevalenza da persone laureate e cioè con un titolo di studio non richiesto da questa professione ed incoerente con le caratteristiche della professione stessa e verosimilmente con le ambizioni e le motivazioni di queste persone.

Premesso che ogni lavoro, se svolto con passione e serietà, ha una dignità e merita ogni forma di rispetto, viene da chiedersi perché una persona che ha alle spalle un percorso professionale di alta qualificazione (sicuramente anche costoso), decida di non tradurlo nella sua professione, candidandosi invece ad un concorso per svolgere un lavoro del tutto diverso ed a più basso contenuto professionale.

Il fatto, ancorchè non isolato, ha suscitato un dibattito nel quale sono intervenuti anche Dirigenti d’azienda e sindacali, con considerazioni complessivamente convergenti e anche condivisibili, che hanno sottolineato lo speco di risorse connesse a scelte professionali incoerenti, dettate dalle necessità primaria di molti giovani di trovare un lavoro.

Anzitutto va detto che tali dinamiche compromettono il funzionamento complessivo del nostro sistema produttivo: se gli individui svolgono il lavoro che sanno fare e che vogliono fare le organizzazioni funzionano meglio e sono più produttive, con grande beneficio a vantaggio del sistema-Paese. E se gli individui svolgono il lavoro per cui hanno studiato e che sognano, saranno inevitabilmente più motivati, soddisfatti, produttivi e alfine sereni e non vagheranno come anime in pena alla ricerca del sogno perduto, che con l’andar del tempo si allontanerà sempre più.

Questa dinamica dissipativa viene comunemente associata, in primo luogo, alla carenza di domanda di lavoro: le persone tendono ad accontentarsi del lavoro che trovano per l’assenza di alternative. Ma è proprio così? È legittimo dubitarne.

Questa tesi, infatti, contrasta con il fenomeno ben noto degli skill shortage, cioè delle centinaia di migliaia di posti di lavoro (in massima pare ad alto contenuto professionale) che restano nel nostro Paese scoperti perché le aziende non trovano le persone adatte a ricoprirli.

Il mismatch resta uno dei nostri principali problemi, soprattutto nel Mezzogiorno dove è diventato ormai strutturale e indica un disequilibrio tra domanda ed offerta di lavoro.

Se così è, è legittimo ritenere che le persone che cercano un lavoro lo cerchino male e che non siano supportate da un adeguato sistema di orientamento professionale all’altezza di un mercato del lavoro complesso. Ed è questa una carenza sulla quale non è più rinviabile un intervento.

Ma non secondario è l’aspetto legato all’aspettativa di stabilità del posto di lavoro: partecipo ad un concorso non omogeneo alle mie ambizioni ed al mio titolo di studio sperando di ottenerne in cambio, almeno, un posto fisso.

Premesso che il desiderio e l’obiettivo di stabilità (per quanto oggi possibile) rispondono ad una logica comprensibile, legata alla continuità nel tempo di un reddito certo, anche questo approccio nasconde un malfunzionamento ed un errore molto frequente: difendersi dalla flessibilità (percepita come negativa), accontentandosi di quello che capita. È questo non un segno di realismo, ma solo di resa.

Alcuni osservatori e addetti ai lavori hanno commentato l’episodio degli ingegneri netturbini collegandolo ad un presunto, eccessivo, tasso di flessibilità del nostro sistema e, impropriamente, associando il concetto di flessibilità a quello di precarietà, senza invece tener conto del vero limite che contribuisce a generare queste dinamiche: la rigidità.

L’ingegnere può sperare di fare l’ingegnere solo in presenza di un mercato del lavoro sufficientemente flessibile, dove cioè gli organici delle aziende sono sottoposti a periodici aggiustamenti con l’inserimento di nuove risorse umane, mantenendo inalterati i diritti fondamentali dei lavoratori, ma non quello all’inamovibilità.

Confondere la flessibilità con la precarietà è un errore concettuale ed empirico fatale che paghiamo a caro prezzo, così come scambiare la stabilità con la rigidità; è il mercato del lavoro rigido che consolida nel tempo posizioni socio lavorative precarie, negando di fatto il legittimo obiettivo di stabilità.

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