Io credo nelle persone

I vespisti (o guidatori di monopattino) che, nelle estati del decennio in corso, volessero azzardare itinerari morettiani, sfiderebbero intanto il parere di tutti i tour operator. Convinti che Roma, fra buche e sampietrini, offra oggi a quel tipo di scorribande una piattaforma ostile e pericolosa. Lo era anche trenta anni fa? Un po’ meno?

Un aleatorio sondaggio (francese) di qualche tempo fa metteva Roma in fondo alla classifica delle metropoli europee per qualità della vita. Unico dato positivo: seconda al mondo per il cinema. Bisognerebbe comunque chiedere a Nanni Moretti, che nell’estate del 1992 e poi, di nuovo, in quella del 1993 – per essere precisi, proprio il 15 agosto, che cadeva di domenica – ebbe voglia di farsi seguire da una troupe mentre girovagava per le strade deserte della capitale.

L’idea era quella di prendere congedo per sempre dal consolidato alter ego Michele Apicella, di liberarsene, tornando a essere Nanni Moretti. Così doveva venir fuori un corto, un piccolo film eccentrico, da proiettare solo per gli spettatori del cinema gestito a Roma da Moretti, il Nuovo Sacher. Un’opera anomala, volutamente orientata a una minoranza.

E invece Caro diario si sarebbe trasformato in un cult quasi trasversale, a cui perfino i non morettiani riconoscono una geniale intuizione poetica. Voler parlare a pochi, o per pochi, e riuscire a parlare a molti. Come funziona? Moretti abbandona il nervosismo esagitato di Apicella – quello di Io sono un autarchico, di Ecce Bombo e di Palombella rossa – per fare spazio ai tic e alle stranezze altrui; per mettersi – come spiegò in un’intervista – in ascolto: «Non volevo riproporre in eterno quel personaggio rissoso e insieme puro che reagiva con durezza alla superficialità degli amici, non volevo ripetere all’infinito la dinamica che si instaurava sempre nei miei film tra lui e gli altri».

Così, Moretti non urla più, non mette più in scena la propria intolleranza: «Sorrido tollerante», dice. Vero. E quando arriva a definire – fermo a un semaforo, parlando con uno sconosciuto al volante – la propria appartenenza a una minoranza, con autoironia lascia che l’automobilista sgommi via piantandolo là, senza aggiungere mezza parola. Ma due passaggi, nella proverbiale affermazione, rischiamo di restare in ombra. Il primo: «Stavo pensando una cosa molto triste». Il secondo: «Io credo nelle persone».

Si potrebbe ragionare a lungo su quella tristezza, o malinconia. E si dovrebbe ragionare tanto più a fondo su quella premessa. Anche o soprattutto laddove appare contraddittoria. «Però non credo nella maggioranza delle persone», aggiungeva Moretti: è snobismo? O è il sano contrario di un ecumenismo ipocrita, peloso, di facciata?

Moretti, d’altra parte, rispondendo a un critico francese che gli addebitava di «stare dalla parte delle minoranze», tenne a precisare: «Stare dalla parte delle minoranze è una cosa un po’ diversa. Sembra la stessa frase, eppure suona come una dichiarazione di principio, ideologica. Dire: ‘io starò sempre dalla parte delle minoranzesignifica: ‘io difenderò sempre le minoranze contro il potere’. Invece dire, come faccio nel film, ‘mi troverò sempre a mio agio con una minoranza di persone’ è una cosa un po’ diversa. È un atteggiamento non ideologico ma istintivo, un atteggiamento più personale, non so se per questo meno politico. È più una sensazione».

D’altra parte, è appunto per sensazioni, per suggestioni che procede Caro diario: come accade nella forma testuale evocata dal titolo, tutto è in movimento. La Vespa fra i quartieri e le case. Nanni malato, di studio medico in studio medico. E ancora, nell’episodio ambientato alle Eolie, lo spostamento di isola in isola. L’intuizione, in questo caso, venne al regista considerando la rivalità fra turisti, «che sceglievano un’isola e solo quella, mentre consideravano sbagliate le scelte degli altri, che invece avevano preferito un’altra isola non lontano da lì. Tutti molto fieri delle proprie scelte, disprezzavano le scelte degli altri». Negli appunti preparatori del film, Moretti evoca Musil, le pagine in cui il grande scrittore austriaco irrideva capannelli, scuole, sètte – ciascuna col suo papa, «assolutamente ignoto ai non iniziati, ma dal quale gli iniziati si ripromettono la salvazione del mondo». Suona familiare?

Nell’estate del ’93, mentre faticosamente, più che controvoglia, usciva di scena un’intera classe politica (Claudio Rinaldi, nel numero del ferragosto ’93 dell’Espresso, compilava uno sciocchezzaio con le parole fumose di leader non rassegnati al tramonto), e mentre Berlusconi preparava la sua discesa in campo (sempre sull’Espresso: E il Cavaliere disse: Bossi, non mi piaci più), mentre tutto ciò accadeva, dopo le monetine del Raphael, dopo le morti di Gardini e Cagliari, dopo le bombe a Firenze, Milano e Roma, il Moretti minoritario metteva in guardia la sua generazione dal settarismo.

«Una generazione che aveva voluto credere nella totalità della politica e dell’ideologia si era poi rifugiata nel ‘particolare’, riservandogli una nuova, accanita militanza». Non ci siamo mossi di molto da lì. E resta più che aperta – nell’Italia nervosissima del presente – la sfida di immaginare a questo punto una minoranza civile, né eccessivamente compiaciuta, né in armi. Senza complessi di superiorità antropologica e perfino capace – cosa difficile e rara – di far quadrare parole e gesti. Immune dalla tentazione di contribuire alla fabbricazione quotidiana di nemici, di «gridare cose orrende» – ciò che Moretti rimproverava a molti suoi coetanei – in una gara oscena a essere più intolleranti degli intolleranti.

Perché poi il nervosismo, il malumore escono dal perimetro dei temi d’attualità e invadono il quotidiano: tutti incattiviti, schiacciati dal disincanto e, allo stesso tempo, tutti illusi di avere ragione. Il discorso pubblico, così, non fa nessun passo avanti. E gli italiani, senza più bandiere, tirannici figli unici come i bambini isolani di Caro diario, rischiano di trovarsi iscritti ciascuno a un nuovo partito. Il Partito-Me stesso. Moltiplicate per sessanta milioni di cittadini, e avrete una sensazione di soffocamento. Ma anche l’immagine dell’unica possibilità che ci resta: lasciare i panni dei professionisti del ghigno, smettere di pensarsi sempre e solo contro, scegliere di essere di nuovo per qualcosa – intensamente, appassionatamente. Qualcosa che non sia solo il proprio giardino (ancora Caro diario: «Questo mi spaventa: cani dietro ai cancelli»), o il proprio magazzino di certezze.

Qualche anno fa, mentre lavoravo a un libro sul suo cinema, ho cercato di capire da Moretti se lo infastidisse l’aggettivo profetico che spesso gli si attribuisce. Mi ha risposto che il cinema e la letteratura non devono raccontarci solo quello che non riusciamo ancora a vedere, ma anche ciò che non riusciamo più a vedere. Poi ha aggiunto: «Le profezie non c’entrano, sono semplicemente stato un po’ attento».

Ecco: anche in un film forse sottovalutato e poco compreso come Tre piani il discorso continua nello stesso solco.

«Sveglia! Il mondo è più grande di questo condominio», dice Margherita Buy in una scena. In anticipo sulla pandemia e sui confinamenti (il film, girato prima, è uscito nel 2021). I personaggi, i protagonisti, siamo noi: come in uno specchio. Induriti, segnati; più chiusi che realmente aperti, più ansiosi che solari, goffi e incerti come dopo un trauma ortopedico. Atterriti, stravolti, confusamente carichi di desiderio anche erotico, rabbioso, e soprattutto: suscettibili. «Che cosa stava succedendo? Cosa aleggiava nell’aria? Litigiosità. Suscettibilità a fior di pelle. Indicibile insofferenza. Una generale tendenza al battibecco velenoso, a crisi di rabbia che potevano addirittura sfociare in colluttazioni…». Una cronaca di questi anni? No, Thomas Mann un secolo fa. A un paio di colluttazioni si assiste anche nel film di Moretti. Segno di una esasperata insicurezza di sé, e di come «il minuto e fragile corpo umano» possa reagire (male) quando si trova nel mezzo di un campo di flussi distruttivi ed esplosioni.

Un film ispirato a un romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, e girato prima della crisi sanitaria, sembra rimandarci un’immagine di noi scabra, senza lusinghe, perfino troppo esatta. Un condominio, le finestre accese, bambini, ragazzi, adulti, vecchi. E la verità ambigua di ciascuno, l’attesa di essere compresi, cioè perdonati.

Nella fotografia di gruppo c’è anche chi vorrebbe restarne fuori, con la propria aria di sufficienza, con il sarcasmo facile. In un’epoca che fa dell’ironia a tutti i costi l’unica moneta di scambio sociale e social, Moretti qui azzera l’ironia (la ritrova intatta ma più calda nel Sol dell’avvenire). Non dev’essere un caso. E mette in scena paure, ossessioni, inadeguatezze, spettri, li stipa tutti nello stesso condominio, confinando i corpi degli attori in quelle stanze, lasciando che piangano, godano, si disperino, si arrovellino alla ricerca di un equilibrio impossibile fra il dentro e il fuori. La casa e la strada. La propria cucina e il mondo. Facendoli scontrare, i suoi personaggi, e fare scintille per via di incomprensioni e differenze che sembrano radicali, insuperabili, irriducibili. Ma poi sono tutti costretti ad accettare, a riconoscere, magari senza dirlo, un disperato bisogno di comunità: il sol dell’avvenire emana o torna a emanare timidamente il suo bagliore.

«Io credo nelle persone»: c’è un punto, un passaggio in cui siam costretti a capire – anche dolorosamente – di avere bisogno degli altri. La giovane madre sola interpretata da Alba Rohrwacher chiede alla vicina di casa di fermarsi e di starle accanto mentre fa il bagnetto alla figlia neonata: «Così, da sola, ho paura di tutto… Con lei qui, adesso è diverso, è tutto più vero».


Questo articolo è un estratto/anticipazione di un volume monografico su Nanni Moretti curato da Paolo Di Paolo e pubblicato sulla rivista quadrimestrale del Centro sperimentale Cinematografia, Bianco e Nero.

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