Affrontare il discorso su Iosif Aleksandrovič Brodskij, poeta e scrittore russo, Premio Nobel per la letteratura nel 1987, non è mai facile per la prospettiva emotiva in cui ci immerge da subito, con una scrittura che mette in luce la sua straordinaria esperienza umana, imprescindibile dall’opera.
Nato il 24 maggio del 1940 nell’allora Leningrado, oggi San Pietroburgo, morto il 26 gennaio 1996 a New York e, per suo espresso desiderio, sepolto nel cimitero dell’isola di San Michele a Venezia.
Tra queste date si inseriscono le sue scelte di poeta – «poeta – traduttore», come si è autodefinito già al primo arresto nel 1961, e successivamente nel 1964, in risposta a chi lo ha mandato al confino nel sovchoz Norinskaja, con l’accusa di essere un «parassita sociale». Definizione questa confermata dopo la prima apparizione pubblica, nel palazzo della cultura a Leningrado nel 1966, con la poesia dal titolo Il cimitero ebraico, mentre le sue poesie venivano lette in samizdat.
Era considerato un dissidente, un indifendibile straniero in patria perché alla ricerca della verità senza equivoci. Mandato in esilio il 4 giugno del 1972, è stato immortalato al suo arrivo all’aeroporto di Vienna, accolto da Wystan H. Auden, poeta e da Carl Ray Proffer, professore all’Università del Michigan, due personalità che nella vita e nell’opera di Brodskij hanno avuto un’importanza fondamentale.
Auden stava scrivendo la prefazione per la sua prima raccolta di poesie in traduzione inglese in cui affermerà che anche una rapida lettura rivelerà che Brodskij, «come Van Gogh e Virginia Woolf, ha una straordinaria capacità di immaginare oggetti materiali come segni sacramentali, messaggeri dell’al di là».
E, la replica di Brodskij fu: «Auden è Orazio del XX secolo». Gli dedicherà poesie e un saggio divenuto leggendario Per compiacere un’ombra, scritto nel 1977, quattro anni dopo la morte del poeta inglese. Nello stesso anno diventerà cittadino americano e il suo nome nella trascrizione inglese diventa Joseph Brodsky. Così oggi sono due le letterature che si contendono Iosif Brodskij e, a ragione, quella russa e quella americana.
Nel frattempo, pubblica i primi libri di saggistica Fuga da Bisanzio e il Canto del pendolo del 1987 che dedica ai genitori e a Carl Ray Proffer.
In esilio – che è, come lo definisce Simon Weil «una dimensione metafisica, non fattuale o storica», Brodskij pensa alla natia Pietroburgo che incorona «la città più bella del mondo» e nomina suoi illustri figli A.S. Puškin, F.M. Dostoevskij, A. Belyj, S.A. Esenin, A.A. Blok, A.A. Ahmatova, solo per citarne alcuni.
Sono la sua famiglia letteraria russa, e sono non di meno i suoi maestri, con cui si confronta e verso i quali si sentirà sempre debitore.
Molti di questi scrittori avevano visitato l’Italia e descritto le città e il paesaggio italico e, seguendo le loro orme, Brodskij colma le sue inquietudini mai sopite e accoglie lo spirito delle città italiane con i loro protagonisti di cui descrive la speciale aura.
Mi concedo una nota personale, che in qualche maniera spiega l’effetto Brodskij su alcuni miei saggi dedicati alla sua opera e sulle tesi di laurea date ai miei studenti, dopo un incontro con il poeta nel 1988, al Festival Internazionale della poesia a Belgrado, dove, è risaputo, in tempi di pace era passata la migliore poesia mondiale. Sento ancora nelle orecchie i versi salmodiati da Brodskij che sanno di sacro, con il pubblico in piedi, consapevole di vivere un’esperienza unica.
Il rispetto ossequioso non mi consentiva di avvicinarmi a Brodskij. È stato mio padre che mi ha letteralmente spinto a salutarlo «nella sua lingua». Lo devo a lui se sono riuscita a intessere una conversazione informale con Brodskij sulla poesia di Puškin, Io vi ho amata: l’amore ancora, forse, / Non si è spento del tutto nella mia anima, che abbiamo recitato a memoria, e poi abbiamo condiviso un’ammirazione autentica per Montale e la poesia italiana.
La tecnica della scrittura di Brodskij, già da principio autoreferenziale, cosa comune al poeta, è condivisione perché dedicata agli incontri tra simili, amici, poeti e quanti con lui vivono il presente ma con lo sguardo sempre rivolto a ritroso.
Nei pochi anni trascorsi sulle rive della Neva, le sue letture si concentrano sul pensiero di Tito Livio e sulla sua opera Ab urbe condita con osservazioni generali sulla storia che non è magistra vitae, poiché tutti gli eventi sono dominati da una forza superiore che Brodskij chiama fato.
È poeta iperboreo, custode della tradizione classica, incantato dall’Adriatico.
Lo si evince dalle descrizioni di Venezia, Firenze e Roma, strettamente legate a San Pietroburgo, luoghi in cui la nostalgia diviene l’ispirazione che recupera la nobiltà primigenia.
La sua non è una descrizione sistematica e nemmeno una comparazione, è una continuità su temi già tracciati che include il disagio di fronte ai discorsi noiosi e convenzionali che riguardano il suo paese. Molte delle pagine, soprattutto quelle dell’opera Fondamenta degli incurabili, descrivono il fastidio del poeta di fronte a ciò che non riluce di autenticità.
Questa sua necessità di aderire alla verità concorre alla dinamicità del contenuto della prosa e si ripete di testo in testo, quale pensiero consolidato. La realtà è metafora per Brodskij poeta che con stupore coglie e descrive le atmosfere con parole nuove.
Aveva subìto la corsa del tempo e si potrebbe considerare il precursore del post- umano – termine oggi in uso -, ma che lascia spazio anche ad altre interpretazioni.
La reverie poetica di Venezia, Firenze, Roma, rilettura e rivisitazione di altri amati poeti, diventa un suo sentire le atmosfere e renderle percettibili. Non a caso Venezia è la città dove aveva trascorso ogni Natale dopo la cacciata da Leningrado nel 1972.
Venezia è una specie di rifugio e protezione, la parola che si confessa. Venezia è la visione del Paradiso, il giardino dell’Eden a cui Adamo non può più fare ritorno. Brodskij come l’Ulisse di Dante lascia la «petrosa Itaca» e varca le colonne d’Ercole in direzione del non ritorno. La Venezia delle Strofe veneziane e delle Fondamenta degli incurabili è per il lettore la sublimazione della bellezza.
Venezia è «conforto» – mi aiuta il termine dello scrittore serbo Miloš Crnjanski che lo volle usare per Michelangelo, la sua ombra e l’incognita del non finito, a cui assegna il vero senso dell’eterno. Venezia da cui attingere la biografia di Iosif Brodskij conserva la sua immagine corporea.
Nient’altro confonde con l’Italia che considera una percezione personale e, per chi esercita il mestiere di scrittore, è questa una visione contemporanea e antropologica corrispondente all’ideale, in tutte le sue manifestazioni, a cui l’uomo aspira.
Ha descritto l’indole di Venezia nella particolare versione in cui il fruire del tempo è del tutto personale. Con la precisazione riguardo al senso del tempo che, in Brodskij vive nella poesia. Seppure non sappiamo cosa abbia cercato in Italia, sappiamo cosa ha trovato: un legame inscindibile, prima della morte e anche dopo la morte.
L’Italia è stata una continua riflessione e sollecitazione a interloquire con gli amici dedicatari dei suoi versi, protagonisti della sua «famiglia mentale», come il poeta l’ha definita, che meriterebbe una maggiore attenzione critica.
È la sua visione dell’umanità: Brodskij esprime gratitudine e umiltà a chiunque gli abbia manifestato amicizia e abbia fatto parte della sua vita.
E, tra gli italiani, Benedetta Craveri, a cui dedica il sonetto Elegie romane, e Giovanni Buttafava, suo traduttore, di cui piange la morte e a cui dedica Vertumno. La poesia In Italia, dedicata a Roberto e Fleu Calasso, chiude la prima raccolta di poesie in lingua italiana del 1986.
È straziante l’addio all’amico Buttafava, interprete del suo pensiero espresso in italiano, pari a quello in russo: «Ma nessuno, nessuno mio/ Vertumno, si è allietato tanto/ per lo zampillo diafano…/ la forza prensile della scrittura».
L’intensità delle parole ricorda il poema Kaddish di Allen Ginsberg e la veglia al cospetto del corpo della madre morta.
Iosif Brodskij è poeta cosmo-contemporaneo, rappresentante di una scrittura che si basa sulla forza creatrice, qui e ora inscindibile dalla sua origine.
Lo dimostrano ogni riga scritta e la lingua ispirata, dallo stile intimistico che non sperimenta, perché attinge dall’immaginazione che arriva dal proprio vissuto.
Il viaggio dell’esilio sarà senza ritorno, intrapreso con i soli mezzi di cui dispone, lo studio e le letture di Ovidio e di Dante, in primis, e con la sola certezza che il racconto dell’esiliato, a detta dello stesso poeta, sarà scritto «per rimanere».
Nel discorso del Premio Nobel dal titolo Un volto non comune, tenuto il 10 dicembre del 1987, e anche nel discorso di accettazione in cui sono presenti i poeti russi nominati precedentemente e tutti quelli da lui amati, Brodskij dirà che il premio ha conferito «un aspetto di permanenza», alla sua opera.
Pronuncia la nota frase che «è maledettamente lunga la strada per arrivare da Pietroburgo a Stoccolma», metafora che afferma la forza della sua lingua poetica.
Conoscendo l’opera di Iosif Brodskij, la scelta di Venezia, quale sua eterna dimora, trova infine una spiegazione: assicurare alle sue poesie l’aria tersa e la brezza al meriggio.
Il vento ha lasciato il bosco
ed è volato in cielo
sospingendo le nuvole
e il biancore del soffitto.
E, come la gelida morte,
il boschetto resta solo,
senza desideri per il futuro,
senza segni particolari.
(Gennaio 1964, Inedito)
La traduzione dal russo dell’inedito è di Stevka Šmitran
Letture
Iosif Brodskij, Poesie (a cura di Giovanni Buttafava), Adelphi, 1986
Iosif Brodskij, Poesie italiane (a cura di Serena Vitale), Adelphi, 1986
Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, Adelphi, 1991
Iosif Brodskij e gli altri. Quaderni veneziani, Josif Brodskij i drugie, Venecianskie tetradi, Mosca 2004
Stevka Šmitran, Saggistica di Iosif Brodskij (Esseistika Iosifa Brodskogo), SpbGU, San Pietroburgo 2005